martedì 30 dicembre 2014

Le novità in materia di mediazione a seguito del DM 139/14 - Fonte: Il Seprio n.4/2014


Sull'ultimo numero de "Il Seprio" (n. 4/2014), trimestrale del Collegio dei Geometri della Provincia di Varese, é stato pubblicato un articolo di Simone Scartabelli che tratta delle più rilevanti novità introdotte dal D.M. 139/2014, relative all'incompatibilità del mediatore ed alle modalità del tirocinio assistito obbligatorio.
Un invito a consultare l'articolo (pag. 22-28) cliccando questo link http://www.collegio.geometri.va.it/wp-content/uploads/2013/12/Seprio_n.4_2014.pdf

Cortile stretto? Le auto passano comunque

Si riporta un articolo dell'Avv. Gallucci pubblicato su www.condominioweb.com relativa all'uso del cortile condominiale


La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6178 del 17 marzo 2014, è tornata ad occuparsi dell'uso delle cose comuni ed in particolare dell'uso del cortile condominiale.
La sentenza non rappresenta una novità, anzi s'inserisce nel novero di quelle già pronunciate in materia di uso del cortile condominiale.
La novità, rectius l'elemento meritevole d'interesse, sta nel fatto che gli ermellini hanno ribadito che in assenza di specifiche indicazioni pattizie, il cortile condominiale, al di là delle sue dimensioni, può essere utilizzato come area di transito veicolare.
La definizione di cortile condominiale.
La legge non fornisce la definizione di cortile limitandosi ad elencarlo tra i beni comuni ai sensi dell'art. 1117 c.c.
Per sapere, quindi, a che cosa debba farsi riferimento con questo termine, è necessario guardare alla soluzione definitoria elaborata dalla giurisprudenza.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, "il cortile, tecnicamente, è l'area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare aria e luce agli ambienti circostanti. Ma avuto riguardo all'ampia portata della parola e, soprattutto, alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell'edificio - quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, i distacchi, le intercapedini, i parcheggi - che, sebbene non menzionati espressamente nell'art. 1117 cod. civ., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione" (Cass. 9 giugno 2000, n. 7889).
L'uso delle cose comuni.
E' cosa nota che, ai sensi del primo comma dell'art. 1102 c.c., ogni condomino possa servirsi "della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il migliore godimento della cosa".
Si tratta del così detto pari diritto d'uso dei beni comuni nel rispetto della loro destinazione e del diritto degli altri.
Come tradurre quest'affermazione di principio in pratica?
La giurisprudenza ha specificato che "il pari uso della cosa comune non postula necessariamente il contemporaneo uso della cosa da parte di tutti i partecipanti alla comunione, che resta affidata alla concreta regolamentazione per ragioni di coesistenza; che la nozione di pari uso del bene comune non è da intendersi nel senso di uso necessariamente identico e contemporaneo, fruito cioè da tutti i condomini nell'unità di tempo e di spazio, perché se si richiedesse il concorso simultaneo di tali circostanze si avrebbe la conseguenza della impossibilità per ogni condomino di usare la cosa comune tutte le volte che questa fosse insufficiente a tal fine" (Cass. 16 giugno 2005 n. 12873).
Insomma ognuno ha il diritto di fare tutto ciò che il bene consente di fare anche non contemporaneamente ma senza che la propria condotta possa risultare lesiva del pari diritto altrui.
Uso del cortile condominiale.
Nel caso risolto dalla sentenza n. 6178 del 17 marzo 2014, le parti litigavano in relazione all'uso del cortile a loro comune.
Quella che aveva promosso il giudizio chiedeva venisse accertata e dichiarata l'illegittimità del transito in quanto le ridotte dimensioni dell'area cortilizia lo rendevano incompatibile con l'uso dell'area stessa.
Il convenuto, chi quel cortile usava come zona di transito, pretendeva ne fosse dichiarata l'usucapione.
Nel primo grado la domanda attorea veniva rigettata e mentre in appello non solo veniva rigettata la richiesta di accertare l'usucapione della servitù di passaggio, ma si riteneva illegittimo il passaggio veicolare anche ai sensi dell'art. 1102 c.c.: insomma il cortile era troppo piccolo per essere usato in quel modo.
La controversia ha avuto fine davanti ai giudici di piazza Cavour, i quali hanno cassato la sentenza impugnata.
Motivo? L'errata applicazione dell'art. 1102 c.c. in relazione al cortile condominiale. Si legge in sentenza che "tra le destinazioni accessorie del cortile comune - la cui funzione principale è quella di dare aria e luce alle varie unità immobiliari - rientra indubbiamente quella di consentire ai condomini l'accesso a piedi o con veicoli alle loro proprietà, di cui il cortile costituisce un accessorio, nonché la sosta anche temporanea dei veicoli stessi, senza che tale uso possa ritenersi condizionato dall'eventuale più limitata forma di godimento del cortile comune praticata nel passato (Cass. n. 13879 del 09/06/2010 ; Cass. n. 5848 del 16/03/2006)" (Cass. 17 marzo 2014 n. 6178).
Ciò, ha specificato la Corte regolatrice, anche se il cortile è di piccole dimensioni.
"Se la natura di un bene immobile oggetto di comunione non ne permetta un simultaneo godimento da parte di tutti i comproprietari, l'uso comune può realizzarsi o in maniera indiretta oppure mediante avvicendamento; peraltro fino a quando non vi sia richiesta di un uso turnario da parte degli altri comproprietari, il semplice godimento esclusivo ad opera di taluni non può assumere la idoneità a produrre un qualche pregiudizio in danno di coloro che abbiano mostrato acquiescenza all'altrui uso esclusivo, salvo che non risulti provato che i comproprietari che hanno avuto l'uso esclusivo del bene ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale" (Cass. n. 24647 del 03/12/2010; Cass. n. 13036 del 04/12/1991)" (Cass. 17 marzo 2014, n. 6178). 

