venerdì 27 giugno 2014

Processo Civile Telematico - Novità del D.L. 24/06/2014 n. 90

Nella tarda serata del 24 giugno 2014 è stato pubblicato, in Gazzetta Ufficiale, il Decreto Legge 24 giugno 2014 n. 90“Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari”, che è entrato in vigore il 25 Giugno 2014Le norme contenute nel titolo IV del citato decreto hanno apportato significative modifiche alla normativa del processo civile telematico.
Tra quelle più importanti vi sono:
Obbligo del deposito in modalità telematiche:E’ stato stabilito che l’obbligo del deposito in modalità telematiche riguarda atti dei procedimenti indicati dall’art. 16-bis, co. 4 D.L. n. 179/2012 (atti processuali e documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite) iscritti a ruolo dal 30 giugno 2014. Dal 30 giugno 2014 vi è facoltà di deposito telematico per gli atti relativi ai procedimenti già pendenti alla data del 30 giugno 2014 e indicati dall’art. 16-bis, co. 4 D.L. n. 179/2012 e per gli ulteriori atti (diversi da quelli indicati dall’art. 16-bis, co. 4 D.L. n. 179/12) per i quali sia stato rilasciato, all’ufficio giudiziario, il valore legale. Il deposito degli atti in modalità telematiche è obbligatorio a partire dal 31 dicembre 2014 per i procedimenti diversi dalla domanda di ingiunzione (art. 16-bis comma 4, d.l. n. 179/2012) già pendenti al 30 giugno 2014.
In buona sostanza per tutti i processi pendenti alla data del 30 Giugno 2014 l’obbligo del deposito in modalità telematiche è stato fissato a partire dal 31 Dicembre 2014. E’ da precisarsi che nella norma novellata (per la verità piuttosto sommaria) non si esplicita espressamente la consulenza tecnica di ufficio, ma occorre osservare che essa era parte integrante degli atti soggetti a tale obbligo e quindi una sua esclusione – a parere di chi scrive – doveva essere precisata. Qualora si voglia depositare gli atti in via telematica è importante sapere che il deposito potrà perfezionarsi solo con tale modalità.
Pertanto, la definitiva entrata in vigore delle previsioni obbligatorie è fissata per il 31 Dicembre 2014, salva l’anticipazione eventualmente disposta con successivi decreti.
Momento del perfezionamento del deposito telematico (art. 51,  D.L. n. 90/2014):L’art. 51 del decreto legge in parola da una parte conferma, come momento di perfezionamento del deposito degli atti telematici quello indicato dalla ricevuta di avvenuta consegna della PEC generata dal gestore PEC del Ministero della Giustizia ma, adesso, prevede espressamente che il deposito è tempestivamente eseguito quando la ricevuta di avvenuta consegna arriva entro la fine del giorno di scadenza (ossia ore 23.59) applicandosi le disposizioni di cui all'articolo 155, co. 4 e 5 c.p.c..
Viene quindi meno quanto disposto delle regole tecniche del processo telematico all’art. 13 del D.M. n. 44/11 comma 3 il quale prevedeva che «Quando la ricevuta e' rilasciata dopo le ore 14 il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo».
Eccedenza del limite di 30 MB (art. 51, D.L. n. 90/2014):L’art. 51 D.L. cit. stabilisce che, nel caso in cui “la busta” da depositare telematicamente ecceda il limite di capacità (30 MB) previsto dalle regole tecniche, sarà possibile procedere al successivo invio di ulteriori “buste”, che però potranno considerarsi tempestive se depositate (tutte) entro il termine (ore 23:59 del giorno di scadenza).
(fonte:  www.altalex.com - www.paolofrediani.it)

giovedì 26 giugno 2014

Infiltrazioni nell'immobile, riconducibili a difetto di costruzione…… (da www.condominioweb.com)

