giovedì 27 novembre 2014

Niente tariffario né regole deontologiche per gli amministratori di condominio Fonte http://www.condominioweb.com

Interessante articolo di condominioweb che riportiamo:



Secondo l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato le associazioni degli amministratori di condominio non possono dotarsi di un tariffario minimo da far applicare ai propri associati, né possono incidere sulle regole di condotta “deontologica”, allorquando si avvicendano nella gestione dello stesso condominio.
La fattispecie. Gli amministratori professionisti possono dare luogo ex lege alla costituzione di associazioni di categoria di natura privatistica, fondate su base volontaria, senza alcun vincolo di rappresentanza esclusiva, con il mero fine di valorizzare le proprie competenze, garantire il rispetto delle regole deontologiche agevolare la scelta e la tutela degli utenti nel rispetto delle regole sulla concorrenza.
Al fine di garantire la trasparenza delle attività svolta, la dialettica democratica tra gli associati, l'osservanza dei principi deontologici, le associazioni che raggruppano gli amministratori professionisti possono adottare anche un proprio statuto da sottoporre ai medesimi.
Tra l'altro le stesse associazioni di amministratori possono tra loro ulteriormente raggrupparsi, dando luogo a forme aggregative. Tali organismi, in genere, svolgono funzioni di promozione e qualificazione delle attività professionali che rappresentano, di divulgazione delle informazioni e delle conoscenze ad esse connesse, oltre che di rappresentanza delle istanze comuni nelle sedi politiche e istituzionali.
Non solo! Non raramente esse “aggregazioni” svolgono attività di controllo sull'operato delle medesime associazioni (che poi le costituiscono), ai fini della verifica del rispetto e della congruità degli standard professionali e qualitativi dell'esercizio dell'attività e dei codici di condotta definiti dalle stesse associazioni.
La chiave di volta. Presupposto comune di tali soggetti è, in genere, la mancanza dello scopo di lucro, ancorché possano svolgere, chiaramente, attività economica. In effetti, ciò che caratterizza l'impresa esercitata sotto forma di società, secondo la nozione espressa dall'art. 2247 c.c., è lo svolgimento in comune tra i soci di un'attività economica previsto a scopo di lucro, il che consiste non solo nel perseguimento di un utile, ma anche nella volontà di ripartirlo tra i soci.
Viceversa – come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, l'eventuale esercizio di un'attività economica da parte di un'associazione non riconosciuta non costituisce di per sé elemento sufficiente ad attribuire a tale organismo collettivo la natura giuridica di società, ai fini della applicazione delle norme di legge regolanti i rapporti tra i soci, ove non sia prevista la divisione dei relativi utili tra gli associati e quindi l'attività economica si ponga in funzione meramente accessoria o strumentale - e comunque non prevalente - rispetto al perseguimento degli scopi dell'associazione.
Sotto tale ultimo profilo, allora, appare quanto meno dubbio il “presupposto” fondante della delibera emessa dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato- appena pubblicata nel proprio bollettino, recante il n. 45 e la data del 24 novembre 2014 - laddove nega ad un raggruppamento rappresentativo di associazioni composte da amministratori di condominio degli edifici, definitosi quale “associazione di impresa”, la potestà di provvedere “…all'adozione e diffusione di un tariffario e di un Codice etico e deontologico volti a predeterminare le remunerazioni minime spettanti agli amministratori di condominio aderenti alle associazioni costituenti la Confederazione, imponendo anche obblighi di informazione preventiva ai professionisti stessi.”.
In altri termini, ciò che non convince del provvedimento – e su cui si potrà aprire un dibattito, non solo tra gli operatori del diritto - è proprio tale ultimo dictum:nella misura in cui esso, in quanto tale, appare disancorato dai presupposti sostanziali e normativi che fanno da corollario sia alla professione dell'amministratore di condominio degli edifici in sè che alla natura stessa degli organismi di relativa rappresentanza, disciplina e controllo.
Cosa rimane da fare? Per chi crede nella mission dell'associazionismo e dei valori che esso incardina (non assoggettabili alla lex mercatoria) il passo sembra d'obbligo: impugnare la delibera in commento avanti al TAR del Lazio, ovvero dinanzi al Presidente della Repubblica, ai sensi dell'articolo 8 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199.
Non ci resta così che chiosare con una celebre frase del Manzoni: “Fu vera Gloria? Ai posteri l'ardua sentenza"


Fonte http://www.condominioweb.com/le-associazioni-non-possono-imporre-un-tariffario-minimo.11481#ixzz3KHeIFTTp
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martedì 25 novembre 2014

Cassazione: si ai bed and breakfast nei condomini. Non c'è cambio di destinazione d'uso (www.StudioCataldi.it)

Chi vuole aprire un'attività di bed and breakfast può farlo anche all'interno di un condominio senza che tale attività comporti una variazione della destinazione d'uso.
E non c'è neppure bisogno dell'approvazione dell'assemblea dato che non si tratta di un'attività che può arrecare pregiudizio agli altri condomini.

A dare il via libera a un fenomeno in costante crescita è la Corte di Cassazione (sentenza n. 24707/2014) secondo cui le attività di bed and breakfast e di affittacamere  non comportano un utilizzo diverso degli immobili da quelle che sono le "civili abitazioni" e non possono determinare danni per gli altri condomini.

Nel caso preso in esame dai giudici di piazza Cavour un condominio citato in giudizio i proprietari di alcuni appartamenti per aver esercitato attività di bed and breakfast in violazione del regolamento condominiale.

Il condominio aveva chiesto di bloccare le attività di B&B facendo appello a una disposizione del regolamento in base alla quale sarebbe stato vietato destinare appartamenti ad uso diverso da quello di civile abitazione o di ufficio professionale privato.