Autore: Avv. Alessandro Gallucci

www.condominioweb.com 

lunedì 29 dicembre 2014

Le grondaie? Sono parti comuni dell’edificio. Lo dice la Cassazione (www.StudioCataldi.it)

Le grondaie, così come i doccioni e i canali di scarico delle acque meteoriche del tetto di uno stabile condominiale, sono parti comuni dell’edificio ai sensi dell’art. 1117 c.c. e pertanto le spese necessarie per la loro riparazione, manutenzione o sostituzione vanno ripartite tra tutti i condomini.
Lo ha stabilito la seconda sezione civile della Cassazione, con sentenza n. 27154 depositata il 22 dicembre 2014, pronunciandosi sull’impugnativa da parte di alcuni condomini della delibera condominiale che aveva stabilito in ordine alla spesa per la manutenzione delle gronde, la ripartizione secondo il criterio di cui all’art. 1126 c.c., anziché in base a quello di cui all’art. 1125, 3° comma, c.c.
I giudici di merito, secondo la Cassazione, assoggettando le grondaie al regime previsto per i lastrici solari e ritenendo, quindi, che i condomini opponenti, proprietari del lastrico dell’edificio, fossero tenuti a contribuire per un terzo nella spesa della riparazione, non hanno fatto buon governo dei principi stabiliti dall’art. 1117 c.c., poichè le gronde, i doccioni e i canali di scarico “svolgendo una funzione necessaria all’uso comune (in quanto “servono all’uso e al godimento comune”), ricadono tra i beni che l’art. 1117 c.c. include tra le parti comuni dell’edificio”.
A prescindere dal fatto che la copertura del fabbricato sia costituita da tetto a falda o da lastrico solare di proprietà esclusiva, ha spiegato, infatti, la Corte, l’esistenza delle gronde “rimane indispensabile per raccogliere e smaltire le acque piovane - poiché le stesse - convogliano le acque meteoriche dalla sommità dell’edificio fino a terra o a scarichi fognari e svolgono quindi funzione che prescinde dal regime proprietario del terrazzo di copertura, salva anche la facoltà di un uso più intenso che, compatibilmente con il disposto del’art. 1102 c.c., possa farne il proprietario del terrazzo stesso per suoi usi”.
Pertanto, ha concluso la S.C. accogliendo il ricorso e cassando la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, “la proprietà esclusiva del lastrico o terrazzo dal quale provengano le acque che si immettono nei canali non muta questo regime, giacché l’art. 1126 c.c. disciplina soltanto le riparazioni o ricostruzioni del lastrico propriamente inteso e non di altre parti dell’immobile, la cui esistenza è, per esso, indipendente da quella del lastrico, salvo che altrimenti risulti espressamente dal titolo”.

Fonte: Le grondaie? Sono parti comuni dell’edificio. Lo dice la Cassazione 
(www.StudioCataldi.it) 

mercoledì 24 dicembre 2014

Cortile condominiale? Non basta essere confinanti per esserne comproprietari Fonte http://www.condominioweb.com

Il cortile, dice il vocabolario della lunga italiana, è quell'area scoperta che si trova “nella parte opposta alla facciata di un edificio, o interna a esso, o compresa tra più edifici, che ha specialmente la funzione di dare luce e aria agli ambienti che non si affacciano sulla strada” (De Mauro, Dizionario della lingua italiana).
A ben vedere può essere considerato cortile anche quello spazio antistante l'edificio condominiale che si frappone tra esso e la pubblica via.
Tanto ha specificato la Cassazione, che nel dare una definizione di cortile, ha affermato che esso “avuto riguardo all'ampia portata della parola e, soprattutto, alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell'edificio - quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, i distacchi, le intercapedini, i parcheggi - che, sebbene non menzionati espressamente nell'art. 1117 cod. civ., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione” (Cass. 9 giugno 2000, n. 7889).
Sulla natura condominiale del cortile non vi sono dubbi in quanto ne fa menzione l'art. 1117 c.c., il quale può essere contraddetto solamente dai titoli (leggasi atti d'acquisto, meglio primo atto d'acquisto dopo il quale si può dire sorto il condominio o regolamento condominiale contrattuale).
Tanto la definizione comune del vocabolo, tanto quella tecnico-giuridica fanno riferimento anche allo spazio compreso tra più edifici.
Quando il cortile compreso tra più edifici non ricade nell'ambito della disciplina del condominio?
A questa domanda ha dato risposta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 24861 del 21 novembre 2014.
Nel caso di specie due condomini facevano causa al proprietario di un edificio vicino al loro, lamentando che quest'ultimo aveva iniziato ad utilizzare il cortile che, invece, doveva essere considerato in condominio solamente tra di loro.
Il convenuto in giudizio si difendeva dicendo che le cose non stavano così: di quel cortile anch'egli era comproprietario quanto meno per usucapione o comunque per destinazione rispetto alla sua proprietà.
In primo grado i giudici davano ragione al convenuto, mentre nel giudizio d'appello gli originari attori vedevano accolte le loro ragioni: il cortile era loro ed il vicino non poteva utilizzarlo. Da qui la conclusione della causa davanti ad i giudici di piazza Cavour.
Conclusione: il cortile non era in comproprietà anche del convenuto. Motivo? La conformazione dello stato dei luoghi escludeva tale evenienza.
In primo luogo la sentenza ricorda che per parlare di cortile condominiale è necessario che quello spazio ”sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano (sent. 2 agosto 2010 n. 17993; 30 luglio 2004 n. 14559)” e, prosegue la Corte, nel caso sottoposto alla sua attenzione ciò non è stato oggetto di valutazione.
Ma non è solamente questo il punto dirimente della questione. A frapporsi alla comproprietà del cortile c'era anche un altro elemento; infatti, secondo gli ermellini, quanto stabilito dall'art. 1117 c.c. “non può operare con riferimento ad immobili non confinanti direttamente con il cortile (nella specie tra l'immobile di proprietà della ricorrente ed il cortile vi è il vicolo (…))” (Cass. 21 novembre 2014 n. 24681).