La garanzia di buona esecuzione dell'opera ex art. 1669 c.c. deve essere esercitata entro il termine di un anno che decorre dal giorno in cui il committente ha raggiunto un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti di costruzione.
Questo il principio di diritto ribadito dal Tribunale di Genova che, con la sentenza n. 537 del 13 febbraio 2014, ha accolto la domanda risarcitoria, in quanto tempestivamente presentata dalla proprietaria entro un anno dalla effettiva conoscenza dei difetti e della loro derivazione causale dall'imperfetta esecuzione dell'opera.
Il caso. La proprietaria dell'immobile citava in giudizio la società venditrice chiedendo il risarcimento dei danni causati da infiltrazioni presenti nell'immobile e riconducibili a difetto di costruzione. Si costituiva la società venditrice, la quale eccepiva che l'attrice, che aveva acquistato l'immobile nel 2005, aveva denunciato le infiltrazioni in questione solo nel 2011. A dire della convenuta, peraltro, tali vizi di edificazione erano già stati riscontrati durante un precedente accertamento tecnico preventivo promosso dai alcuni proprietari di altre unità immobiliari adiacenti e, quindi, erano già conosciuti dall'attrice molto prima della denuncia. Chiedeva, dunque, il rigetto della domanda, in quanto promossa oltre il termine annuale previsto dall'art. 1669 c.c.
La garanzia di buona esecuzione dell'opera. L'art. 1169 c.c. (rovina e difetti di cose immobili) configura una forma speciale di responsabilità extracontrattuale disponendo che, quando si tratta di edifici o di altre cose immobili destinate per la loro natura a lunga durata, se, nel corso di dieci anni dal compimento, l'opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovina in tutto o in parte, ovvero presenta evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l'appaltatore è responsabile nei confronti del committente e dei suoi aventi causa, purché sia fatta la denunzia entro un anno dalla scoperta. La garanzia, che per consolidata giurisprudenza è esercitabile anche nei confronti del costruttore-venditore, deve essere promossa entro il termine perentorio di un anno dalla denuncia del vizio.
Oggetto della garanzia. I gravi difetti dell'opera di cui all'art. 1669 c.c.ricorrono anche se non si producono fenomeni tali da influire sulla stabilità della costruzione e consistono in qualsiasi alterazione, conseguente ad un'insoddisfacente realizzazione dell'opera, che, pur non riguardando le sue parti essenziali, ne compromettono la conservazione, limitandone sensibilmente il godimento o diminuendone in maniera rilevante il valore. Pertanto, la Cassazione si è spinta fino a considerare rientranti nella nozione di gravi difetti anche le infiltrazioni d'acqua determinate da carenze d'impermeabilizzazione e da inidonea realizzazione degli infissi(Cass. civ. 11/06/2013, n. 14650).
I tempi di esercizio della garanzia. La sentenza in commento si sofferma sulla esatta individuazione del termine entro cui va azionata la garanzia in esame. Il diritto del committente ad ottenere il risarcimento dei danni si prescrive in un anno dalla denuncia; quest'ultima deve essere promossa entro un anno dalla scoperta del vizio, a pena di decadenza.
È necessaria la conoscenza oggettiva del vizio. Il Tribunale di Genova ricorda che, poiché la denuncia dei vizi o del pericolo di rovina dell'opera costituisce un presupposto dell'azione, il soggetto interessato ha “l'onere di fornire la prova di avere operato la denunzia entro l'anno dalla scoperta”. Detto termine “decorre dal giorno in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall'imperfetta esecuzione dell'opera, non essendo sufficienti, viceversa, manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti” (tra le altre, Cass. civ. 23 gennaio 2008, n. 1463).
Nel caso di specie è stato accertato che l'attrice ha raggiunto la piena conoscenza delle cause delle infiltrazioni solo nel novembre 2011; e poiché la citazione è intervenuta nel febbraio 2012, l'azione deve ritenersi esercitata tempestivamente.
Per il Tribunale, in particolare, il precedente accertamento tecnico, cui faceva riferimento la convenuta,risulta ininfluente, poiché la proprietaria non ha promosso, né ha preso parte a quel procedimento. Accolta dunque la domanda risarcitoria dei danni causati dalle infiltrazioni denunciate, che il giudice ha liquidato in circa 6 mila euro.


