martedì 30 settembre 2014

La ripartizione delle spese tra locatore e conduttore. (www.StudioCataldi.it)


Innanzitutto l'art. 1576 del codice civile, stabilisce che il locatore (ossia il proprietario dell'immobile) "deve eseguire, durante la locazione tutte le riparazioni necessarie , eccettuate quelle di piccola manutenzione che sono a carico del conduttore" (ossia l'inquilino).
Senza entrare nello specifico, i primo criterio di carattere generale per suddividere le spese tra proprietario e inquilino è quello di individuare la tipologia di intervento. In linea di massima il proprietario è tenuto a sostenere tutte le spese per la manutenzione straordinaria mentre l'inquilino deve provvedere ai piccoli interventi di manutenzione ordinaria.
Qualche chiarimento in più, rispetto alla disciplina del codice civile, arriva dalla legge sulle locazioni degli immobili urbani (Legge 392/78). Vi si afferma infatti che l'inquilino deve sostenere le spese per la pulizia, quelle relative all'ordinaria manutenzione dell'ascensore (quelle straordinarie restano infatti a carico del proprietario), le spese dell'energia elettrica, dell'acqua, del riscaldamento e del condizionamento dell'aria.

Deve inoltre provvedere alle spese relative allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine e alle spese di fornitura di altri servizi comuni. Se poi nello stabile c'è un servizio di portineria, l'inquilino  dovrà farsi carico del suo pagamento nella misura del 90%.
Nonostante le indicazioni normative, a volte può risultare poco agevole capire se ci si trovi di fronte a un  intervento di manutenzione ordinaria o di manutenzione straordinaria.  E' per questo che la giurisprudenza di volta in volta fornisce indicazioni per l'applicazione dei principi generali ad alcune fattispecie particolari.
Di recente ad esempio la Corte di Cassazione si è pronunciata affermando che anche le spese per il rifacimento della facciata condominiale debbono essere considerate spese di straordinaria amministrazione che vanno poste quindi a carico del proprietario.

Per cercare di semplificare e schematizzare il concetto, può risultare utile operare una semplice suddivisione, che distingue le spese condominiali o comuni dalle spese correlate in maniera diretta all'abitazione oggetto del contratto di locazione e alle relative attività di manutenzione.

Chi paga le spese condominiali?

Le spese condominiali sono a carico del conduttore, ossia dell'inquilino, e comprendono i costi del servizio di pulizia, del funzionamento e della manutenzione dell'ascensore, della fornitura di acqua, di energia elettrica, nonché dell'eventuale condizionamento e riscaldamento delle parti in comune: in sintesi, tutte quelle spese relative alla gestione degli spazi condivisi, definite altresì come costi ordinari. A questi, vanno escluse le spese dovute ad attività di rifacimento degli impianti o delle facciate che, invece, sono da considerarsi a carico del locatore, così come le opere comuni che possono ritenersi straordinarie. Salvo accordi diversi in fase di firma del contratto di locazione, la ripartizione delle spese condominiali previste per legge è quella appena riportata. La persona responsabile nei confronti del condominio resta, comunque, sempre il proprietario, perseguibile legalmente in caso di mancato pagamento anche dell'affittuario.
Tuttavia, qualora l'inquilino venga meno a tale obbligo, il locatore può esercitare il diritto di rivalsa su quest'ultimo, chiedendo il rimborso delle spese sostenute: il conduttore avrà quindi 60 giorni di tempo per provvedere al pagamento. In caso di mancato assolvimento di tali oneri per oltre due mensilità, il proprietario può avanzare la richiesta di risoluzione del contratto.

Chi paga le spese relative all'appartamento?

Premesso che il locatore ha l'obbligo di consegnare l'abitazione in buono stato all'inquilino, tutti i costi di piccola manutenzione, come le spese dovute a riparazione causate dal normale deterioramento o uso del bene, sono a carico del conduttore. Fra queste si ricordano, a titolo d'esempio, le riparazioni degli impianti idrici o elettrici, degli apparecchi di servizio di riscaldamento o condizionamento, ma anche il mantenimento delle strutture e dei rivestimenti come pavimenti, pareti e soffitto. 
Gravano, invece, sul proprietario, i costi relativi a casi fortuiti, quindi le attività di manutenzione che si presentano per eventi non previsti ed imprevedibili, non evitabili attraverso le comuni opere di manutenzione ordinaria, ma anche quelle dovute alla vetustà del bene in oggetto. Ovviamente, spettano sempre al locatore anche tutte le eventuali opere di adeguamento dell'immobile alle normative vigenti. 
Tuttavia, le attività di manutenzione possono prestarsi a diverse interpretazioni e non sempre è possibile determinare in maniera chiara se si tratti di interventi dovuti all'uso prolungato da parte dell'inquilino o alla longevità dell'immobile. Per tale ragione, qualora non sia determinabile l'origine della spesa, ossia se quest'ultima sia riconducibile alla fruizione o all'anzianità del bene, la normativa prevede che la competenza venga decisa in base all'uso dei locali. Se nemmeno in questo caso è possibile stabilire la competenza, allora, per legge, la spesa spetta al conduttore.
Si ricorda, comunque, che nel caso l'inquilino sia costretto ad accollarsi spese per riparazioni urgenti, che dovrebbero essere a carico del locatore, può chiedere il relativo rimborso a quest'ultimo, a patto di una comunicazione immediata dei costi sostenuti.