Fonte http://www.condominioweb.com/quando-il-cortile-puo-definirsi-condominiale.11520#ixzz3MU55y2MS 


martedì 23 dicembre 2014

Formazione periodica degli amministratore di condominio, perdita dei requisiti e degli incarichi Fonte http://www.condominioweb.com


“Se un amministratore non frequenta il corso di 15 ore annuali, può sanare questa mancanza frequentando quello dell'anno successivo o perde i requisiti?

Obbligo di formazione periodica per gli amministratori di condominio
La legge (art. 71-bis disp. att. c.c.) e il regolamento attuativo (d.m. n. 140/14) impongono all'amministratore l'obbligo di aggiornarsi periodicamente per poter assumere (e mantenere) gli incarichi di gestione.
L'obbligo non ha una durata minima ma una cadenza annuale, è il corso di aggiornamento che deve avere una durata minima di quindici ore. Poi, chiaramente, il combinato disposto di queste due norme fa si che si possa sintetizzare che l'aggiornamento annuale debba avere durata minima di 15 ore, ma non è proprio la stessa cosa.
Esempio: se l'amministratore sceglie di frequentare un corso di aggiornamento di 50 ore non gli basterà seguirne 15 per “essere a posto” con gli obblighi formativi, ma dovrà comunque sostenere l'esame finale e ottenere “la certificazione” per quello specifico corso che è andato a frequentare.
Nozione di cadenza annuale dell'obbligo formativo
Ai sensi dell'art. 5, secondo comma, del d.m. n. 140/2014 “gli obblighi formativi di aggiornamento hanno una cadenza annuale”.
Che cosa si deve intendere per anno? In assenza di specifiche indicazioni normative, allo stato attuale sono due le interpretazioni (nemmeno a dirlo diametralmente opposte) che stanno prendendo piede:
a) quella che considera il periodo annuale coincidente con il così detto anno di calendario;
b) quella che ritiene che il periodo annuale coincida con l'anno solare decorrente dal giorno di entrata in vigore del d.m. n. 140/14 (ossia il 9 ottobre 2014).
Poiché la legge non ci dice che la cadenza annuale debba coincidere con un anno del calendario o con un anno solare, l'interpretazione del termine annuale, riferito ad un periodo di tempo di 365 giorni, ad avviso di chi scrive, porta a concludere che l'obbligo di aggiornamento debba riguardare l'anno decorrente dal 9 ottobre 2014 (sul concetto di anno solare di veda Cassazione civile Sentenza, Sez. Lav., 27 maggio 1995, n. 5969).
Seguendo questa interpretazione, pertanto, l'amministratore sarà in regola se avrà adempiuto al proprio obbligo di formazione periodica entro il 9 ottobre 2015.
Formazione periodica, assunzione e mantenimento degli incarichi di amministratore di condominio
Ai sensi dell'art. 71-bis, primo comma lett. g., disp. att. c.c. possono svolgere l'incarico di amministratore di condominio coloro svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.
Niente formazione periodica? La nomina dev'essere considerata nulla ed ogni condomino potrà ricorrere all'Autorità Giudiziaria per vederla invalidata. Questo genere di mancanza, infatti, non comporta la cessazione automatica dell'incarico come accade, ad esempio, per una condanna penale o un protesto (cfr. art. 71-bis, quarto comma, disp. att. c.c.).
In definitiva, quindi, la situazione degli obblighi formativi connessa all'assunzione degli incarichi (considerando l'interpretazione del concetto di cadenza annuale scelta dallo scrivente) è la medesima:
a) l'amministratore di condominio deve adempiere al proprio obbligo formativo per il primo anno entro il 9 ottobre 2015;
b) chi non adempie entro tale data, non potrà assumere incarichi per l'anno successivo, nemmeno sanando quella mancanza frequentando più ore nel corso dell'anno successivo;
c) di conseguenza verificata questa mancanza ciascun condomino potrà agire per ottenere l'accertamento di nullità della nomina per mancanza del requisito di formazione periodica.
Spieghiamoci meglio.
Chi vuole assumere incarichi deve:
a) aver frequentato un corso di formazione iniziale;
b) frequentare corsi di formazione periodica.
Il primo è una tantum, i secondo no.
Chi si aggiorna quest'anno lo fa anche per poter assumere incarichi l'anno successivo. Senza quest'aggiornamento l'anno successivo non potrebbero essere assunti incarichi. L'anno successivo, nuovamente, l'amministratore dovrà aggiornarsi per assumere incarichi nell'anno seguente. Non aggiornarsi a dovere, quindi, in linea teorica, potrebbe voler dire non potere assumere incarichi (o vederseli tolti con azione giudiziale) se nell'anno precedente non ci si è aggiornati seguendo le prescrizioni del d.m. n. 140.