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mercoledì 25 giugno 2014

Ancora un articolo sulla servitù di passaggio……..!!!!! (www.condominioweb.com)

In tema di condominio negli edifici e di azioni concernenti il riconoscimento dell'esistenza di una servitù di passaggio (così detta actio confessoria servitutis), l'amministratore è sprovvisto di qualunque potere processuale ed extra-processuale.
Se i condomini ritengono di dover agire per far riconoscere l'esistenza di questo diritto reale su cosa altrui devono farlo personalmente o conferendo procura speciale all'amministratore; solo in questo caso il mandatario della compagine può promuovere un simile giudizio.
Così ha parlato, a dire il vero senza novità rispetto al passato, la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 12678 depositata in cancelleria il 5 giugno 2014. Al di là della conformità al consolidato orientamento maggioritario, il caso risolto dagli ermellini merita attenzione perché consente di riconsiderare alcuni aspetti dei poteri dell'amministratore in relazione alle azioni di natura reale.
Servitù
La servitù, dice l'art. 1027 c.c., consiste nel peso imposto sopra un fondo per l'utilità di altro fondo appartenente a diverso proprietario.
Da questa scarna definizione è possibile trarre gli elementi fondanti della servitù:
a) si tratta di un diritto reale su cosa altrui (altrimenti detto ius in re aliena o diritto reale minore);
b) l'utilità deve riguardare il fondo e non il mero vantaggio personale del proprietario.
Per spiegare meglio quest'ultimo aspetto si faccia proprio riferimento alla servitù di passaggio: essa consiste nella possibilità (e tal volta nella necessità, si pensi al passaggio coattivo) di transitare su un fondo altrui per accedere, alle volte solamente in modo più comodo, al proprio predio.
In questi casi l'utilità sta appunto nel fatto di poter godere o di poter meglio godere di un proprio bene; insomma per il caso del passaggio l'utilità è strettamente legata al fondo.
Non rappresenta una servitù, invece, il diritto di parcheggiare sul fondo del vicino; quando è stata chiamata a pronunciarsi su questo argomento la Corte di Cassazione ha avuto modo di specificare che “il parcheggio dell'auto non rientra nello schema di alcun diritto di servitù, difettando la caratteristica tipica di detto diritto, ovverosia la "realità" (inerenza al fondo dominante dell'utilità così come al fondo servente del peso), in quanto la comodità di parcheggiare l'auto per specifiche persone che accedono al fondo non può valutarsi come una utilità inerente al fondo stesso, trattandosi di un vantaggio del tutto personale dei proprietari" (Cass. n. 1551 del 2009)” (così Cass. 23 settembre 2009 n. 20409).
Insomma parcheggiare più vicino al proprio fondo non ne consente un uso migliore e non conferisce alcuna utilità in relazione ad esso ma solamente con riferimento alla semplice comodità del suo titolare.
Servitù condominiali
La servitù, quale diritto su cosa altrui, può riguardare anche il condominio, tanto dal lato attivo, quanto da quello passivo: in buona sostanza il condominio può essere fondo servente, oppure fondo dominante.
In tale contesto, ciò che conta – questo è il cuore della sentenza n. 12678 del 5 giugno 2014 – è che le eventuali azioni di riconoscimento della servitù a favore del condominio siano iniziate dai singoli condomini e non dall'amministratore; questi, ricorda la Cassazione, ha poteri – sostanziali e processuali – limitati alla gestione delle cose comuni, nel rispetto dell'art. 1130 c.c.; “ove si tratti invece di azioni a tutela dei diritti esclusivi dei singoli condomini, tale legittimazione può trovare fondamento soltanto nel mandato conferito all'amministratore da ciascuno dei partecipanti alla comunione, e non nel meccanismo deliberativo dell'assemblea condominiale, ad eccezione dell'equivalente ipotesi di una unanime, positiva deliberazione di tutti i condomini (cfr. Cass. 3 marzo 1984 n. 4623; Cass. 29 febbraio 1988 n. 2129; Cass. 11 marzo 1988 n. 2401; Cass. 3 aprile 2003 n. 5147)”. (Cass. 5 giugno 2014 n. 12678).
L'amministratore, quindi, a fronte dell'insistenza di alcuni condomini nell'agire in giudizio per ottenere il riconoscimento di una servitù di passaggio non far altro se non invitarli ad agire personalmente o, se utile, munirsi di procura speciale per intraprendere il giudizio per loro nome e conto.