In primo grado il tribunale aveva bloccato le attività ma la sentenza è stata poi ribaltata in corte d'appello con una decisione confermata poi dalla suprema corte di Cassazione.

Correttamente i giudici di merito avevano anche evidenziato come la destinazione  a "civile abitazione" fosse proprio un presupposto per potervi  svolgere un'attività di bed and breakfast". 

Nella parte motiva della sentenza la Corte afferma che è sì facoltà dei regolamenti condominiali, adottati in via di accordo tra i condomini, prevedere limitazioni alle destinazioni d'uso degli appartamenti; ma che tali limitazioni devono essere espresse, non potendo desumere in via interpretativa alcuna limitazione aggiuntiva. 


Fonte: Cassazione: si ai bed and breakfast nei condomini. Non c'è cambio di destinazione d'uso 
(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 21 novembre 2014

La vostra abitazione può essere considerata «di lusso» se…

Come deve essere calcolata la superficie complessiva di un immobile affinché lo stesso possa essere considerato di lusso? Fuori dal computo cantine e soffitte.
Il fatto. Una coppia di coniugi proprietaria di un appartamento in un edificio condominiale propone ricorso dinanzi alla commissione tributaria provinciale impugnando l'avviso di liquidazione dell'Agenzia delle entrate che classificava il loro immobile come “immobile di lusso” escludendoli dal beneficio fiscale della prima casa.
La decisione assunta dalla commissione tributaria provinciale accoglie il ricorso dei coniugi, ma l'Agenzia delle entrate impugna la sentenza dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio che stabilisce che l'immobile in questione non può essere considerato di lusso, precisando che l'Agenzia delle entrate era giunta a conclusioni opposte poiché aveva incluso nel calcolo della superficie dell'immobile in questione le cantine e le soffitte nonché la superficie esterna che invece rientrava fra le pertinenze del condominio ove era ubicato l'appartamento.
Il ricorso in Cassazione. L'Agenzia delle Entrate impugna la decisione della Commissione tributaria regionale del Lazio ritenendo che la stessa violi l'articolo 1 della tariffa all. al DPR 131/86 e egli articoli 5 e 6 del decreto ministeriale del 2 agosto 1969 laddove la Commissione tributaria regionale ha escluso che l'immobile fosse classificabile di lusso “escludendo dal calcolo della superficie utile complessiva cantine e soffitte oltre che la superficie esterna”.
La Cassazione, attraverso l'ordinanza in commento, ritiene infondato il motivo posto a fondamento del ricorso dell'Agenzia dell'entrate ed a tale conclusione giunge a fronte dell'interpretazione del decreto ministeriale del 2 agosto 1969 secondo cui sono considerate di lusso “ le case composte di uno o più vani costituenti unico alloggio padronale avente superficie complessiva superiore a mq 200 (esclusi balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine) ed aventi come pertinenza un'area scoperta della superficie sei volte l'area coperta”, inoltre rientrano nel novero degli immobili di lusso “ Le singole unità immobiliari aventi superficie utile complessiva superiore a mq 240 (esclusi i balconi, le terrazze, le cantine, le soffitte, le scale e posto macchine”.
Sulla base della semplice interpretazione della normativa in materia, quindi, la Corte di Cassazione respinge il ricorso dell'Agenzia delle entrate che ha impugnato la sentenza della Commissione tributaria del Lazio proprio perché aveva escluso dal calcolo della superficie dell'immobile in questione la cantina e la soffitta nonché una superficie esterna condominiale.
In buona sostanza, quindi, si precisa che dal calcolo della superficie complessiva per stabilire se un immobile deve essere classificato come di lusso resta esclusa la superficie del balconi, delle soffitte delle scale del posto macchina, nonché la superficie esterna che non appartenga ai proprietari dell'immobile.
In particolare, nel caso di specie, i coniugi potevano usufruire del beneficio fiscale della prima casa che a loro era stato precluso dall'Agenzia delle Entrate nel momento in cui l'amministrazione finanziaria aveva considerato l'immobile di proprietà di questi ultimi “alla stregua di un immobile di lusso” includendo erroneamente nel calcolo della superficie complessiva anche la soffitta, la cantina ed addirittura un'area esterna appartenente al condominio.


Fonte http://www.condominioweb.com/prima-casa-calcolo-della-superficie-sbagliata.11454#ixzz3JBWv4Zfm
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giovedì 20 novembre 2014

Il conto corrente condominiale è pignorabile. Le somme che vi affluiscono costituiscono patrimonio del condominio.

Con la sentenza del 27 maggio 2014 il Tribunale di Milano consolida l'orientamento per cui ritiene pignorabile il conto corrente condominiale, superando, nel merito, il principio della parziarietà dell'obbligazione affermato dalle Sezioni Unite con la Sentenza 9148/2008.
La fonte normativa addotta, dal Tribunale milanese risiede nel novellato articolo 1129 cod. civ. e dalla lettura combinata dei suoi diversi precetti.
In particolare,viene richiamato, come incipit d'ingresso, il comma 7 del citato articolo, laddove . dispone l'obbligo dell'amministratore “…a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio”. Rilevano, altresì, sul merito, il comma 12 nei punti nn 2 e 3, a mente dei quali:costituisce grave irregolarità dell'amministratore non procedere alla “…apertura ed utilizzazione del conto di cui al settimo comma”, ovvero avviare la “ gestione (del condominio) secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore o di altri condomini”.
Dalla affermato obbligatorietà del conto corrente condominiale, il Giudice Milanese fa derivare il principio per il quale le somme che vi affluiscono costituiscono patrimonio proprio della stessa compagine.
Ciò vuol dire che i contributi erogati dai singoli condomini che confluiscono nel conto “condominiale” si confondono con le altre somme già ivi esistenti andando perciò ad integrare quel saldo che è ad immediata disposizione del correntista.
A nulla rileverebbe la “causale di pagamento” (definita in Sentenza come “titolo dell'annotazione a credito”) rispetto al versamento effettuato dal condòmino nel conto corrente, in quanto il Condominio correntista manterrebbe, in forza delle facoltà concessegli dall'art. 1852 c.c. rubricato “Disposizione da parte del correntista”, la piena disponibilità sull'intero delle somme risultanti a suo credito.
Quindi: “Il pignoramento del saldo di conto corrente condominiale da parte del credito è allora volto a soddisfare in via esecutiva la sola obbligazione per l'intero gravante sull'amministratore e non interferisce con il meccanismo del beneficio di escussione ex art. 63, comma 2, disp. att. c.c. il quale è posto a presidio unicamente dei distinti obblighi pro quota spettanti ai singoli condomini”.