Fonte http://www.condominioweb.com/se-lamministratore-non-frequenta-il-corso-periodico.11513#ixzz3Lu9iWO4k
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lunedì 22 dicembre 2014

Perché anche chi non è d'accordo deve pagare le spese di rifacimento della facciata condominiale? Fonte http://www.condominioweb.com

Nell'ultima assemblea del condominio in cui vivo, è stato deciso di rifare la facciata dell'edificio; io ho votato contro perché secondo me non c'è bisogno di questo intervento ed ho specificato che non intendo pagare perché si tratta di spesa voluttuaria.
Dopo qualche giorno l'amministratore mi ha inviato la richiesta di pagamento della quota secondo lo stato di ripartizione approvato dall'assemblea, invitandomi e diffidandomi ad adempiere, pena un'azione legale di recupero del credito.
Nella lettera, in risposta alla mia presa di posizione in assemblea, c'è scritto che la spesa deliberata dall'assemblea non è annoverabile tra quelle voluttuarie ed essendo la facciata condominiale bene comune a tutti, io non posso esimermi dal pagamento.
Chi ha ragione?
Spesso si ha la sensazione che una spesa deliberata dall'assemblea sia superflua o comunque voluttuaria sicché i condomini contrari, come il nostro lettore, sono portati a pensare di poter evitare di partecipare alla spesa medesima. Si tratta, quasi sempre, di una presa di posizione sbagliata; vediamo perché. 
Facciata condominiale, voluttuarietà della spesa, obbligatorietà delle delibere assembleari
La facciata di un edificio, di vero, rientra nella categoria dei muri maestri e, al pari di questi, costituisce una delle strutture essenziali ai fini dell'esistenza stessa dello stabile unitariamente considerato, sicché, nell'ipotesi della condominialità del fabbricato, ai sensi dell'art. 1117, n. 1, cod. civ., ricade necessariamente fra le parti oggetto di comunione fra i proprietari delle diverse porzioni (Cass. 30 gennaio 1998 n. 945).
La giurisprudenza prima e l'art. 1117 c.c. esplicitamente dopo l'entrata in vigore della riforma del condominio considerano la facciata un bene comune; ciò vuol dire che – eccezion fatta per i casi di cui all'art. 1123, terzo comma, c.c. (es. condomino proprietario di un box esterno all'edificio) – tutti i condomini devono partecipare alle spese di manutenzione e conservazione della facciata stessa.
Una spesa voluttuaria è una spesa che rispetto alle condizioni dell'edificio (e non a quelle economiche dei singoli condomini, cfr. Trib. Milano, 4 gennaio 1989) non è strettamente necessaria. Per potersi arrivare all'esonero dalla spesa per voluttuarietà della stessa, tuttavia, è indispensabile che essa sia collegata alla deliberazione di un'innovazione. La tinteggiatura della facciata non rientra nel novero delle innovazioni.
Per completare il ragionamento che poterà a dare risposta al nostro lettore, s'aggiunga che ai sensi dell'art. 1137, primo comma, c.c. “le deliberazioni prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini”.
Non solo: anche se la delibera è assunta senza rispettare la legge, essa è pienamente vincolante fintanto che l'Autorità Giudiziaria non la invalidi o comunque non ne sospenda l'efficacia.
Morale della favola: la spesa inerente il rifacimento della facciata, a meno che non sia tale da poter configurarsi alla stregua d'una innovazione voluttuaria (fatto non impossibile ma sicuramente difficile), dev'essere sostenuta da tutti i condomini (favorevole, contrari, astenuti e dissenzienti) e può essere evitata solamente se la deliberazione è stata dichiarata invalida dall'Autorità Giudiziaria. 




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venerdì 19 dicembre 2014

Auguri di Buone Feste!!!!!!

Un augurio a tutti quelli chi ci seguono sul blog, nei corsi in aula, negli articoli e nei nostri libri…. ed un augurio a tutti quelli che ancora non ci conoscono e non ci seguono… che per tutti sia un Natale Sereno e che il 2015 sia un anno ricco di soddisfazioni personali e professionali!!!!

Luca, Claudia e Simone



giovedì 18 dicembre 2014

Edifici abusivi, fa fede la data di fine lavori Cassazione: se l’immobile non è stato ultimato l’abuso edilizio è considerato ancora in corso

Per capire se un edificio è abusivo bisogna fare delle valutazioni sull’ultimazione dei lavori per la sua realizzazione. Lo ha spiegato di recente la Corte di Cassazione con la sentenza 48002/2014.

Secondo la Cassazione, un immobile può essere considerato ultimato solo se funzionale e dotato di tutti i requisiti di abitabilità e agibilità. In sostanza, a detta dei giudici l’ultimazione coincide con la fine dei lavori, che devono comprendere la rifinitura degli interni e degli esterni. Devono quindi essere presenti gli infissi e gli impianti e gli interni devono essere stati imbiancati.

Anche nel caso in cui l’immobile venga utilizzato e siano state attivate le utenze, in mancanza di questi requisiti l’immobile non si considera ultimato.
La differenza è importante per capire in quale momento è stato realizzato un abuso edilizio.
Nel caso esaminato, in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico era stata rilevata la presenza di un immobile realizzato senza permesso di costruire e senza il nulla osta delle autorità preposte alla tutela del vincolo.
Secondo il proprietario, il manufatto era stato realizzato prima che fosse istituito l’ente parco e posto il vincolo nella zona. A suo avviso, quindi, era stato commesso solo un abuso edilizio, ma non un illecito ambientale.
La Cassazione ha invece precisato che anche se la realizzazione dell’immobile era stata avviata prima dell’istituzione dell’ente parco, i lavori non erano stati conclusi. L’abuso, sia edilizio che ambientale, è stato quindi considerato  ancora in corso e non prescritto.



Fonte: http://www.edilportale.com/news/2014/12/normativa/edifici-abusivi-fa-fede-la-data-di-fine-lavori_43005_15.html

mercoledì 17 dicembre 2014

Riscaldamento in condominio, come funziona il distacco Cassazione: se l’impianto funziona male va restituito quanto pagato dopo aver chiesto il distacco

Chi decide di staccarsi dall’impianto di riscaldamento centralizzato per il suo cattivo funzionamento non può chiedere un risarcimento al condominio. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza 24209/2014.