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giovedì 19 giugno 2014

Secondo articolo su IL TECNICO LEGALE , n. 6 del 18 Giugno 2014

Si segnala l'uscita del secondo articolo sul periodico "IL TECNICO LEGALE" del Gruppo Sole24 Ore.


L'articolo dal titolo "Il Nuovo Amministratore e il possibile contenzioso" é stato redatto da Simone Scartabelli ed è contenuto nel numero 6 uscito il 18 Giugno 2014 e tratta del contenzioso legale riguardante la nomina dell'amministratore di condominio.

martedì 17 giugno 2014

Servitù di passo: presenza del cancello….. (da condominioweb)

Tizio è proprietario del fondo Alfa e Caio di quello Beta, confinante con il primo. Per accedere a quest'ultimo è Caio ha diritto di passare da quello Alfa; ad un certo Tizio fa apporre un cancello al suo fondo. Il suo vicino non ci sta e gli fa causa, ma la perde e perde tutti i gradi di giudizio fino alla Cassazione.
Abbiamo utilizzato nomi di fantasia, eppure il fatto è vero ed ha potato la Cassazione, il 15 maggio 2014, a pronunciare la sentenza n. 10700.
Servitù di passaggio, chiusura del fondo servente, aggravamento della servitù e onere della prova di tale fatto; ruota attorno a questi concetti la decisione dei giudici di piazza Cavour.
Servitù di passaggio
Si tratta del diritto del proprietario del fondo dominante di passare sul fondo servente per accedere alla sua proprietà. la servitù di passaggio può essere costituita:
a) per contratto;
b) per testamento;
c) per sentenza (nel caso di fondo dominante assolutamente o parzialmente intercluso in relazione alla sua destinazione);
d) per usucapione;
e) per destinazione del padre di famiglia.
Queste ultime due modalità costitutive trovano applicazione solamente nelle ipotesi di servitù apparenti (cfr. artt. 1061 e ss. c.c.).
Siccome la servitù consiste in un peso sul fondo servente per l'utilità di altro fondo (quello dominante) il titolare del primo deve astenersi dal compiere atti o dal porre in essere comportamenti che possano aggravare l'esercizio del diritto (cfr. art. 1067 c.c.), ma al contempo non è tenuto a far nulla per garantirne l'esercizio. Si tratta del principio espresso dal brocardo latino servitus in faciendo consistere nequit.
Chiusura del fondo
Ai sensi dell'art. 841 c.c.
Il proprietario può chiudere in qualunque tempo il fondo.
Si tratta di una regola fondamentale nella disciplina del diritto di proprietà, in quanto, come dice la legge, “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico” (art. 832 c.c.).
In questo contesto generale, mettendo assieme i vari pezzi del puzzle, è lecito domandarsi: la chiusura di un fondo gravato da servitù di passaggio è legittima o la servitù può configurare un limite stabilito dall'ordinamento giuridico, così che possa ritenersi un aggravamento dell'esercizio diritto di passaggio l'apposizione di un cancello a chiusura del fondo servente?
La risposta non è univoca, ossia dipende dal contesto fattuale nel quale ci si trova a fornirla. In linea generale è possibile affermare che spetta al proprietario del fondo dominante fornire prova di tale aggravamento.
È questo quanto hanno detto i giudici di legittimità nella sentenza n. 10700. Il quadro fattuale è quello descritto in principio. Dato quel contesto, si legge in sentenza che “in tema di servitù di passaggio, rientra nel diritto del proprietario del fondo servente l'esercizio della facoltà di apportare modifiche al proprio fondo e di apporvi un cancello per impedire l'accesso ai non aventi diritto, pur se dall'esercizio di tale diritto possano derivare disagi minimi e trascurabili al proprietario del fondo dominante in relazione alle pregresse modalità di transito. Ne consegue che, ove non dimostrato in concreto dal proprietario del fondo dominante, al quale venga consegnata la chiave di apertura del cancello, l'aggravamento o l'ostacolo all'esercizio della servitù, questi non può pretendere l'apposizione del meccanismo di apertura automatico con telecomando a distanza o di altro similare rimedio, peraltro in u contrasto col principio servitus in faciendo consistere nequit (Cass. n. 14179 del 2011; Cass. n. 6513 del 2003)” (Cass. 15 maggio 2014 n. 10700).
D'altronde divieto d'aggravamento non può arrivare a significare totale impossibilità di utilizzazione del fondo servente da parte del suo proprietario. Così fosse, dicono dalla Cassazione, si arriverebbe a stabilire la sostanzialmente immodificabilità del predio assoggettato alla servitù.