Fonte: La ripartizione delle spese tra locatore e conduttore. 
(www.StudioCataldi.it) 

mercoledì 24 settembre 2014

Cassazione: il superamento della presunzione di condominialità del bene ex art. 1117 cod. civ. (Studio Cataldi)

Corte di Cassazione civile, sezione seconda, sentenza n. 12572 del 4 Giugno 2014. Su che 
Su che cosa si basa il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio? O meglio, sulla base di quali caratteristiche di fatto e di diritto una porzione di condominio è suscettibile di comproprietà?
A queste domande ha risposto la Corte di Cassazione Civile, con sentenza n. 12572 del 4 giugno 2014, tornando ad esprimersi sulla presunzione di comunione stabilita dall'art. 1117 c.c. in una controversia riguardante la proprietà di alcuni spazi condominiali all'interno di un complesso di alloggi sociali, privi di aerazione diretta e posti a confine e a contatto con taluni degli appartamenti.
In particolare, ha affermato la Corte, "il diritto di condominio sulle parti comuni dell'edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l'esistenza dell'edificio stesso, ovvero che siano permanentemente destinate all'uso o al godimento comune, sicché la presunzione di comproprietà posta dall'art. 1117 c.c., che contiene un'elencazione non tassativa ma meramente esemplificativa dei beni da considerare oggetto di comunione, può essere superata se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte dell'immobile, venendo meno, in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene prevale sull'attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario".
In questo senso, pertanto, prevalendo la destinazione d'uso del bene sulla sua qualificazione legale, la S.C. ha condiviso il ragionamento della corte territoriale sull'esclusione della contitolarità degli spazi oggetto di vertenza, poiché "mancanti di aerazione diretta - e - privi di un'originaria destinazione di servizio rispetto all'edificio condominiale", essendo invece "ben utilizzabili dagli appartamenti a confine sul lato lungo degli stessi, da cui i detti locali hanno unico accesso", secondo una valutazione motivata riservata, in via esclusiva, al giudice del merito.
Per questi motivi, rigettata la domanda dei proprietari esclusivi nei gradi di merito, la sentenza d'appello impugnata è stata, tuttavia, riformata dalla Cassazione, la quale, preso atto della circostanza che tali appartamenti hanno accesso unico su queste zone - nonché del fatto che sino a quel momento la totalità delle spese di realizzazione e manutenzione dei locali disputati fosse stata sopportata dai proprietari esclusivi - ha ritenuto che i singoli proprietari ben possono vantare diritto esclusivo di proprietà su dette aree, essendo gli unici direttamente interessati al loro uso e godimento.



Autore: Licia Al
(www.StudioCataldi.it) 

lunedì 22 settembre 2014

Ordinanza di demolizione di opere abusive ed istanza di condono….

La presentazione della istanza di condono comporta l'obbligo per l'amministrazione ... di pronunciarsi espressamente su tale domanda di condono prima di dare ulteriore corso al procedimento repressivo.
La domanda di concessione o di autorizzazione in sanatoria, presentata al comune interessato, entro i termini perentori previsti dalle varie leggi che dispongono la definizione agevolata delle violazioni edilizie e corredate dalla documentazione richiesta, determina ai sensi degli artt. 38 e 44, l. n. 47 del 1985, la sospensione dei procedimenti amministrativi sanzionatori, con la conseguenza che "i provvedimenti repressivi adottati in pendenza di istanza di condono sono illegittimi perché in contrasto con l'art. 38, l. n. 47 del 1985, il cui disposto impone all'Amministrazione di astenersi, sino alla definizione del procedimento attivato per il rilascio della concessione in sanatoria, da ogni iniziativa repressiva che vanificherebbe a priori il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria". 
Queste le motivazioni con le quali iTribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) - sentenza n. 08234/2014 del 25/07/2014 - ha disposto l' annullamento di un' ordinanza (risalente al 2005) di demolizione di opere abusive e ripristino dello stato dei luoghi.
L' ordinanza di demolizione di alcuni manufatti, realizzati  senza titolo abilitativo in Roma, era stata adottata senza tener conto che, prima dell' adozione del  provvedimento impugnato, il ricorrente aveva presentato domanda di condono edilizio ex legge 326/2003.
ll provvedimento, ritenuto viziato per eccesso di potere, è stato, quindi, impugnato davanti  al TAR che ha accolto anche la domanda cautelare.
Il ricorso viene accolto ed il provvedimento impugnato annullato, come prospettato dal ricorrente, per eccesso di potere per travisamento dei presupposti "in ragione della mancata considerazione della preesistenza della domanda di condono e della necessità di scrutinare la stessa prima di adottare eventuali ordinanze di demolizione".
Secondo i Giudici "la presentazione di domanda di condono edilizio, in base al disposto dell'art. 38, l. n. 47 del 1985 cui l'art. 32 della L n. 326/2003 rinvia, fa sì che l'Amministrazione non può emettere un provvedimento sanzionatorio senza aver prima definito il procedimento scaturante dall'istanza di sanatoria, ostandovi i principi di lealtà, coerenza, efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, i quali impongono la previa definizione del procedimento di condono prima di assumere iniziative potenzialmente pregiudizievoli per lo stesso esito della sanatoria edilizia".
Il principio esposto trova applicazione anche quando gli immobili per i quali è chiesto il condono ricadano in zona vincolata, essendo comunque l'Amministrazione tenuta, a fronte della domanda, ad esprimersi, anche se del caso in senso negativo, circa la sussistenza dei presupposti per la sanabilità dell'intervento, ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), l. n. 269 del 2003, convertito dalla l. n. 326 del 2003".
Non viene ritenuta meritevole di accoglimento la tesi difensiva del Comune che aveva chiesto la dichiarazione di improcedibilità del ricorso "in ragione della pendenza della domanda di condono e perché, in esito alla definizione della detta domanda di condono, i provvedimenti impugnati perdono efficacia dovendo, nel caso, essere nuovamente adottati".
Per il TAR il provvedimento impugnato, essendo illegittimo, va annullato. L' Amministrazione dovrà, di conseguenza, istruire prima  l' istanza di condono e, solo in esito alla definizione della pratica, adottare tutti i conseguenti provvedimenti.
Un altro esempio di rapida definizione di un procedimento amministrativo. Sicuramente la richiesta di condono, corredata dalla documentazione di cui al comma 35 dell' art. 32 della legge n. 326/2003, è stata presentata entro il 10 dicembre 2004 (ultima scadenza disposta dall'art. 5, comma 1, legge n. 191 del 2004).