Nel caso preso in esame, un condomino aveva lamentato il cattivo funzionamento dell’impianto centralizzato, che non riusciva ad irradiare calore sufficiente nella sua abitazione. Per questo motivo aveva chiesto di non contribuire più alle spese per il riscaldamento.

Il Tribunale ordinario aveva quindi condannato il condominio a restituire le somme percepite per il servizio inefficiente e arisarcire il danno subito per circa 4 mila euro.
La sentenza è stata però ribaltata in appello e in Cassazione. La Corte ha ricordato che, in base alla riforma del condominio (Legge 220/2012) il distacco è possibile se non derivano squilibri nel funzionamento e aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso, chi si stacca deve concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria, la conservazione e la messa a norma dell’impianto.
La Cassazione, quindi, ha concluso che il condomino può farsi restituite le somme pagate per il servizio dopo la domanda di distacco. Al contrario, la Corte ha dichiarato che il condomino ha il diritto di chiedere il distacco, ma non quello di domandare un risarcimento.

Fonte: http://www.edilportale.com/news/2014/12/normativa/riscaldamento-in-condominio-come-funziona-il-distacco_42968_15.html

lunedì 15 dicembre 2014

Sul sito www.simonescartabelli.it una sezione sulla Tregeoformazione….


E' on line la nuova versione (ancora non definitiva) del sito www.simonescartabelli.it
Nella sezione formazione si fa rferimento alla Tregeoformazione
ed ai suoi corsi.
Si attendono critiche e suggerimenti per apportare le modifiche che aiutino a renderlo più efficace!!!

sabato 13 dicembre 2014

I rapporti tra amministratore di condominio e condomini: l’inizio e la fine di un “amore”. L’analisi dei requisiti per la nomina, la revoca e le dimissioni. Dubbi interpretativi e approfondimenti. TERZA ED ULTIMA PARTE (Avv. Accoti - www.studiocataldi.it)

TERZA ED ULTIMA PARTE DELL'ARTICOLO APPARSO SU WWW.STUDIOCATALDI.IT

Passiamo, infine, al caso delle dimissioni dell’amministratore.
Appare evidente che la nomina ad amministratore di condominio non rappresenta né una investitura divina, potendo essere revocato in qualsiasi momento dall’assemblea ma, neppure, una prigionia (paradossale ritenere che la carica sia irrinunciabile), ben potendo lo stesso dimettersi.
Ciò avviene principalmente nel caso in cui i condomini si disinteressano totalmente alla vita condominiale, non partecipando alle assemblee e, soprattutto, non versando le quote condominiali necessarie alla gestione del condominio.
In proposito un breve inciso.
In simili fattispecie occorrerebbe intervenire tempestivamente riunendo l’assemblea - anche in via straordinaria - al fine di reperire le somme necessarie all’esistenza in vita del condominio e avviare, contestualmente, tutte le procedure per il recupero coattivo del credito nei confronti del condomino moroso; magari fino alle estreme conseguenze, con il pignoramento dell’immobile in caso di persistente morosità.
Tuttavia queste procedure risultano oltre modo dispendiose, sia in termini economici che di tempo, pertanto, si è diffuso l’insano metodo di far fronte alle spese condominiali correnti con fondi personali dell’amministratore.
I motivi di detta pratica risultano facilmente comprensibili, primo tra tutti quello di non “inimicarsi” i condomini che risultano in regola con i pagamenti, sui quali normalmente andrebbero ribaltate e ripartite le quote di pertinenza dei condomini morosi e ciò per far fronte alle spese quotidiane dello stabile (energia elettrica, pulizia, amministrazione, manutenzione, ecc.).
Il più delle volte, quindi, per sopperire alla carenza di liquidità del condominio, l’amministratore provvede personalmente a ripianare le casse condominiali deficitarie, salvo poi esigere la restituzione delle anticipazioni effettuate una volta revocato ovvero dimessosi.
Questo modus operandi potrebbe risultare estremamente incauto e non privo di sorprese, stante le difficoltà che si potrebbero incontrare nel recupero del credito.
La giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto richiede, infatti, la prova rigorosa delle anticipazioni effettuate dall’amministratore.
Appare pleonastico ricordare come le singole partite di spesa devono essere sempre preventivamente approvate dall’assemblea, salvo i casi di urgenza, comunque anch’essi da dimostrare. In mancanza il credito non potrebbe essere considerato esigibile.
Tanto è vero che, l’amministratore di condominio non ha - salvo quanto previsto dagli artt. 1130 e 1135 c.c. in tema di lavori urgenti - un generale potere di spesa, in quanto spetta all’assemblea condominiale il compito generale non solo di approvare il conto consuntivo, ma anche di valutare l’opportunità delle spese sostenute dall'amministratore; ne consegue che, in assenza di una deliberazione dell'assemblea, l'amministratore non può esigere il rimborso delle anticipazioni da lui sostenute (Cass. 27/06/2011 n. 14197).
E’ pur vero che l’approvazione del rendiconto ha valore di riconoscimento di debito, ma ciò solo per le poste passive specificamente indicate. Pertanto, non è sufficiente che il rendiconto di cassa presenti un disavanzo tra uscite ed entrate, atteso che non si può ritenere in via deduttiva che la differenza sia stata versata dall’amministratore utilizzando denaro proprio, ovvero che questi sia comunque creditore del condominio per l'importo corrispondente, atteso che la ricognizione di debito, sebbene possa essere manifestata anche in forma non espressa, richiede pur sempre un atto di volizione su di un oggetto specificamente sottoposto all’esame dell’organo collettivo, chiamato a pronunciarsi su di esso.
Ciò posto l’approvazione del rendiconto dell’amministratore recante un importo di spese superiore a quello dei contributi condominiali pagati dai condomini, può valere come riconoscimento di debito da parte di tutti i condomini in favore dell’amministratore, ma solo limitatamente alle poste a debito dei condomini che siano state indicate nel rendiconto con sufficiente specificità e chiarezza (Cass. 09/05/2011 n. 10153. Si confronti anche: Cass. 28/05/2012 n. 8498Cass. 04/07/2014 n. 15401).
In assenza dei requisiti e delle specificità delineate dalla giurisprudenza di legittimità l’eventuale credito dell’amministratore, rinveniente dalle anticipazioni effettuate in favore del condominio, potrebbe non risultare esigibile.
Come dicevano, le prospettate difficoltà nella gestione del condominio spesso portano gli amministratori più accorti a rassegnare le dimissioni.
Nella previgente disciplina condominiale, ma anche nell’attuale, salvo un vago riferimento (peraltro procedurale) nel novellato art. 1129 c. I c.c., il legislatore non ha disciplinato la suddetta ipotesi di dimissioni, tuttavia, non può ritenersi pensabile che lo stesso sia vincolato “a vita” alle sorti del condominio.
Occorre, infatti, sempre tenere ben presente - come detto - che la figura dell’amministratore è riconducibile a quella del mandatario con rappresentanza, pertanto, per tutto quanto non espressamente regolato dalla speciale disciplina “Del condominio negli edifici”, si deve fare riferimento alle norme generali sul mandato (artt. 1703-1741), ora come allora.
Specie nei casi sopra visti di diffusa morosità dei condomini, nell’impossibilità di gestire normalmente la cosa comune, le dimissioni possono e debbono essere giustificate dalla circostanza per la quale il mandante (condominio) è tenuto a fornire al mandatario (amministratore) i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni (art. 1719).
Nella ricorrenza di questi presupposti l’amministratore dimissionario non deve fare altro che comunicare formalmente al condominio la propria volontà e, quindi, convocare l’assemblea perché provveda alla nomina del nuovo amministratore.
Nell’inerzia dell’assemblea l’amministratore, già nel sistema normativo previgente e, a maggior ragione, in quello attuale (art. 1129 c. I c.c.), può adire l’autorità giudiziaria affinché provveda alla nomina del suo successore.
Tale giudizio - inquadrabile nei procedimenti di volontaria giurisdizione, di natura camerale e non contenziosa - viene definito innanzi al tribunale dove ha sede l’immobile, anche con la refusione delle spese giudiziali (cfr.: Cass. 26/06/2006 n. 14742) sostenute dal ricorrente che, pertanto, dovrebbe essere tenuto indenne da qualsiasi esborso economico.