Fonte http://www.condominioweb.com/chiusura-del-fondo-con-un-cancello-spetta-al-proprietario-del.2290#ixzz34q6fPnTd
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lunedì 16 giugno 2014

Demolizione e ricostruzione con sopraelevazione, quando la nuova altezza rende l'opera illegittima? (da www.condominioweb.com)

In tema di distanze tra le costruzioni se i regolamenti edilizi locali, sopravvenuti alle costruzioni, dettano norme più stringenti in tema di rispetto delle distanze, chi demolisce e ricostruisce corpi di fabbrica diversi da quelli originari deve rispettare le nuove norme e se non lo fa può essere condannato alla rimozione e/o alla messa a norma.
Il principio appena espresso è stato affermato (rectius: ribadito) dalla Suprema Corte di Cassazione con lasentenza n. 12220 depositata in cancelleria il 30 maggio 2014.
La causa prende il via dopo che il proprietario di un edificio lo aveva demolito e ricostruito (sempre in aderenza a quello confinante): il problema non era la ricostruzione in sé, cosa consentita dalla legge, ma il risultato dell'attività edilizia. Detta diversamente: ciò che era venuto fuori dai lavori era non edificio diverso da quello preesistente in quanto più alto di quest'ultimo.
Il confinante, un condominio, non ci stava: l'opera così realizzata era illegittima in quanto violava le norme dettate dal regolamento edilizio locale in materia di distanze tra le costruzioni anche in ragione della sopraelevazione pratica in corso di ricostruzione.
Al termine del giudizio di Cassazione il condominio ha visto riconosciuta la fondatezza delle proprie doglianze.
La domanda sorge spontanea: possibile che un edificio più alto, per di più costituito in aderenza (quindi senza poter andare oltre determinate distanze), possa essere considerato illegittimo per violazione della normativa dettata in materia di distanze tra le costruzioni?
La risposta è positiva, il perché si giunga è questa soluzione è legato ad alcune variabili. Quando si parla di diritto dell'urbanistica il rischio di far confusione per l'enorme mole di precetti da dover rispettare è altissimo: qui di seguito semplificheremo al massimo l'oggetto del contendere e il perché della decisione, senza con ciò voler banalizzare la questione.
Costruzione, distanze e ricostruzione
Quando si costruisce un edificio è necessario rispettare determinate distanze dalle altre costruzioni.
Ai sensi dell'art. 873 c.c.:
Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore.
Chi costruisce per primo determina le distanze che l'altro deve rispettare: questo precetto prende il nome di principio della prevenzione.
Può accadere che chi ha costruito intenda demolire per ricostruire; molto spesso questa operazione avviene dopo molto anni dall'originaria costruzione sicché sovente le norme edilizie locali possono essere cambiate.
Domanda: quali norme debbono essere rispettate?
Risposta: dipende dal risultato della ricostruzione, ossia se siamo dinanzi ad una ricostruzione sic et simpliciter (una fotocopia o giù di li del precedente stabile) o ad una nuova costruzione.
Come differenziare i due concetti? Secondo la Cassazione, che è tornata sull'argomento con la sentenza n. 12220, “costituisce nuova costruzione qualsiasi modifica della volumetria del fabbricato, derivante sia dall'aumento della sagoma di ingombro sia da qualsiasi sopraelevazione, ancorché di dimensioni ridotte. In entrambi i casi, la normativa da rispettare ai fini delle distanze è quella vigente al momento della modifica suddetta, anche se sopravvenuta rispetto alla costruzione originaria, né rileva la prevenzione, essendo ugualmente obbligati al rispetto della nuova distanza sia il preveniente sia il prevenuto” (Cass. 30 maggio 2014 n. 12220).
Esempi chiarificatori
Esiste un palazzo con un volume X di due piani fuori terra ed lo si ricostruisce con le medesime caratteristiche? Siamo di fronte ad una ricostruzione.
Esiste un palazzo con un volume X di due piani fuori terra ed lo si ricostruisce aggiungendo un piano? Siamo di fronte ad una nuova costruzione.
Nel primo caso si applicano le norme sulle distanze dettate al momento dell'originaria costruzione, nella seconda ipotesi, quelle applicabili al momento della ricostruzione.
Stando così le cose e tornando al caso risolto dalla sentenza n. 12220, perché può essere considerata illegittima una sopraelevazione che, comunque, non ha comportato una violazione delle distanze in senso orizzontale, posto che tra le altre cose i due edifici erano costruiti in aderenza?
Risposta (che è poi quella fornita dalla Cassazione): perché alle nuove costruzioni si applicano le norme vigenti al momento dell'intervento e se quelle norme prevedono limitazioni anche in relazione all'estensione verticale dell'edificio, nell'edificazione del nuovo fabbricato non può non tenersene conto.