Fonte: Ordinanza di demolizione di opere abusive ed istanza di condono 
(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 19 settembre 2014

Lavori in appartamento ubicato in condominio, è necessario informare i propri vicini della loro effettuazione?

Che cosa bisogna fare, per salvaguardare i rapporti di buon vicinato e comunque per rispettare la legge, nel caso in cui si rendano necessari dei lavori in un appartamento ubicato in condominio?
Per esempio se ci si rende conto che le tubature del bagno dell'abitazione sono rotte e si pone la necessità di eseguire dei lavori di manutenzione nell'appartamento, si devono avvisare gli altri condomini?
La risposta non è univoca perché varia di caso in caso anche in relazione alla tipologia d'intervento; vediamo perché.
Innanzitutto è necessario leggere il regolamento di condominio: nello statuto della compagine possono essere inserite norme di comportamento relativamente all'uso delle cose comuni (si pensi all'utilizzazione dell'ascensore per caricare e scaricare il materiale da usare e quello di risulta), nonché agli orari di esecuzione degli interventi (fermo restando sul punto quanto stabilito dal regolamento di polizia locale).
Se il regolamento ha natura contrattuale, poi, esso può contenere norme più stringenti che possono spingersi fino al divieto di uso delle cose comuni in determinate modalità; si faccia riferimento, ad esempio, la carico/scarico di cui sopra.
Bisogna poi ricordare una norma di legge, esattamente l'art. 843, primo e secondo comma, c.c. disciplinante l'accesso al fondo del vicino, che recita:
Il proprietario deve permettere l'accesso e il passaggio nel suo fondo, sempre che ne venga riconosciuta la necessita, al fine di costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino oppure comune.
Se l'accesso cagiona danno, è dovuta un'adeguata indennità.
In buona sostanza se Tizio per ristrutturare la propria abitazione deve entrare a casa di Caio, quest'ultimo, salvo i danni, deve consentire l'accesso e se non lo fa può essere obbligato dal giudice.
Detta più semplicemente: i vicini devono essere avvisati dello svolgimento dei lavori se il regolamento lo impone o comunque se è necessario chiedere il permesso di entrare in casa loro per l'esecuzione dei medesimi.
Con riferimento a quel complesso di regole non scritte che, comunemente, chiamiamo rapporti di buon vicinato, è sempre bene, soprattutto se i lavori saranno prolungati e necessiteranno di uso dell'ascensore per il carico e scarico e simili, avvisare i propri vicini, quanto meno con un cartello informativo sulla bacheca condominiale, ferma restando l'eventuale necessità di pubblicità dei lavori dettata dalla normativa urbanistico-edilizia.
Resta poi un ultimo aspetto da non sottovalutare: a mente dell'art. 1122 c.c., infatti,
Nell'unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio.
In ogni caso è data preventiva notizia all'amministratore che ne riferisce all'assemblea.
L'uso del sintagma "in ogni caso" riferito ai lavori su parti di proprietà o uso esclusivo, sembrerebbe lasciar intendere che ogni opera su tali porzioni di edificio debba essere comunicato all'amministratore che, a sua volta, deve riferirne in assemblea.
Davvero si può arrivare a ipotizzare che la tinteggiatura della cucina debba essere portata a conoscenza dell'amministratore che poi la andrà a riferire a tutti i condomini?
Ad avviso di chi scrive un'interpretazione simile è fin troppo estensiva. I lavori che possono interessare cose comuni (es. rifacimento bagno con conseguente collegamento alla colonna di scarico condominiale), invece, devono essere sempre comunicati.



www.condominioweb.com 

giovedì 18 settembre 2014

Il nostro blog tocca le 4000 visite!!!!

Per una volta un post "interessato"…. Abbiamo superato la soglia delle 4000 visite al nostro blog, un traguardo non certo prevedibile e neanche sperabile!!!!!!….  beh, quindi ringraziamo tutti quelli che regolarmente visitano questo blog, quelli che lo trovano per caso e decidono di leggere qualcosa e chi viene per prendere qualche informazione!!! Nella ricerca delle notizie cerchiamo di selezionare le più utili, con occhio attento alle novità. La nostra intenzione è quella di migliorare e migliorarci, facendo crescere la nostra figura professionale ed in genere chi frequenta i nostri ambiti di competenza. Ovviamente siamo aperti ai contributi che chi ci segue vuol dare… Non esitate perciò a commentare i post e, soprattutto, a proporne di nuovi. Contattateci senza indugio alla nostra mail tregeoformazione@gmail.com o a twittare e ritwittare le nostre notizie @tregeoform
Simone - Luca - Claudia

Limiti al diritto di proprietà: servitu’ di passaggio Apposizione del cancello nel fondo servente costituisce esercizio del diritto di proprietà.