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venerdì 12 dicembre 2014

I rapporti tra amministratore di condominio e condomini: l’inizio e la fine di un “amore”. L’analisi dei requisiti per la nomina, la revoca e le dimissioni. Dubbi interpretativi e approfondimenti. SECONDA PARTE (Avv. Accoti - www.StudioCataldi.it)

SECONDA PARTE DELL'ARTICOLO AVV. ACCOTI SU WWW. STUDIOCATALDI.IT

Ma passiamo alle modalità di nomina dell’amministratore.
Ricordiamo dapprima che la nomina dell’amministratore è vincolante quando i condomini sono più di otto (i condomini proprietari di più immobili nel medesimo stabile, ai fini del calcolo, vengono considerati sempre come una sola unità) e, in caso di inerzia dell’assemblea, la nomina può essere fatta dall’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini ovvero dell’amministratore dimissionario.
Chiaramente, essendo l’atto di nomina un atto privatistico (se pur condizionato da preminenti interessi sociali nel caso i condomini siano più di otto, così si giustifica l’intervento dell’autorità giudiziaria nei casi di inattività dell’assemblea), rimane nella facoltà dei condomini incaricare un amministratore quand’anche non si raggiunga il numero di condomini necessario a far scattare l’obbligo della nomina.
Nell’ipotesi di nomina obbligatoria dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1136 c. IV c.p.c., è necessaria la maggioranza dei condomini intervenuti in assemblea che rappresenti almeno la metà dei millesimi degli appartenenti al condominio (500).
La nuova formulazione dell’art. 1136 c.c., che ha ridotto il quorum necessario alla regolare costituzione dell’assemblea, pur lasciando inalterato quello per la validità delle deliberazioni, non ha risolto i dubbi interpretativi emersiante riforma in relazione alle maggioranze necessarie per la nomina dell’amministratore in seconda convocazione; da un lato, infatti, si sosteneva che nelle materie indicate dall’art. 1136 c. IV c.c., tra le quali la nomina dell'amministratore, per le deliberazioni assunte in seconda convocazione il richiamo alle maggioranze stabilite dall’art. 1136 c. II c.c. non valeva ad estendere il quorum costitutivo dell'assemblea in prima convocazione (Cass. 09/02/1980, n. 901; Cass. 26/04/1994, n. 3952), dall’altro, in particolare la dottrina, condivisa da parte della giurisprudenza (Cass. 04/05/1994, n. 4269), sosteneva che, dal combinato disposto dagli artt. 1129, 1136 e 1138 c.c., non sarebbe stata possibile una investitura con maggioranze diverse da quelle indicate dall’art. 1136 c. II e IV c.c.
Come detto, la modifica del 2012 non ha risolto detti dubbi interpretativi, tuttavia, anche in virtù della ratio della riforma che, per semplificare la vita in condominio ha inteso abbassare i quorum costitutivi, appare preferibile la tesi che ritiene applicabile in seconda convocazione il (nuovo) disposto dell’art. 1136 c. III c.c., e tanto anche per non ostacolare le attività condominiali con maggioranze troppo elevate.
Viceversa, quando i condomini sono meno di otto e, quindi, in ipotesi di nomina facoltativa (si pensi ad esempio al condominio minimo con soli due partecipanti), sembrerebbero non necessarie per la validità della nomina le anzidette maggioranze qualificate, dovendosi piuttosto fare riferimento a quelle per la comunione (artt. 1105 e segg.) e, pertanto, la maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote.
Nel caso in cui, per i più svariati motivi, l’assemblea non riesca a nominare un amministratore la nomina è fatta dall’autorità giudiziaria (art. 1129 c. I c.c.), con ricorso - anche di un solo condomino - secondo le modalità di cui all’art. 59 disp. att. c.c.: "La domanda per la nomina dell'amministratore …. , se non è proposta in corso di giudizio, si propone con ricorso al presidente del tribunale: nel caso di nomina dell'amministratore, al presidente del tribunale del luogo in cui si trovano gli immobili o si trova la parte più rilevante di essi. Il presidente del tribunale provvede con decreto, sentita l'altra parte. Contro tale provvedimento si può proporre reclamo al presidente della corte d'appello nel termine di dieci giorni dalla notificazione".
L’amministratore dura in carica 1 anno - da intendersi quale anno solare (365 giorni) - con rinnovo tacito del suo mandato di eguale durata (1 + 1) se l’assemblea non decide di revocarlo.
Detta norma ha risolto i dubbi interpretativi sollevati dalla precedente formulazione dell’art. 1129 c.c. - laddove si dibatteva se la nomina e la conferma dell’amministratore fossero assoggettate alle stesse maggioranze (la Cassazione si era espressa in senso affermativo avendo effetti giuridici identici: Cass. 4/04/1994 n. 4269) -, infatti, decorsa la doppia annualità, l’amministratore cessa ex lege dall’incarico ed è tenuto a convocare l’assemblea del condomini per la nomina del nuovo amministratore che, ovviamente, può essere lo stesso.