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martedì 18 novembre 2014

Condominio: Cassazione, valore probatorio delle delibere assembleari

Corte di Cassazione sentenza n. 7265 del 27 marzo 2014
Conformandosi a consolidati principi giurisprudenziali, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7265/2014 ha riaffermato che la delibera assembleare con la quale i condomini decidono della ripartizione delle spese costituisce prova dell'esistenza del credito stesso. 
Tale delibera, in effetti finalizzata alla riscossione degli oneri condominiali, legittima non solo l'ingiunzione di pagamento contro il condomino moroso, ma anche la condanna alle spese di quest'ultimo in caso di successivo giudizio di opposizione che contesti l'esistenza e l'efficacia della delibera in questione.
Da ultimo la Cassazione ha precisato che siffatte censure, non comportano per l'amministratore l'onere di provare i fatti costitutivi del credito in quanto, per costante giurisprudenza, al giudice dell'opposizione compete unicamente la verifica dell'esistenza e della permanente efficacia delle relative deliberazioni assembleari e non anche l'esame della loro validità.

Nel caso di specie una condomina aveva proposto opposizione al decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti per il pagamento di oneri condominiali.
L'opposizione era stata rigettata anche dai giudici di merito secondo cui l'ingiunzione era supportata da adeguata documentazione, ossia dai verbali dell'assemblea.

Nella motivazione della sentenza la Corte di Cassazione ricorda che una delibera di ripartizione delle spese costituisce un titolo di credito per il condominio ed è prova di per sé dell'esistenza di tale credito.

Pertanto nell'ambito del giudizio di opposizione contro un decreto ingiuntivo emesso sulla base di tale delibera, l'accertamento giudiziale è limitato alla sola verifica dell'esistenza e dell'efficacia della delibera assembleare.





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mercoledì 12 novembre 2014

Le nuove persiane installate sono «invadenti» ed «impallano» la veduta al vicino?