Il diritto di proprietà (art. 832 c.c.) è frutto di una lunga evoluzione.
Negli ordinamenti liberali era considerato come un diritto illimitato, infatti nell’ art. 436 del codice civile italiano del 1865 si disponeva che: “ la proprietà è il diritto di godere e disporre della cosa nella maniera più assoluta purchè non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti”.
Così, che essa va esercitata in modo conforme al titolo e al possesso, e nel dubbio, in modo da arrecare il minor aggravio al fondo servente (art. 1065 c.c.).
- In modo volontario, con atto inter vivos o mortis causa.
- In modo coattivo, con sentenza del giudice, presupposto è che un fondo non abbia accesso alla pubblica via perchè intercluso da altri fondi, né sia possibile procurarsi l’ accesso stesso senza eccessivo disagio.
La stessa cosa vale se si tratta di ampliare un passaggio già esistente per il transito di mezzi. In tale circostanza, è dovuta un indennità proporzionata al danno cagionato dal passaggio (art. 1053 c.c.) fissata dal giudice in una data somma di denaro.
- Con atto amministrativo, con cui la pubblica amministrazione si avvale dei poteri autoritativi espropriativo, lasciando la proprietà al privato, ma gravandola di una servitù per pubblica utilità in base alla L. 25 giugno 1865, n. 2359.
- Per usucapione,
- Per destinazione del padre di famiglia, quando due fondi divisi erano stati posseduti dallo stesso proprietario, che ha lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù.
Il proprietario di detto fondo prestava le dovute attenzioni mediante consegna dei comandi elettronici al proprietario del fondo dominante, per facilitarne l’ accesso.
“L’ accertamento di tali modalità è lasciato al giudice di merito”.
 Fonte: LeggiOggi      http://www.leggioggi.it/2014/09/08/limiti-diritto-proprieta-servitu-passaggio/
La prospettiva cambia con l’avvento della Costituzione. In particolare, nell’ art. 42 Cost. il legislatore “determina i modi di acquisto, di godimento, ed i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Ne consegue, che, il proprietario non può godere del bene se non nei limiti in cui tale godimento è giustificato da un interesse generale o compresso quando ciò sia utile socialmente.
La servitù prediale disciplinata dall’ art. 1027 c.c .che recita: “ le servitù prediali consistono in un peso imposto sopra un fondo per l’ utilità di un altro fondo”è uno di esso.
Le condizioni poste dalla norma perchè sussista la servitù è che i fondi siano vicini, appartenenti a proprietari diversi e che sussista un effettiva utilità.
La legge detta poi una serie di norme volte a regolare l’ esercizio della servitù.
Poi, ai sensi dell’ art. 1069 c.c. il proprietario del fondo dominante, nel fare le opere sul fondo deve scegliere i modi e i tempi che arrechino minor incomodo possibile al proprietario del fondo servente (art. 1069 c.c.).
Come si costituisce la servitù:
Il caso sottoposto all’ esame della Corte di Cassazione, riguardava l’apposizione di un secondo cancello sul fondo servente, finalizzato a impedire l’ intrusione nella proprietà di terzi.
Sulla questione veniva proposto atto di citazione dal proprietario del fondo dominante con la motivazione che l’ opera costituiva un aggravio dell’ esercizio della servitù.
La Corte d’Appello di Torino rigettava il gravame, sulla motivazione che non poteva considerarsi atto emolutivo, ma un esercizio del diritto di proprietà dall’ intrusione altrui senza tuttavia impedire all’ avente diritto l’ esercizio del diritto di proprietà.
Con la sentenza n. 17550/2014 la Corte di Cassazione giungeva alla decisione, secondo cui: “ La Corte di Appello ha fatto, corretta applicazione del principio secondo cui in tema di servitù di passaggio, rientra nel diritto del proprietario del fondo servente l’ esercizio della facoltà di apportare modifiche allo stesso ed opporvi un cancello per impedire l’ accesso ai non aventi diritto, pur sè dell’ esercizio di tale di diritto possano derivare disagi minimi e trascurabili al proprietario al fondo dominante in relazione alle pregresse modalità di transito. Ne consegue che ove non dimostrato in concreto dal proprietario del fondo dominante al quale venga consegnata la chiave di apertura del cancello l’ aggravamento o l’ ostacolo all’ esercizio della servitù, questi può provvedere a rendere meno disagevole l’ apertura del cancello con l’apposizione del meccanismo di apertura automatico con telecomando a distanza.”
La ratio giustificatrice lo si trova nel fatto che i disagi imposti al fondo dominante sono minimi, e superabili mantenendo il cancello aperto o controllato mediante telecomando a distanza.
E’ consuetudine mantenere buoni rapporti di vicinato per risolvere le incombenze quotidiane.
Autore: Rosalba Vitale

martedì 16 settembre 2014

Sentenza sul danno da inquinamento acustico!!!!!!