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lunedì 9 giugno 2014

Trasformare il tetto del garage in terrazza ed apporvi una ringhiera non vuol dire creare una servitù di veduta (da Condominioweb.com)

Tizio è proprietario di un appartamento al primo piani e di due autorimesse a piano terra di un edificio. Il balcone dell'unità immobiliare confina con questi due locali sicché Tizio decide di collegarlo con la loro copertura ponendo una nuova ringhiera che cinge il tutto.
Quello che si crea, di fatto, è un unico terrazzo. Caio proprietario di altre due autorimesse confinanti con quelle di Tizio non ci sta perché a suo dire l'operazione eseguita dal suo vicino ha creato una servitù di veduta verso il suo fondo e gli fa causa.
I nomi utilizzati sono di fantasia ma la storia è vera ed è arrivato fino alla Corte di Cassazione che ha dipanato la matassa con la sentenza n. 10181 del 9 maggio 2014.
La questione che gli ermellini sono stati chiamati a risolvere era nella sostanza quella posta da Caio: le operazioni riguardanti il balcone ed i tetti delle autorimesse ed in particolare l'apposizione di una ringhiera lungo tutto il lastrico delle suddette autorimesse hanno posto le basi per la creazione di una servitù di veduta?
Servitù di veduta
Il codice civile non ne parla espressamente. La servitù, in linea generale, è quel peso imposto su un fondo per l'utilità di un fondo appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.).
In questo contesto, la servitù di veduta, a dirlo è la Suprema Corte di Cassazione, è quel peso che garantisce al proprietario del fondo dominante il diritto di guardare e di affacciarsi sul fondo vicino (Cass. 12 aprile 2006, n. 8572).
Norme di riferimento per le vedute ed per le distanze delle costruzioni da esse sono gli artt. 905-907 c.c.
In questo contesto di carattere generale la Corte di Cassazione, confermando l' impugnata sentenza di secondo grado, ha negato che l'apposizione di una ringhiera, nella specifica circostanza, potessero configurare la creazione di un diritto reale in re aliena. A dire il vero non è la prima volta che gli ermellini si pronunciano in tal senso. Proprio facendo riferimento ad un precedente analogo, si legge nella sentenza in esame che “l'apertura di una veduta verso il fondo del vicino, ai sensi ed agli effetti degli artt. 905 e ss. c.c., sul fondo che già goda naturalmente di una vista panoramica, in conseguenza di posizione sopraelevata, è configurabile solo quando intervengono opere che aggravino la suddetta situazione naturale (cfr. Cass. 12.6.1982, n. 3597); dall'altro, che un'inferriata posta a separazione tra due fondi anche urbani non può dare luogo all'esercizio di una servitù di veduta, perché anche quando essa consenta di inspicere e di prospicere sul fondo altrui, costituisce pur sempre un'opera avente la funzione di semplice separazione dei fondi, mentre la eventuale possibilità di guardare e di affacciarsi sul fondo del vicino è, in tal caso, reciproca ed esclude, pertanto, quella situazione di soggezione di un fondo nei confronti dell'altro la cui sussistenza è indispensabile per la configurazione del diritto di servitù (cfr. Cass. 27.5.1994, n. 5186)” (Cass. 9 maggio 2014 n. 10181).
In buona sostanza per i giudici di legittimità siccome esisteva già un balcone dal quale prospicere nel fondo altrui e siccome l'inferriata altro non ha fatto che recintare un fondo di proprietà di chi era già proprietario del balcone, non si poteva configurare nessuna nuova servitù né un aggravamento di quella già esistente