Le ante a compasso non vanno bene, si deve ritornare al modello a libro.
Le servitù di veduta. Al fine di contemperare i reciproci interessi tra i proprietari dei fondi confinanti, il legislatore ai sensi degli articoli 905 e seguenti del codice civile, ha imposto una determinata distanza per l'apertura delle vedute, ed ha tutelato anche chi ha aperto la veduta, imponendo al vicino di non ostruire la veduta stessa. Secondo il principio affermato dal codice civile colui che esegue nuove opere deve rispettare la veduta esistente sull'immobile vicino, anche qualora essa sia stata aperta a titolo di servitù, a distanza inferiore al limite legale di tre metri ex art. 907 cod. civ. Secondo la Cassazione colui che esegue le nuove opere, è obbligato a non ledere tale diritto, mentre può legittimamente eseguire sulla sua proprietà tutte le innovazioni che con esso non contrastino. (Cass. 03/07/1999, n. 6897).
Sempre in riferimento alla servitù di veduta, si deve tener conto non solo dell'attuale destinazione o situazione ma anche delle normali possibilità di ulteriore sviluppo e sfruttamento, poiché il divieto di innovazioni si riferisce a pregiudizi non solo attuali ma anche potenziali, dovendo il giudice di merito accertare se le diverse modalità di esercizio della servitù si risolvano in un'intensificazione dell'onere gravante sul fondo servente, sempreché al proprietario di questo ne derivi un danno in termini economicamente apprezzabili, da valutare con riferimento alla destinazione attuale del fondo servente ed anche con riguardo ad altre possibili utilizzazioni dello stesso. (In un caso è stato escluso l'aggravamento della servitù di veduta esercitata attraverso finestre sul rilievo che nessun pregiudizio era derivato al proprietario del fondo servente dalle trasformazioni apportate dal proprietario del fondo dominante, atteso che il davanzale era stato riportato alle caratteristiche originali, il parapetto in mattoni era stato sostituito con una ringhiera e fioraie ed inoltre erano state aggiunte le persiane). (Cass. 11/01/2006, n. 209).
La fattispecie analizzata. In primo grado il Tribunale, respingendo le eccezioni pregiudiziali della convenuta, condannava la medesima a rimuove ogni ostacolo (paletto di sostegno per le piante) che impedivano l'apertura completa delle ante della finestra della parte attrice. La convenuta propone appello sostenendo che il diritto di veduta non includeva la facoltà di aprire a compasso le ante sullo spazio aereo sovrastante al fondo servente. La Corte di Appello, osserva che la proprietà della ricorrente era gravata da servitù di veduta in favore dell'unità immobiliare di proprietà della vicina, e per tale motivo ha ritenuto congrua la decisione di rimuovere il paletto in ferro e ogni altro ostacolo che impedivano l'apertura delle ante della finestra dell'attrice e l'ordine per il futuro di non porre ostacoli all'apertura delle finestre. Quindi devono essere rimossi gli ostacoli che impediscono l'apertura totale delle finestre del vicino di casa.(Corte d'appello di Firenze con la sentenza 34/2014).
Tutto dipende delle tipologia delle persiane. Recentemente un caso analogo è stato anche affrontato dal Tribunale di Cassino (Ord. del 03 aprile 2014). Nel caso di specie veniva configurata una potenziale azione di spoglio derivante dalla mera mutazione dello stato di fatto. Ma in quella circostanza, il Tribunale di Cassino, ha applicato il seguente principio giurisprudenziale: " le persiane, ed in genere gli infissi di cui sono normalmente dotate le finestre, non determinano, anche quando si aprono all'esterno, un aggravamento della servitù di veduta, poiché esse, quando sono chiuse, la impediscono o la limitano, e quando sono aperte, non la rendono più penetrante; il loro ruotare sui cardini, quando non sono del tipo a tendina, non arreca poi pregiudizio al proprietario del fondo servente, salvo che il loro raggio d'azione superi la distanza di tre metri, che egli deve rispettare, per consentire, per l'appunto, l'esercizio della servitù (Cass. 8930/2000)". Nella fattispecie esaminata, quindi, le persiane non determinano, alla stregua di tale sentenza, un aggravamento della servitù di veduta, in quanto il mero ruotare sui cardini non muta il raggio di azione dell'esercizio della servitù di veduta. Invece, nel caso analizzato dalla Corte di Appello di Firenze, il titolare dell'immobile gravato da servitù verso il confinante, deve provvedere alla sostituzione delle ante a compasso tornando al modello a libro, perché impediscono l'apertura totale delle finestre del vicino.
Precedenti. La Cassazione (sentenza del 11/01/2006 n.209) aveva affermato che in tema di servitù, l'aggravamento dell'esercizio in dipendenza della trasformazione operata sul fondo dominante va verificato accertando se l'innovazione abbia alterato l'originario rapporto con il fondo servente e se il sacrificio imposto sia maggiore rispetto a quello originariamente previsto, dovendosi valutare l'opera non in sé stessa, come risultato di un'attività consentita o non consentita nella normale esplicazione o meno dei poteri dominicali, bensì per le implicazioni che ne derivano a carico del fondo assoggettato. Con riferimento alla servitù di veduta, deve, pertanto, tenersi conto non solo dell'attuale destinazione o situazione ma anche delle normali possibilità di ulteriore sviluppo e sfruttamento, come la trasformazione del tetto in terrazzo, la sopraelevazione ed ogni altra opera che renda possibile la veduta medesima, poiché il divieto di innovazioni si riferisce a pregiudizi non solo attuali ma anche potenziali, dovendo il giudice di merito accertare se le diverse modalità di esercizio della servitù si risolvano in un'intensificazione dell'onere gravante sul fondo servente, sempreché al proprietario di questo ne derivi un danno in termini economicamente apprezzabili, da valutare con riferimento alla destinazione attuale del fondo servente ed anche con riguardo ad altre possibili utilizzazioni dello stesso.
(Nella specie è stato escluso l'aggravamento della servitù di veduta esercitata attraverso finestre sul rilievo che nessun pregiudizio era derivato al proprietario del fondo servente dalle trasformazioni apportate dal proprietario del fondo dominante, atteso che il davanzale era stato riportato alle caratteristiche originali, il parapetto in mattoni era stato sostituito con una ringhiera e fioraie ed inoltre erano state aggiunte le persiane).



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martedì 11 novembre 2014

Le regole per la compilazione dell'anagrafe condominiale e le amnesie del Garante per la protezione dei dati personali