Il grave difetto di costruzione che legittima l'applicazione dell'art. 1669 c.c. “Rovina e difetti di cose immobili” può consistere in qualsiasi alterazione, conseguente all'imperfetta esecuzione dell'opera, che pregiudichi in modo considerevole il normale godimento dell'immobile, includendosi in tale ambito anche l'accertata insufficienza della sonorizzazione.
Per inquinamento acustico, ai sensi dell'art 2 della Legge quadro 26 ottobre 1995 n 446, si intende: “l'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o nell'ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell'ambiente abitativo o dell'ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi” (in punto, cfr, altresì,Sentenza nr 103/2013 della Corte Costituzionale)
Il caso. I signori Tizio e Caia acquistarono da Sempronio nel 2007 un'unità immobiliare facente parte del fabbricato condominiale Alfa, che sulla base di un provvedimento amministrativo era stato integralmente recuperato e ristrutturato (con ultimazione opere nell'anno 2002).
Rilevando la presenza nell'immobile di gravi difetti costruttivi (solo a seguito di perizia), in quanto tali occulti, legatia d insufficiente isolamento acustico, con violazione dei parametri di cui al DPCM 5.12.1997, hanno citato in giudizio la società costruttrice Beta, chiedendo disporsi la condanna della convenuta all'eliminazione degli stessi ovvero al pagamento di somma di denaro corrispondente al costo dei lavori a ciò necessari nonché al deprezzamento subito dall'immobile stesso, con rivalutazione monetaria ed interessi legali, nonché al risarcimento del danno in misura pari al costo dell'affitto dovuto sostenere a seguito del trasferimento in altra unità immobiliare facente parte del medesimo stabile ma non interessata dai problemi che affliggevano quella acquistata dagli attori.
La Società Beta, come di rito, si difendeva e, a tal fine, chiamava in causa il direttore dei lavori e progettista, nonché il committente per essere manlevata in ipotesi di condanna.
Lo svolgimento dell'istruttoria. Le indagini tecniche assolte nelle more della causa hanno confermato i vizi denunciati dagli attori. E' stato rilevato all'interno dell'immobile di cui trattasi un insufficiente isolamento acustico, in relazione soprattutto dalle immissioni sonore per calpestio, presumibilmente determinato dalla mancanza del materassino fonoassorbente di adeguate caratteristiche e spessore.
La Sentenza del Tribunale di Brescia emessa in data 05 agosto 2014. Il provvedimento in commento pone un presupposto innovativo, laddove stabilisce – rispetto alle condizioni specifiche del caso –i criteri del risarcimento del danno da applicarsi. E segnatamente: “Il CTU ha esattamente individuato gli interventi che risulterebbero idonei a garantire il conseguimento di un'adeguata protezione acustica. E' tuttavia da rilevare che, nella fattispecie, la realizzazione delle opere indicate dal tecnico postula la disponibilità in tal senso dei proprietari delle unità immobiliari adiacenti a consentire l'accesso ai locali e l'esecuzione delle opere a ciò necessarie. Ciò posto, deve concludersi affermando che è impossibile attuare quanto previsto dal CTU, per l'impossibilità di costringere i proprietari delle predette unità immobiliari non solo a tollerare l'accesso ma anche a subire l'esecuzione in esse delle opere richieste. Che pertanto devono ritenersi possibili soltanto per la parte da eseguirsi nell'unità abitativa degli attori. Per il resto deve operare il criterio risarcitorio correlato al deprezzamento del bene, nella misura percentuale stabilita dal CTU (30% sul prezzo dell'unità abitativa, non considerandosi la parte di prezzo relativa al garage). A ciò va aggiunto il costo sostenuto per la locazione di altra unità immobiliare, così come risultante dalla produzione documentale di parte attrice (doc.4), da ritenersi necessitato per lo meno per la durata del primo quadriennio di contratto, per totali €.28.800,00, essendo dipeso il trasferimento dalla salvaguardia della salute del figlio piccolissimo degli attori, che aveva manifestato disturbi per il rumore (deposizione L.P.)”.
Conclusione. Alla stregua di quanto sopra, si configurano gravi difetti dell'edificio a norma della disciplina sopra richiamata anche le carenze costruttive dell'opera – da intendere anche come singola unità abitativa - che pregiudicano o menomano in modo grave il normale godimento e/o funzionalità e/o l'abitabilità della medesima, come, nel caso in cui, la realizzazione è avvenuta pur omettendo l'installazione di materiali edilizi previsti in progetto e incidenti su elementi secondari ed accessori dell'opera (quali gli impianti per insonorizzazione, e, in particolare, il materassino fonoassorbente).
Dall'altra parte, a norma dell'art. 2058 cc, in tema di risarcimento del danno rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente anziché quello in forma specifica, a secondo delle circostanze trattate e del contesto di riferimento.




www.condominioweb.com 

lunedì 15 settembre 2014

Differenza tra proroga e rinnovo del permesso di costruire. Sentenza n. 1013 del 4 marzo 2014.

Il Permesso di Costruire è il titolo abilitativo edilizio attraverso il quale, ai sensi del Capo II, Permesso di costruire, Sezione I, Nozione e caratteristiche, artt. 10-15 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380,  Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia aggiornato con le successive modifiche ed integrazioni e s.m.i., può essere concessa l'esecuzione dei seguenti interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio:

a) interventi di nuova costruzione come definiti dall'art. 3, 1° comma, lett. e) del d.p.r. n. 380/2001 e s.m.i;
b) interventi di ristrutturazione urbanistica, rivolti a sostituire l'esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso, mediante un insieme sistematico di interventi edilizi, anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale. 
c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso. 

Il Permesso di Costruire :
a) è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, è trasferibile, insieme all'immobile, ai successori ed aventi causa; 
b) non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio, non comporta limitazione dei diritti di terzi, è irrevocabile ed oneroso.
L'art. 15 del d.p.r. n. 380/2001 dispone in merito all'efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire e prevede che nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori; che il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo mentre quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata non può superare i tre anni dall'inizio dei lavori. 

Dunque il Permesso di Costruire è un provvedimento amministrativo sottoposto a termini perentori di inizio e di ultimazione dei lavori; anche se «entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso».
Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga che può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.
Il comma 3 dell'art. 15 del  T.U. sull'edilizia prevede, altresì, che «la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito é subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell'articolo 22».

Inoltre, ai sensi del d.l. 21 giugno 2013, n. 69,  Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia (convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98), art. 30, comma 3, si dispone che «salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all'articolo 15 del decreto del Presidente della Repubblica del 6 giugno 2001, n. 380, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del presente decreto, purchè i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell'interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati».

Ciò premesso, è del tutto evidente come l'art. 15 del d.p.r. n. 380/2001 faccia riferimento agli istituti della decadenza, della proroga e del rinnovo del permesso di costruire, sui quali ha statuito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con la Sentenza n. 1013, del 4 marzo 2014.
L'art. 15 del d.p.r. n. 380/2001, ad avviso della Suprema Corte, «mette in luce l'esistenza di un diverso regime che distingue, da un lato, il provvedimento di decadenza da quello di proroga e, all'interno delle tipologie di proroga, quella determinata dal sopravvenire di un fatto esterno da quella determinata da profili ontologici dell'opera».

La differenza tra la decadenza e la proroga, nella sentenza de qua, è legata al fatto che la decadenza del provvedimento è connessa ai soli presupposti di legge, mentre la proroga è caratterizzata dalla scelta discrezionale.