Nelle more, e fino alla nomina del nuovo amministratore, l’uscente protrae le sue funzioni in virtù dell’istituto della prorogatio visto prima, questa volta con diritto al regolare compenso. A tal proposito giova ricordare che l’amministratore conserva i suoi poteri anche nel caso la delibera di nomina o revoca sia stata impugnata davanti all’autorità giudiziaria ovvero se decaduto per scadenza del mandato (Cass. 14/05/2014 n. 10607).
L’art. 1129 c.c., all’undicesimo comma, stabilisce come e perché l’amministratore può essere revocato.
1) Innanzitutto per volontà dell’assemblea in qualsiasi momento con le maggioranze previste per la sua nomina. E’ il caso in cui viene meno il “gradimento” da parte dei condomini;
2) su ricorso all’autorità giudiziaria (tribunale), da parte di ciascun condomino, allorquando non comunica all’assemblea i provvedimenti dell’autorità amministrativa o citazioni che esulano dalle sue attribuzioni (art. 1131 c.c.) ovvero in caso di omessa rendicontazione o gravi irregolarità;
3) sempre dall’autorità giudiziaria, su ricorso di ciascun condomino, ma solo dopo convocazione dell’assemblea con esito negativo (una sorta di condizione di procedibilità), in caso siano emerse gravi irregolarità fiscali imputate all’amministratore o per la mancata apertura ed utilizzazione del conto intestato al condominio. Nel qual caso, l’accoglimento della domanda, abilita il ricorrente alla rivalsa delle spese legali nei confronti del condominio che, a sua volta, avrà titolo per rifarsi nei confronti dell'amministratore revocato.
Il provvedimento di revoca da parte dell’autorità giudiziaria, rientrando nell’alveo della volontaria giurisdizione, risulta reclamabile avanti la corte d’appello che decide con decreto non ricorribile per cassazione, ad eccezione del capo relativo alle eventuali statuizioni sulle spese di giudizio.
L’art. 1129 c.c. specifica quali possono essere le “gravi irregolarità”, si tratta, tuttavia, di ipotesi non esaustive, ulteriori fattispecie infatti sono state enucleate nel tempo dalla giurisprudenza.
Tra queste la norma richiamata contempla: 1) l’omessa convocazione dell'assemblea per l'approvazione del rendiconto condominiale, il ripetuto rifiuto di convocare l'assemblea per la revoca e per la nomina del nuovo amministratore o negli altri casi previsti dalla legge; 2) la mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi, nonché di deliberazioni dell'assemblea; 3) la mancata apertura ed utilizzazione del conto di cui al settimo comma; 4) la gestione secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore o di altri condomini; 5) l’aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla cancellazione delle formalità eseguite nei registri immobiliari a tutela dei diritti del condominio; 6) qualora sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione delle somme dovute al condominio, l’aver omesso di curare diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione coattiva; 7) l’inottemperanza agli obblighi di cui all’articolo 1130, numeri 6), 7) e 9); 8) l’omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei dati di cui al secondo comma del presente articolo.
Nei giudizi di revoca giova ricordare che legittimato passivo è solo l’amministratore di condominio, per cui non risulta necessaria alcuna delibera o ratifica da parte dell’assemblea in merito alla costituzione in giudizio dello stesso e che, versando in ipotesi di risoluzione contrattuale, l’onere della prova è a carico del condomino(i) ricorrente.
Il menzionato art. 1129 c.c. dispone, infine, che l'assemblea, in caso di revoca da parte dell'autorità giudiziaria, non può nominare nuovamente l'amministratore revocato.
Per completezza, si rammenta che l’amministratore, all'atto dell'accettazione della nomina e del suo rinnovo, deve specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta.
Deve vieppiù comunicare i propri dati anagrafici e professionali, il codice fiscale, o, se si tratta di società, anche la sede legale e la denominazione, il locale ove si trovano i registri di anagrafe condominiale, dei verbali delle assemblee, di nomina e revoca dell'amministratore e del registro di contabilità, nonché i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta all'amministratore, può prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia da lui firmata.
L'amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio; ciascun condomino, per il tramite dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica.
Alla cessazione dell'incarico l'amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi.