Fonte http://www.condominioweb.com/recintare-un-balcone-non-sempre-costituisce-una-servitu-di-veduta.2280#ixzz349yPuoyP
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lunedì 2 giugno 2014

Considerazioni su sottotetti e mansarde…… (da condominioweb.com)

I ricorrenti hanno proposto appello (Cons. stato, sez. IV, 14 maggio 2014, n. 2467), avverso la sentenza di primo grado che ha ritenuto legittimi un permesso di costruire ed il successivo permesso in variante 6 luglio 2010 n. rilasciati dal Comune ad una società di costruzioni per la realizzazione di una palazzina residenziale di quattro piani , ubicata su terreno confinante con quello degli appellanti.
In particolare, per quanto qui interessa, i ricorrenti hanno affermato che:
- la sentenza abbia errato laddove ha sostenuto di non poter considerare la volumetria del sottotetto (che ha un'altezza al colmo superiore a 3m) della palazzina per il fatto che la società di costruzioni si fosse impegnata con atto notarile a mantenere il medesimo non abitabile;
- ai fini della volumetria complessiva sarebbero dovuti essere calcolati i volumi della mansarda, del vano scala e del piano pilotis trasformato in autorimesse.
Volume tecnico: nozione. Per orientamento giurisprudenziale consolidato i volumi tecnici sono quelli "destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno; pertanto non sono tali - e quindi sono computabili ai fini della volumetria consentita - le soffitte, gli stenditori chiusi e quelli do sgombero; e non è volume tecnico il piano di copertura, impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda in quanto dotato di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (Consiglio di Stato, sez.V, 13 maggio 1997 n.483) Sono tali , quindi, solo le "opere edilizie completamente prive di una autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinate a contenere impianti serventi di una costruzione principale, per esigenze tecnico-funzionali della costruzione stessa. Al di fuori di tale ambito, ritiene il Collegio che il concetto non può essere utilizzato né dall'amministrazione né dal privato al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica (cfr. anche T.A.R. Milano - sez.II, 4 aprile 2002 n.1337) .(T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, sent. 9 luglio 2007, n. 1749)
In particolare, la giurisprudenza ha definito i volumi tecnici nei seguenti termini: "volumi tecnici sono quelli destinati esclusivamente agli impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che non possono essere ubicati al suo interno, mentre non sono tali e sono quindi computabili ai fini della volumetria consentita, le soffitte, gli stenditoi chiusi nonché il piano di copertura impropriamente definito sottotetto, ma costituente in realtà una mansarda;in particolare,poi, la realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna costituisce indice rilevatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati (Cons. Stato, sez. IV, 10.7.2013 n. 3666)" (CGA, sez. giurisdizionale, sent. 14 aprile 2014, n. 207)
Relativamente ai sottotetti, inoltre, si è affermato:
a) che la parte di edificio immediatamente inferiore al tetto, a seconda dell'altezza, della praticabilità del solaio, delle modalità di accesso e dell'esistenza o meno di finestre, si distingue in mansarda o camera a tetto (che costituisce locale abitabile), in soffitta (vano inabitabile, ma utilizzabile soltanto come deposito, stenditoio o altro), oppure in camera d'aria sprovvista di solaio idoneo a sopportare il peso di persone o cose e destinato essenzialmente a preservare l'ultimo piano dell'edificio dal caldo, dal freddo e dall'umidità (Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 maggio 2005 n. 2767);