La funzione del Registro.
La legge n. 220/2012 ha modificato l'art. 1130 c.c. specificando al nuovo n. 6 che l'amministratore, dovrà curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale. Possiamo paragonare l'anagrafe ad una sorta di "carta di identità" ovvero una "scheda dell'immobile"contenente le notizie anagrafiche e patrimoniali essenziali utili per identificare tutti i partecipanti al condominio. Con l'istituzione di questo registro, il Legislatore ha inteso attribuire all'amministratore un compito volto alla raccolta di dati, dandone una immediata disponibilità dei dati che verranno convogliati nei propri archivi per una più duttile e puntuale amministrazione dello stabile. Tale registro è finalizzato a garantire una maggiore trasparenza della composizione della compagine condominiale sia nei rapporti interni tra comproprietari e tra questi ultimi e l' amministratore sia nei rapporti esterni con i privati e le pubbliche autorità. Per le caratteristiche descritte, il registro assolve primariamente una funzione conoscitiva. Alla luce dell'istituzione di questo nuovo registro ed in seguito al sistema di aggiornamento disciplinato, si viene a creare un sistema di pubblicità notizia in relazione alle vicende attinenti la titolarità delle singole unità immobiliari.
Il problema della riservatezza dei dati raccolti. Tutti i dati che saranno archiviati all'interno dell'anagrafe dovranno essere trattati seguendo le indicazioni dettate dal Garante della Privacy in merito alla protezione dei dati personali. A tal proposito già nel 2006 il Garante ebbe modo di precisare che tutti le operazioni di trattamento dati devono essere effettuate nell'ambito delle attività connesse all'amministrazione di condominio. Quindi, alla luce di quanto disposto dal Codice in materia di protezione dei dati personali (ex art. 11 d.lgs. 196/2003), l'amministratore potrà trattare solo le informazioni personali, pertinenti e necessarie alla attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni e dei singoli partecipanti della collettività condominiale (proprietari/usufruttari ecc.) Sempre in riferimento al Codice della privacy, in virtù dell'art 24 comma 1, lett. a,b,c, l'amministratore potrà acquisire anche informazioni dei soggetti che non rientrano direttamente la compagine condominiale (inquilini).
Il monito del Garante. Recentemente con la newsletter n. 387 del 23 aprile 2014 il Garante della Privacy si è occupato specificatamente della tipologia di documenti che l'amministratore può richiedere per l'aggiornamento dell'anagrafe, partendo da due principi fondamentali:
  • il condòmino non è tenuto a fornire le prove documentali delle informazioni rese all'amministratore per la tenuta del registro di anagrafe condominiale;
  • l'amministratore può trattare solo informazioni pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità da perseguire.
Cosa si può acquisire nel Registro:
  • Tutte le informazioni dei proprietari, usufruttuari, conduttori o comodatari che consentono di identificare e contattare i singoli partecipanti al condominio (numeri di telefono/fax/mail) comprensivi di codice fiscale, residenza o domicilio;
  • I dati catastali: la sezione urbana, il foglio, la particella, il subalterno in cui è collocata l'unità immobiliare.
Cosa non si può acquisire nel Registro:
  • La copia dell'atto di compravendita in cui sono riportati i dati (titolo di proprietà; documentazione urbanistica; rapporto informativo della conservatoria);
  • Le "condizioni di sicurezza" delle singole proprietà esclusive.
Acquisizione soft dei dati. In seguito al monito lanciato dal Garante la compilazione dei registri avrà una natura meramente compilativa e non si potranno acquisire prove documentali perché risulterebbe eccedente rispetto alla funzione della attività di gestione ed amministrazione.
L'amministratore non svolgerà "funzioni ispettive" poiché non potrà accedere alle singole unità a fini di controllo delle condizioni di sicurezza. Si ricorda a riguardo che in sede di promulgazione è stata eliminata la possibilità di una partecipazione più diretta dell'amministratore per gli interventi urgenti a tutela della sicurezza negli edifici. In questa ipotesi, su richiesta anche di un solo condomino o del conduttore, il vecchio testo prevedeva che l'amministratore, qualora dovesse sussistere il ragionevole sospetto che difettino le condizioni di sicurezza di cui al primo comma, poteva accedere alle parti comuni dell'edificio ovvero richiede l'accesso alle parti di proprietà o uso individuale al condomino o al conduttore delle stesse. Tale articolo è stato soppresso perché forse considerato troppo "invasivo" e si è preferito privilegiare un sistema di aggiornamento basato sul criterio della pubblicità notizia in relazione alle vicende attinenti la titolarità delle singole unità immobiliari.
L'amnesia del Garante. L'interpretazione emessa dal Garante andrebbe coordinata con quanto disposto dall'art. 63, comma.5 disp att. Cod.civ. che disciplina le comunicazioni in caso di cessione dei diritti sulle unità immobiliari da parte del condominoprecisando che " chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l'avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all'amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto". La norma prescrive esplicitamente, che in caso di cessione dei diritti sull'unità immobiliare, vi è l'obbligo di inviare copia autentica del titolo. Per tali ragioni ci sembra di capire che l'orientamento espresso dal Garante non si coordini perfettamente da quanto disposto dal codice civile limitatamente alla fattispecie della cessione dei diritti sulle unità immobiliari. A fortiori si ricorda che, il Consiglio Nazionale del Notariato, nello Studio 906-2013/C, ha chiarito come l'obbligo di comunicare all'amministratore di condominio l'avvenuta variazione dei dati presenti nel Registro dei beni condominiali non grava sul notaio rogante ma sulle parti, le quali ben possono peraltro incaricare lo stesso notaioQuindi, la prova documentale, rimane pur sempre un elemento essenziale per determinare il trasferimento del dirittoall'amministratore.
Per tali motivi, a parere dello scrivente, la disposizione non può essere elusa a seguito della interpretazione espressa dal Garante visto che lo status di condomino, in caso di vendita dell'unità immobiliare, si acquisisce soltanto nel momento in cui la copia autentica dell'atto di acquisto è portata a conoscenza dell'amministratore di condominio. L'art. 63, comma.5 disp att. Cod. Civ istituisce, a carico del venditore, l'adempimento di un onere burocratico senza il quale rimane obbligato al pagamento dei contributi sorti successivamente al verificarsi del trasferimento del diritto di proprietà. L'intervento legislativo, pertanto, ha previsto una nuova responsabilità in capo all'acquirente che agevola anche il compito dello stesso amministratore, che spesso rimaneva completamente all'oscuro delle vicende traslative della proprietà delle unità abitative condominiali, ostacolando la corretta individuazione del soggetto obbligato, con conseguente rallentamento nella soddisfazione dei crediti condominiali.



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sabato 8 novembre 2014

Cassazione: divenuta inefficace la chiamata per testamento si da luogo alla successione legittima. Ma cosa accade se emerge la volontà di escludere un erede?

Nel nostro sistema, “il fenomeno devolutivo dei beni e l'individuazione degli eredi e dei legatari possono trovare indistintamente fondamento sia nella legge che nella volontà del testatore”; pertanto, quando manca in tutto o in parte la successione testamentaria, ex art. 457 codice civile “occorre farsi luogo alla successione legittima – giacchè – il concorso tra le due vocazioni è riconducibile ad un rapporto di reciproca integrazione”.
Così ha stabilito la sesta sezione civile della Cassazione, tornando ad occuparsi di vicende successorie, in un giudizio instaurato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze contro la sentenza della Corte d’Appello che, in riforma della pronuncia del tribunale di Milano, accoglieva l’istanza di devoluzione dell’eredità di una donna a favore del marito, in ragione della qualità di coniuge ed erede legittimo della de cuius, poiché decaduti i chiamati all’eredità dal diritto di accettarla essendo decorso il termine fissato dall’art. 481 c.c.
Nella sentenza n. 22195 depositata il 20 ottobre scorso, la Cassazione ha prima di tutto ricordato che “la perdita del diritto di accettare l'eredità ex art. 481 c.c. comporta anche la perdita della qualità di chiamato all'eredità e di conseguenza l'inefficacia della chiamata all'eredità per testamento con l'ulteriore conseguenza che non si verifica la coesistenza di una successione testamentaria e di una successione legittima, ma si apre esclusivamente la successione legittima e, in conseguenza dell'inefficacia della devoluzione testamentaria, l'eredità, ai sensi dell'art. 457 c.c. si devolve per legge”.
La Corte chiarisce però che è possibile "l'esclusione dalla successione legittima" ma solo "in presenza di una accertata volontà del testatore" in tal senso.