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mercoledì 10 dicembre 2014

I rapporti tra amministratore di condominio e condomini: l’inizio e la fine di un “amore”. L’analisi dei requisiti per la nomina, la revoca e le dimissioni. Dubbi interpretativi e approfondimenti. PARTE PRIMA (Avv. Accoti - www.StudioCataldi.it)

Riportiamo questa interessante analisi dell'Avv. Accoti, proposta da www.studiocataldi.com. Ecco la prima parte:

La materia condominiale è stata oggetto di recente riforma dalla Legge 11 dicembre 2012 n. 220, entrata in vigore il 18 giugno 2013, che ha modificato il capo del codice civile dedicato al condominio negli edifici (artt. 1117 e ss.).
Le modifiche hanno riguardato diversi aspetti della disciplina condominiale e, in particolare, l’amministrazione dello stabile, per il quale si registrano ulteriori interventi regolamentari.
Cerchiamo brevemente di inquadrare la figura dell’amministratore di condominio e la natura giuridica dell’incarico.
Per come si evince dall’art. 1130 c.c., l’amministratore è l’organo di gestione e rappresentanza del condominio; la sua figura è riconducibile a quella del mandatario con rappresentanza, per come evincibile anche dal disposto dell’art. 1129 c.c. il quale, per tutto quanto non espressamente disciplinato rimanda, appunto, alle norme sul mandato (artt. 1703-1741).
In altri termini, l’amministratore di condominio è quella figura (mandatario) che, in virtù di contratto, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici nell'interesse di un altro soggetto (mandante).
Nel previgente regime, nel silenzio della legge, tutti potevano ricoprire siffatto incarico, considerato che non erano richiesti particolari requisiti, fatta salva la capacità d’agire. Con l’attuale disciplina e, in particolare, con la formulazione dell’art. 71 bis disp. att. c.c., sono stati stabiliti i requisiti minimi per poter rivestire detto incarico:
Possono svolgere l'incarico di amministratore di condominio coloro: a) che hanno il godimento dei diritti civili; b) che non sono stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni; c) che non sono stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione; d) che non sono interdetti o inabilitati; e) il cui nome non risulta annotato nell'elenco dei protesti cambiari; f) che hanno conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado; g) che hanno frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.
I requisiti di cui alle lettere f) e g) del primo comma non sono necessari qualora l'amministratore sia nominato tra i condomini dello stabile.
Possono svolgere l'incarico di amministratore di condominio anche società di cui al titolo v del libro v del codice. In tal caso, i requisiti devono essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condominii a favore dei quali la società presta i servizi…”.
E’ chiaro che con la riforma il legislatore abbia voluto dare un taglio più specialistico a questa figura e, in particolare, per coloro i quali gestiscono più di un condominio, come gli amministratori professionali. Al contrario, per coloro che svolgono detto compito in via occasionale, si fa esplicito riferimento al solo caso in cui ad amministrare il condominio sia nominato uno dei partecipanti, questi non avrà bisogno di una particolare istruzione scolastica né di una specifica formazione.
Qualora viene meno anche uno solo dei requisiti (essenzialmente morali) di cui alle lettere da a) ad e), l’amministratore cessa dall’incarico e ciascun condomino, senza formalità particolari, può convocare l’assemblea per la nomina del nuovo amministratore. Si ritiene, tuttavia, che fino alla nomina del nuovo amministratore, il precedente, se pur cessato di diritto dalla carica, in virtù dell’istituto della prorogatio imperii sia comunque tenuto ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni ma, comunque, senza diritto ad ulteriori compensi.
La riforma ha cercato di disciplinare ogni singolo aspetto della vita in condominio, partendo proprio dal suo amministratore, per il quale sono previsti obblighi sempre più stringenti, probabilmente a cagione della peculiarità della figura che, spesso, non gode di eccessive simpatie: “Una ricerca presentata a Made Expo da Accelera, su incarico di Manager Immobiliari, su un campione di 300 famiglie in tutta Italia, il 53,7% “tutto sommato” apprezzano la figura dell’amministratore, il 51,7% lo ritiene “abbastanza” trasparente. Ma quando gli si chiede se lo consiglierebbe a parenti ed amici ben il 44,9% dice no. E per il 76,9% il suo compenso è sconosciuto (Fr. Ma. Gr.)” (Fonte: Guida al Diritto, Il Sole 24 Ore).
Come accennato, chi vuole intraprendere detta carriera, sia in forma individuale che societaria - nel qual caso i requisiti dovranno essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condominii a favore dei quali la società presta i servizi - deve partecipare ad un corso di formazione iniziale della durata di almeno 72 ore e, successivamente, con cadenza annuale, frequentare corsi di aggiornamento di almeno 15 ore (art. 5 DM 140/2014).
La formazione iniziale è obbligatoria per (quasi) tutti gli amministratori, ne sono esentati colori i quali hanno svolto tale attività, per almeno un anno, nel periodo compreso tra il 18 giugno 2010 e il 18 giugno 2013, mentre i corsi di aggiornamento sono indispensabili per la generalità degli stessi.
Con una nota diffusa sul sito del Ministero della giustizia, in data 14 ottobre 2014, si è ufficialmente dato inizio ai predetti corsi, con la necessità dell’invio al Ministero - a mezzo pec - dell’indicazione dei dati relativi ai corsi di formazione e, nello specifico: la data di inizio; le modalità di svolgimento; il nominativo dei formatori e dei responsabili scientifici.

Fine parte prima - continua….




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