La decadenza ad avviso della Suprema Corte «ha carattere meramente dichiarativo  di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc».

In merito era già intervenuto il Consiglio di Stato (sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4206 ), rilevando che «la pronunzia di decadenza del permesso di costruire, che riceve ora una puntuale disciplina all'art. 15, comma 2, del d.p.r. n. 380 del 2001, sia connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dal cit. art. 15, comma 2, (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.

Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l'infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 4 aprile 2013, n. 1870).

La sentenza in esame (C.d.S. n. 1013/2014), evidenzia che, invece, «la proroga dei termini stabiliti da un atto amministrativo ha la natura giuridica di provvedimento di secondo grado, in quanto modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti giuridici delineati dall'atto originario (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 18 settembre 2008, n. 4498)».

Nell'ambito della materia edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo del Permesso di Costruire e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che, mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell'originario titolo edilizio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è provvedimento amministrativo sfornito di propria autonomia che accede all'originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia. 

La proroga è quindi disposta con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione.

A parere della Consiglio di Stato «la proroga possa aver luogo per factum principis, ossia, come afferma la norma, "per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso" o per ragioni collegate alla natura dell'opera, ossia "esclusivamente in considerazione della mole dell'opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari».

Il Consiglio di Stato ha affrontato la questione della differenza tra la categoria del rinnovo e della proroga anche relativamente alla Concessione, ribadendo (Sez. II, 26 agosto 2014, n. 2760) che «che la nozione di "rinnovo" non va confusa con quella di "proroga" dello stesso titolo concessorio, ovvero con la protrazione dell'efficacia nel tempo dell'originaria concessione: ipotesi, quest'ultima, che ricorre sul piano sostanziale quando il medesimo rapporto concessorio venga fatto proseguire, a beneficio del precedente titolare, ex lege o a fronte di una sola domanda, presentata prima della scadenza del titolo (cfr. in tal senso, per il principio, Cons. Stato, VI, 26 maggio 2010, n. 3348 e 1 febbraio 2013, n. 626). Il "rinnovo" comporta invece un nuovo atto concessorio che ha il medesimo oggetto, ma non necessariamente il medesimo destinatario: tale fattispecie comporta la volontà dell'amministrazione di rinnovare un affidamento in concessione (anziché far cessare qualsiasi affidamento del genere), ma non implica la reiterazione in toto, anche dal punto di vista soggettivo, del titolo precedente».


Autore: Prof. Luigino SERGIO (già Direttore Generale della Provincia di Lecce; esperto di organizzazione e gestione degli enti locali).

(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 12 settembre 2014

Nuova sentenza della Cassazione sui lastrici solari: tutti i condomini concorrono alle spese delle terrazze a livello. Anche se sono di uso esclusivo.

Al pari del lastrico solare anche per le terrazze a livello, attribuite in uso esclusivo, tutti i condomini devono concorrere al pagamento delle spese necessarie per la riparazione o la ricostruzione, in ragione dell'utilità che gli altri alloggi sottostanti possono trarre dalla terrazza stessa. 
A precisarlo è la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 18164 del 25 agosto 2014, è tornata ad occuparsi della ripartizione delle spese in materia condominiale, ribadendo principi già affermati dalla costante giurisprudenza (tra cui Cass. n. 3672/1997) e rigettando il ricorso di un condomino condannato in appello a partecipare al risarcimento dei danni e alle spese per i lavori da eseguire ai sensi dell'art. 1126 c.c., a causa delle infiltrazioni d'acqua provenienti dal soprastante terrazzo a livello di pertinenza e proprietà esclusiva del condomino convenuto. 
Condividendo le statuizioni della Corte d'Appello, i giudici di legittimità hanno chiarito, che, poiché il lastrico solare dell'edificio, e dunque la terrazza a livello allo stesso equiparata, "svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all'obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo". Così come, degli eventuali danni cagionati agli appartamenti sottostanti (come, nel caso di specie, per le infiltrazioni d'acqua), a causa della cattiva manutenzione, "rispondono tutti gli obbligati, inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dall'art. 1126 c.c.". 
Né, può rilevare, secondo la Cassazione, ai fini della ripartizione delle spese, il fatto che gli eventuali danni possano essere stati provocati "da difetti in ipotesi ricollegabili alle caratteristiche costruttive". 
Infatti, l'obbligo dei condomini cui il lastrico solare serve di copertura di concorrere nella ripartizione delle spese, trova fondamento, ha affermato la Suprema Corte, "non già nel diritto di proprietà del lastrico medesimo, ma nel principio in base al quale i condomini sono tenuti a contribuire alle spese in ragione dell'utilitas che la cosa da riparare o da ricostruire è destinata a dare ai singoli appartamenti sottostanti".
Fonte:   (www.StudioCataldi.it) 
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_16407.asp

giovedì 11 settembre 2014

Come fare per convocare l'assemblea senza far partecipare l'amministratore?