Nel caso di specie non risultando che il testamento contenga una clausola di questo tipo e dato che "non risulta che nelle fasi di merito sia stata discussa l’interpretazione delle disposizioni testamentarie sotto il profilo della volontà di escludere il coniuge dalla successione legittima per il caso in cui fosse divenuta inefficace quella testamentaria" la Corte ha rigettato il ricorso.

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venerdì 7 novembre 2014

Tubi del gas sui muri condominiali? Nessun illecito, ma devo dirlo un giudice (www.condominioweb.com)

In tema di condominio negli edifici, l'apposizione sui muri perimetrali, decisa dall'assemblea, delle tubature del gas rappresenta un uso lecito e non lesivo del pari diritto d'uso di quella parte d'edificio.
In ambito condominiale, infatti, salvo caso particolari, non si fa applicazione delle norme dettate in materia di distanze delle tubazioni dai confini (cfr. art. 889 c.c.) poiché le norme dettate in materia di condominio debbono essere considerate prevalenti rispetto alle prime citate.
Piccolo particolare: queste valutazioni, tuttavia, devono essere svolte da un giudice investito della vicenda. Come dire: se le parti non si lamentano delle modificazioni dello stato dei luoghi perché sono d'accordo meglio metterlo per iscritto.
Questa, nella sostanza, è la decisione assunta dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 14822 del 30 giugno 2014.
La fattispecie concreta è molto ricorrente: l'assemblea decide un qualcosa che lo stesso condomino contestatore all'inizio aveva approvato. Nel caso di specie si trattava di apposizione di tubazioni facenti parte dell'impianto del gas.
A dire del condomino quella installazione violava le distanze delle tubazioni dal confine. Norma di riferimento è l'art. 889 c.c., rubricato Distanze per pozzi, cisterne, fosse e tubi, che recita:
Chi vuole aprire pozzi, cisterne, fosse di latrina o di concime presso il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio, deve osservare la distanza di almeno due metri tra il confine e il punto più vicino del perimetro interno delle opere predette.
Per i tubi d'acqua pura o lurida, per quelli di gas e simili e loro diramazioni deve osservarsi la distanza di almeno un metro dal confine.
Sono salve in ogni caso le disposizioni dei regolamenti locali.
Il rispetto di queste distanze, però, cede il passo alla normativa condominiale. In tal senso, infatti, la Cassazione, risolvendo il caso di cui sopra, ha affermato (meglio ribadito) che "le norme relative ai rapporti di vicinato, tra cui quella dell'art.889 cod. civ., trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli proprietari; pertanto, qualora esse siano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice di merito è tenuto ad accertare se la loro rigorosa osservanza non sia nel caso irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali" (Cass. 30 giugno 2014 n. 14822).
Insomma se i tubi possono passare solamente da una parte e tale posizionamento non reca alcun pregiudizio alla sicurezza, le norme sulle distanze cedono il passo a quelle sull'uso dei beni condominiali, le quali debbono essere considerate predominanti. Tale valutazione dev'essere effettuata dal giudice adito.



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giovedì 6 novembre 2014

L'inquilino deve risarcire i danni al proprietario se ritarda la restituzione dell'immobile. (www.StudioCataldi.it)

La Corte di Cassazione, con sentenza 21 ottobre 2014, n. 22352, si è espressa in merito al risarcimento danni che spetta al proprietario dell'immobile in caso di ritardata consegna da parte del conduttore.

L'art. 1590 del codice civile detta la normativa riguardante la restituzione della cosa locata da effettuare alla scadenza convenuta. Il successivo art. 1591, stabilisce poi che il conduttore in mora è tenuto a versare al locatore una ulteriore obbligazione, come risarcimento danno per la mancata disponibilità dell'immobile.
La pronuncia della Corte riguarda il caso di una richiesta di risarcimento avanzata da una società che aveva concesso alcuni locali in locazione ad una Asl.  La mancata restituzione del bene locato alla scadenza aveva impedito alla società proprietaria del bene di concludere una vendita in base a una determinata offerta, costringendola a ripiegare su un'offerta di minore importo.

Il primo grado di giudizio aveva visto la condanna della Asl ma in appello la domanda di risarcimento era stata rigettata perchè la Corte territoriale aveva ritenuto insussistente il nesso causale tra il ritardo nella riconsegna del bene locato e il minor importo realizzato dalla vendita.

La Corte d'appello affermava che la società avrebbe potuto accettare l'offerta di acquisto, valida fino al 15.1.2004, perché la Asl avrebbe comunque riconsegnato i locali anche se oltre la data pattuita

Il giudizio formulato dai giudici dell'appello, osserva la Cassazione, nega la sussistenza del nesso causale con un ragionamento di tipo probabilistico, formulato ex post sulla base di elementi di cui la Società non disponeva nel momento in cui avrebbe dovuto impegnarsi a vendere l'immobile.

La Cassazione ha ritenuto quindi fondato il ricorso spiegando che nel caso di specie per valutare la sussistenza del nesso di causalità occorreva fare una valutazione ex ante, senza considerare fatti verificatisi successivamente.