b) che la realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna è indice rivelatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati (Consiglio Stato, sez. V, 31 gennaio 2006, n. 354). (Cons. Stato, sez. IV, sent. 7 febbraio 2011, n. 812).
La pronuncia in esame. Alla luce dell'interpretazione giurisprudenziale sopra richiamata, nel caso in esame il Collegio ha ritenuto: "Ciò che rileva, dunque, al fine della considerabilità del cd. vano sottotetto, è la sua materiale potenzialità di sfruttamento a fini abitativi (il che lo rende pienamente rilevante per tutti gli aspetti inerenti alla legittimità del fabbricato assentito), mentre non assumono alcun rilievo gli impegni, anche assunti per atto pubblico, limitativi delle facoltà di godimento del bene.
A fini edificatori, e quindi per le valutazioni della pubblica amministrazione che deve rilasciare il titolo autorizzatorio ciò che rileva è la effettiva consistenza del volume e la sua concreta utilizzabilità, non già la limitazione unilateralmente assunta delle facoltà dominicali di godimento del bene. (Vivere nel sottotetto non si può. Ecco il perché.)
Le caratteristiche di ciò che si intende realizzare devono essere in concreto ed ex ante valutate dall'amministrazione nella loro oggettività, non potendosi ovviare ad un difetto di valutazione, ovvero ritenere comunque assentibile il progetto, considerando (come non condivisibilmente affermato dalla sentenza impugnata) che "ove le prescrizioni in parola dovessero mai essere violate verrebbe posta in discussione la stessa efficacia del permesso di costruire".
Pertanto, da un alto, il sottotetto, in quanto potenzialmente abitabile, deve essere calcolata nell'altezza complessiva dell'edificio, che nel caso in esame violava le N.T.A. in tema di altezze; dall'altro lato, che ai fini della volumetria complessiva avrebbero dovuto essere calcolati i volumi della mansarda, del vano scala e del piano pilotis trasformato in autorimesse.
Inoltre, la sentenza in commento ha confermato che per costante giurisprudenza la nozione di volume tecnico è relativa in particolare ad "impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati all'interno di questa, connessi alla condotta idrica, termica, ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici al di fuori di tale ambito, al fine di negare rilevanza giuridica ai volumi comunque esistenti nella realtà fisica. Resta dunque estraneo a tale nozione il volume del vano scale ( cfr. V Sez. n. 120 del 2.3.1994)".
Per effetto dell'inclusione del sottotetto e del vano scala, il volume totale così realizzato ha reso illegittimo il permesso di costruire in sanatoria, con conseguente accoglimento del ricorso instaurativo del giudizio di I grado, e annullamento dei provvedimenti con il medesimo impugnati.
Conclusione. Dalla pronuncia esaminata emerge, quindi, che il permesso di costruire è un atto amministrativo ad efficacia istantanea che non può essere incisa da un comportamento successivo alla realizzazione del fabbricato, e pertanto sono irrilevanti come già detto, ai fini della valutazione di legittimità del titolo edilizio, obblighi unilateralmente assunti.
La valutazione di un'opera come volume tecnico, pertanto, deve avvenire sempre ex ante e mai ex post,in caso contrario si potrebbero far rientrare in tale nozione opere di cui il privato di è impegnano ad un godimento limitato.




Fonte http://www.condominioweb.com/non-basta-specificare-che-il-sottotetto-non-puo-essere-abitato.2266#ixzz33KDSYXV9 
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