Non è difficile calarsi nei panni di quei condomini che, per necessità, devono decidere qualcosa senza che l'amministratore sia presente.
Il pensiero solitamente va alla deliberazione di revoca; in questi casi, infatti, alle volte si prova un senso di vergogna (tipico di chi evidentemente non è propriamente convinto della propria azione) nell'esternare la propria volontà in tal senso se non di vera e propria paura quando s'ha soggezione verso il proprio legale rappresentante.
Proprio per la revoca, tuttavia, sopratutto quando la questione è incerta la presenza dell'amministratore potrebbe anche essere utile per instaurare una sorta di contraddittorio tra le parti al fine di far uscire dal confronto la soluzione migliore.
Un altro caso nel quale la presenza dell'amministratore potrebbe essere considerata di troppo è proprio la deliberazione opposta, quella di nomina o conferma, perché i condomini potrebbero avere necessità di confrontarsi e decidere sul compenso da proporre o controproporre.
In questo contesto, al fine di rispondere alla domanda che ci siamo posti in principio è necessario comprendere un aspetto: l'amministratore è obbligato a partecipare all'assemblea condominiale?
La risposta è la seguente: dipende dall'oggetto della deliberazione. Alcuni esempi, al solito, saranno utili a chiarire quest'affermazione.
Si pensi all'assemblea convocata per la deliberazione in merito all'approvazione del rendiconto e/o del preventivo. S'è vero, com'è vero, che la legge non specifica che l'amministratore debba presenziare per relazionare, è altrettanto vero che siccome il rendiconto, fino alla sua approvazione è atto proprio dell'amministratore, la sua presenza in riunione per spiegarne il contenuto è più che doverosa.
Altro caso di presenza (questa volta richiesta dalla legge). Opere dei condomini su parti di proprietà o uso esclusivo ai sensi dell'art. 1122 c.c.: i condomini devono darne notizia all'amministratore, il quale è tenuto a riferirne all'assemblea.
Lo stesso dicasi per le opere urgenti straordinarie di cui all'art. 1135, secondo comma, c.c.: l'amministratore può ordinarle ma poi deve darne comunicazione ai condomini nella prima assemblea utile.
E' utile, infine, ricordare che, generalmente, in tutte le assemblee la presenza dell'amministratore è utile, al di là della sua obbligatorietà, perché l'esperienza e la professionalità del mandatario possono essere utili nella gestione della riunione, pur non avendo egli poteri formali e diretti in tal senso.
Eppure, abbiamo visto prima, esistono dei casi in cui la presenza dell'amministratore può essere di troppo; tuttavia per fare le cose in regola siccome se c'è un amministratore è a lui che spetta il compito di convocare l'assemblea, quanto meno la richiesta di convocazione ex art. 66 disp. att. c.c. dev'essere rivolta a lui.
Sarà in questa occasione che i condomini dovranno fare presente per iscritto all'amministratore che la sua presenza non è richiesta. E se l'amministratore si presentasse comunque alla riunione o la convocasse nel suo studio? Chiaramente questi sono mezzi utilizzati per imporre la propria presenza cercando di sfruttare a proprio favore il senso d'imbarazzo che si prova mettendo una persona alla porta anche quando lo si fa nel modo più garbato possibile e pur stando nella ragione.
E' evidente che in queste situazioni è necessario far valere la propria posizione senza perdere la calma; la legge qui non dice nulla in merito, non esistono divieti di partecipazione alla stregua dei succitati obblighi di presenza, quindi sta a chi agisce farlo nel modo più opportuno per raggiungere il proprio obiettivo.



www.condominioweb.com 

lunedì 8 settembre 2014

Carcere per l'amministratore che non riconsegna i documenti condominiali

La Cassazione non fa sconti: la mancata restituzione è appropriazione indebita aggravata. Un amministratore di condominio palermitano, condannato in primo grado ed in appello per essersi rifiutato di restituire i documenti contabili inerenti all'amministrazione di un condominio, si rivolgeva in Cassazione per ottenere l'assoluzione dai reati addebitatigli: il ricorso è stato però respinto e l'amministratore condannato anche alle spese processuali dalla Seconda Sezione Penale della Cassazione che, con la sentenza n. 31192 del 16/07/2014ha infatti confermato la sua responsabilità per entrambi i reati contestati, ossia appropriazione indebita aggravata (artt. 646 e 61 n. 7 cod. pen.) e mancata esecuzione di un provvedimento giurisdizionale (art. 388 co. 2 cod. pen.). Sì, proprio così: due reati.
Innanzitutto appropriazione indebita, poiché la mancata restituzione dei documenti relativi all'amministrazione di un condominio, come più volte ricordato dai Giudici di Legittimità (su tutte Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 29451 del 10/07/2013 e Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 40906 del 18/10/2012), integra appunto gli estremi di tale reato. Per di più nella forma aggravata di cui all'art. 61 cod. pen., perché commessa con “abuso di relazioni originate da prestazione d'opera” (Cass. Penale, Sez. VI, sent. n. 36022 del 05/10/2011)
Ma nel caso in questione al reato di cui all'art. 646 cod. pen. se ne aggiunge un altro: quello previsto e punito con la reclusione fino a 3 anni dall'art. 388 co. 2 cod. pen.
Il Giudice ordina la restituzione dei documenti: non obbedire è un reato. Ed invero, laddove alla mancata restituzione dei documenti segua (insieme o in alternativa ad una denuncia per appropriazione indebita) un ricorso al Giudice Civile in via d'urgenza per ottenere un provvedimento che imponga all'ex amministratore di riconsegnare i documenti in suo possesso, la disubbidienza a tale provvedimento costituirà un reato autonomo che si aggiungerà (anche in termine di pena…) a quello già commesso di appropriazione indebita.
La Cassazione, infatti, ribadendo un orientamento costante e risalente sino al 1987 (Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 2908 del 08/10/1987), ha ricordato come “rientrano tra i provvedimenti cautelari del giudice civile la cui dolosa inottemperanza dà luogo a responsabilità penale tutti i provvedimenti cautelari previsti nel libro IV del codice di procedura civile, e quindi non soltanto quelli tipici, ma anche quello atipico adottato ex art. 700 c.p.c. (Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 31192 del 16/07/2014).
Disobbedire ad un provvedimento giurisdizionale è un reato, quindi, ma solo quando la mancata esecuzione spontanea renda ineseguibile quel provvedimento come nel caso di specie, dal momento che l'obbligo di restituzione dei documenti non poteva essere diversamente eseguito, neppure coattivamente, senza la spontanea collaborazione dell'ex amministratore (Cass. Pen., SS.UU., sent. n. 36692 del 27/09/2007).
Il reato scatta quando l'ordinanza tuteli la proprietà, il possesso od il credito. Affinché la mancata esecuzione al provvedimento del Giudice Civile costituisca il reato di cui all'art. 388 co. 2 cod. pen. è infine necessario che il ricorso civile miri a tutelare la proprietà o il possesso o, ancora, il credito: i documenti, quindi, di cui si chiede la restituzione devono essere necessari alla tutela di uno di questi tre diritti.
Orbene, i documenti contabili sono indispensabili a tutelare la proprietà o il possesso di un condominio? La risposta della Cassazione è assolutamente affermativa, “… pacifico essendo che l'ordine (non osservato) di consegna della documentazione contabile inerente all'amministrazione di un condominio incide sulla proprietà condominiale, impedendone la corretta amministrazione” (Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 31192 del 16/07/2014).
È cioè impossibile amministrare correttamente un complesso condominiale (e quindi occuparsi della sua proprietà) senza i documenti contabili inerenti la sua precedente gestione per cui la mancata restituzione di tali documenti, nonostante sia stata disposta in via d'urgenza dal giudice cautelare, integra gli estremi del reato di cui all'art. 388 co. 2 cod. pen.
Non esistono scuse: il rifiuto è ingiustificabile. Ma ci sono dei motivi per i quali l'ex amministratore potrebbe a ragione rifiutare la restituzione dei documenti? Anche dopo l'ordine disposto dal Giudice?
No, no ne esistono: la mancata restituzione è, secondo i Giudici di Piazza Cavour, “sintomatica del fatto che egli abbia un preciso interesse a non consentire una ricostruzione della sua gestione patrimoniale”.
Inoltre tale interesse sottende al perseguimento di una “specifica utilità”, che è insita in tale comportamento omissivo e cui corrisponde il dolo specifico (“per procurare un ingiusto profitto”) richiesto dall'art. 646 cod. pen. affinché l'appropriazione di un bene integri gli estremi del reato.
Occorrerà quindi prestare molta attenzione ai provvedimenti dei giudici e rispettarli (come peraltro dovrebbe essere normale in un Paese civile), anche quando non si condividono e nonostante si ritenga di essere dalla parte del giusto, evitando ostruzionismi esasperati e barricate per motivi di principio o ripicca: le liti private sono una cosa, il rispetto della giustizia un'altra.