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mercoledì 5 novembre 2014

Comodato di immobile senza determinazione del termine di durata - Restituzione del bene in caso di morte del comodatario (www.StudioCataldi.it)

L’art. 1810 c.c. disciplina la particolare ipotesi di contratto di comodato a tempo indeterminato, disponendo che se non è stato convenuto un termine, il comodatario è tenuto alla restituzione della cosa, generalmente un immobile, non appena il comodante ne faccia richiesta.
Tale assunto è stato ribadito dalla Suprema Corte, la quale ha statuito che “in mancanza di particolari prescrizioni di durata, ovvero di elementi certi ed oggettivi che consentano ab origine di prestabilirla, l’uso corrispondente alla generica destinazione dell’immobile configura un comodato a tempo indeterminato e, perciò, a titolo precario, e, dunque revocabile ad nutum da parte del comodante, a norma del medesimo art. 1810 c.c. (Cass., Civ.,Sez. III, 25/06/2013, n. 13614).
A nulla rileva che l’immobile sia stato messo a disposizione delle esigenze familiari di una coppia, poiché a tal riguardo, il Tribunale di Foggia ha affermato, che “non assume alcun rilievo la circostanza che l’immobile fosse stato adibito a casa familiare, sicché, per il venir meno del comodato, il comodatario è da ritenersi occupante sine titulo del bene, sin dall’epoca della comunicazione con cui il difensore del comodante, aveva chiesto la liberazione dell’immobile” (Trib., Foggia, sentenza 26/06/2012, n. 881).
Per tali ragioni, in tali casi troverebbe piena applicazione l’art. 1811 c.c., ai sensi del quale “in caso di morte del comodatario, il comodante può esigere dagli eredi l’immediata restituzione della cosa”. Ciò si giustifica in ragione del fatto che il comodatario sia legato al comodante da un rapporto caratterizzato dall’elemento della fiducia, tale per cui la morte del primo, a maggior ragione nel comodato indeterminato, determina l’immediata risoluzione del contratto, non essendo configurabile la successione di terzi nel rapporto suddetto, ancorché eredi delle parti originarie.
In ordine alle spese sostenute dal comodatario per la conservazione della cosa, l’art. 1808 c.c. dispone al primo comma che il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa, nonché su un recente orientamento giurisprudenziale, secondo il quale “premesso che il comodato è essenzialmente gratuito, è obbligo del comodatario custodire la cosa e preservarne l’integrità anche in funzione dell’adempimento dell’obbligo restitutorio connesso alla cessazione del rapporto. Il comodatario, ai sensi dell’art. 1808 c.c., se da un lato non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa, dall’altro, ha diritto al rimborso delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della stessa, purché necessarie ed urgenti” (Trib. Taranto, 12/02/2013).
Il secondo comma infatti prevede la possibilità di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie ed urgenti.
In ogni caso, “il comodatario deve provare di avere effettuato le spese per lavori straordinari necessari ed urgenti, fornendo la prova degli esborsi relativi ai lavori straordinari, oltre che la prova della necessarietà ed urgenza dei lavori stessi” (C. App. Genova, Sez. I, 02/02/2006).
Ne deriva che nel caso di comodato gratuito a tempo indeterminato, qualora si verifichi la morte del comodatario, il comodante potrà chiedere la restituzione dell’immobile in qualsiasi momento. In caso di ingiustificato rifiuto del coniuge od erede del comodatario di rilasciare l’immobile concesso in comodato, il comodante potrà esperire un procedimento di ricorso per occupazione sine titulo dinanzi al Tribunale competente territorialmente, nel quale potrà richiedere non solo l’accertamento dell’avvenuta cessazione del contratto di comodato gratuito e il rilascio dell’immobile che ne formava oggetto, ma potrà anche la condanna del resistente al risarcimento dei danni ed al pagamento di un’indennità di occupazione, a partire dalla richiesta di rilascio fino al rilascio effettivo.

Fonte: Comodato di immobile senza determinazione del termine di durata - Restituzione del bene in caso di morte del comodatario 
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martedì 4 novembre 2014

Immissioni di rumore: Cassazione, basta dimostrare il superamento del limite della normale tollerabilità per ottenere il risarcimento del danno (www.StudioCataldi.it)

Corte di Cassazione civile, sezione seconda, sentenza n. 23283 del 31 Ottobre 2014. 
Hanno diritto a far interrompere le immissioni di rumore e a ottenere il risarcimento del danno (sia patrimoniale che non patrimoniale), i condomini nei cui appartamenti si propagano rumori provenienti dall'impianto di riscaldamento condominiale.
E non c'è bisogno di altre allegazioni probatorie se i condomini dimostrano che i rumori superano la normale tollerabilità.
E' quanto afferma la Corte di Cassazione che ha ribaltato una decisione della Corte d'appello che con motivazione considerata erronea dei Supremi giudici aveva dato torto ai condomini ritenendo che non avessero provato il comportamento, doloso o colposo, del condominio
La Cassazione ricorda che "L'art. 844 codice civile è uno strumento di tutela che consente di ottenere la cessazione del comportamento lesivooltre al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto di proprietà nonché "al risarcimento del danno non patrimoniale ove siano stati lesi i valori della persona, in particolare, della salute di chi ha il diritto di godere il bene compromesso dall'emissione". 
Già il superamento di per sé dei limiti di tollerabilità stabiliti per legge integra ipso iure colpa; e se da ciò deriva un danno a terzi che è sicuramente ingiusto e fonte di responsabilità. 
Insomma è sufficiente dimostrare il mero superamento della soglia della normale tollerabilità non essendo necessaria alcun'altra allegazione, al contrario di quanto affermato dalla Corte d'appello. Secondo la Cassazione è irrilevante la circostanza che l'impianto di riscaldamento fosse a norma e mantenuto a regola d'arte "da personale tecnico qualificato perché la illiceità delle immissioni che superano la normale tollerabilità e in sè quale che siano le cause che determinano la stessa immissione, dovendo considerare che le immissioni moleste integrano, comunque, gli estremi di un'attività vietata".



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sabato 1 novembre 2014

Personalità giuridica del condominio, nuovi contrasti in vista

Quella della personalità giuridica del condominio, o quanto meno della soggettività giuridica distinta dai suoi partecipanti è materia che la legge n. 220/2012 (la riforma del condominio) ha volutamente ignorato e che, invece, al pari o forse più di altre avrebbe meritato soluzione.
Sta di fatto che in seguito all'entrata in vigore della riforma del condominio, le prime sentenze (di merito e di legittimità) che si sono soffermate sull'argomento hanno messo in evidenza dei cambiamenti rispetto al passato.
Questi pretesi cambiamenti, che secondo i giudici estensori delle pronunce devono essere letti tra le righe dei nuovi articoli codicistici riguardanti il condominio, finiranno solamente per creare ulteriore confusione in materia.
Si badi: la legge di riforma del condominio, questo è un dato unanimemente condiviso, è stata scritta male e la sua frettolosa approvazione non è stata sicuramente la migliore soluzione. Leggerla per ipotizzare soluzioni non previste, tuttavia, non è la soluzione migliore a colmare le lacune esistenti.
Entriamo nel dettaglio.
Il fu Ente di gestione?
Esiste “un pacco così” di sentenze nelle quali si legge che il condominio è un ente di gestione sprovvisto di personalità giuridica distinta da quella dei propri partecipanti (cfr., tra le tante, Cass. 14 dicembre 1993, n. 12304).
Nel 2008, quando fu spazzata via la solidarietà tra i condomini rispetto alle obbligazioni condominiali, le Sezioni Unite della Cassazione criticarono aspramente, ritenendolo infondato, il riferimento al così detto ente di gestione.
Si legge nella sentenza che nonostante l'opinabile rassomiglianza della funzione tra condominio ed ente di gestione, “il fatto che l'amministratore e l'assemblea gestiscano le parti comuni per conto dei condomini, ai quali le parti comuni appartengono - le ragguardevoli diversità della struttura dimostrano la inconsistenza del ripetuto e acritico riferimento dell'ente di gestione al condominio negli edifici. Il condominio, infatti, non è titolare di un patrimonio autonomo, né di diritti e di obbligazioni: la titolarità dei diritti sulle cose, gli impianti e i servizi di uso comune, in effetti, fa capo ai singoli condomini; agli stessi condomini sono ascritte le obbligazioni per le cose, gli impianti ed i servizi comuni e la relativa responsabilità; le obbligazioni contratte nel cosiddetto interesse del condominio non si contraggono in favore di un ente, ma nell'interesse dei singoli partecipanti” (Cass. SS.UU. n. 9148/08).
Ma il condominio, giuridicamente parlando, può davvero essere considerato inesistente?
La stessa Cassazione, qualche mese dopo, disse di no e specificò che “è indubbio che il condominio, benché privo di autonoma soggettività giuridica, si configura come centro di imputazione di interessi diverso dal condomino e che e' pienamente configurabile la responsabilità extracontrattuale del condominio anche nei confronti del condomino” (così Cass. 19 marzo 2009, n. 6665); gli ermellini proseguirono nel loro ragionamento per spiegare come l'esistenza di un quid giuridico riferibile al condominio non era da considerarsi in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite.
A dire il vero lo “tsumani” rappresentato dalla sentenza n. 9148 ha fatto si che questa specificazione non fosse tenuta nella debita considerazione; il condominio è rimasto per molti in un limbo giuridico tra ente di gestione senza personalità giuridica e nullità giuridica. Un ectoplasma, come ha detto qualcuno.
Nuova legge, nuove sentenze, nuova vita al condominio?
L'approvazione della legge n. 220/2012 ha riportato in auge tra i giudici di merito e di Cassazione quella teoria che vede nel condominio un soggetto di diritto, per carità magari senza personalità giuridica, distinto dai suoi partecipanti; per intenderci si considera il condominio un qualcosa di molto simile ad un'associazione.
Le prime avvisaglie di questa presa di posizione si sono avute con le sentenze di Tribunale relative alla pignorabilità del conto corrente condominiale.
La pronuncia che ha destato maggiore interesse rispetto a questa presa di posizione è la n.19663 resa a settembre del 2014 dalle Sezioni Unite nella quale si legge che “se pure non è sufficiente che una pluralità di persone sia contitolare di beni destinati ad uno scopo perché sia configurabile la personalità giuridica (si pensi al patrimonio familiare o alla comunione tra coniugi), e se dalle altre disposizioni in tema di condominio non è desumibile il riconoscimento della personalità giuridica in favore dello stesso, riconoscimento dapprima voluto ma poi escluso in sede di stesura finale della legge n. 220 del 2012, tuttavia non possono ignorarsi gli elementi sopra indicati, che vanno nella direzione della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica, e comunque sicuramente, in atto, di una soggettività giuridica autonoma” (Cass. SS.UU. 18 settembre 2014 n. 19663).
E' vero, nel codice civile, si parla di patrimonio dell'amministratore e del condominio, ma allo stesso tempo di dice che l'amministratore deve indicare analiticamente il compenso per “l'attività svolta” e non, come sarebbe stato doveroso” per l'attività “che andrà a svolgere”.
Morale della favola: sebbene le leggi s'interpretino anche e soprattutto in ragione del significato delle parole, la leggerezza con cui il Legislatore della riforma ha fatto uso di certi termini impone prudenza interpretativa, almeno a parere di chi vi scrive.




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