Fonte http://www.condominioweb.com/carcere-per-lamministratore-che-non-riconsegna-i-documenti.11254#ixzz38ssfzJq4 
www.condominioweb.com 

giovedì 4 settembre 2014

Registrazione del contratto preliminare di compravendita

E' necessario registrare un contratto preliminare di compravendita di un'unità immobiliare?
Prima di rispondere al quesito è utile ricordare che la normativa di riferimento è rappresentata dal d.p.r. n. 131 del 1986 contenente disposizioni concernenti l'imposta di registro.
Il medesimo decreto presidenziale distingue due ipotesi di registrazione:
a) quella in termine fisso;
b) quella in caso d'uso.
Registrazione in termine fisso significa obbligo di presentare il contratto presso l'ufficio dell'agenzia delle entrate territorialmente competente al fine di assolvere al pagamento della succitata imposta (oltre che dell'imposta di bollo variabile a seconda della tipologia e lunghezza dell'atto).
Alcuni atti, invece, necessitano di registrazione in caso d'uso; a mente dell'art. 6 d.p.r. n. 131/86 "si ha caso d'uso quando un atto si deposita, per essere acquisito agli atti, presso le cancellerie giudiziarie nell'esplicazione di attività amministrative o presso le amministrazioni dello Stato o degli enti pubblici territoriali e i rispettivi organi di controllo, salvo che il deposito avvenga ai fini dell'adempimento di un'obbligazione delle suddette amministrazioni, enti o organi ovvero sia obbligatorio per legge o regolamento". L'attività giurisdizionale non è da considerarsi attività amministrativa ai fini dell'applicazione della norma in esame.
Ai sensi articolo 10 Tariffa, Parte prima, allegata al d.p.r. n. 131/1986 i contratti preliminari di ogni specie sono soggetti a registrazione in termine fisso nella misura di ? 200,00.
È bene evidenziare che il d.p.r. n. 131/86 è spesso soggetto ad aggiornamenti per ciò che riguarda la misura dell'imposta; così ad esempio fino al 31 dicembre 2013 l'imposta nella misura fissa era pari ad ? 168,00.
In questo contesto, è utile domandarsi: la sottoscrizione di un contratto preliminare comporta il pagamento della sola imposta in misura fissa o si devono sborsare anche altre somme di denaro?
La risposta è negativa; in quello che demagogicamente (fino quanto poi non si sa) viene definito il paese delle tasse e dei balzelli d'ogni genere non c'è da meravigliarsi.
Cosa può influire sull'aumento del valore immobiliare nella compravendita?
Oltre all'imposta in misura fissa, infatti, la parte compratrice (e con essa verso l'agenzia delle entrate sono coobbligate in solido anche l'agenzia immobiliare e la parte venditrice) deve mettere in conto il pagamento delle seguenti somme:
a) se il contratto prevede la corresponsione di una somma a titolo di caparra confirmatoria, è necessario versare sulla stessa un'imposta pari allo 0,50% della somma corrisposta;
b) se il contratto prevede la corresponsione di una somma a titolo di acconto (indipendentemente dal fatto che sia versata al momento della stipula del preliminare o dopo la sua conclusione) il 3% della somma così corrisposta;
c) se sono previste entrambe le tipologie, si applicano entrambe le imposte.
In ogni caso, afferma la nota all'art. 10 Tariffa, Parte prima, allegata al d.p.r. n. 131/1986 l'imposta pagata è imputata all'imposta principale dovuta per la registrazione del contratto definitivo.
Come dire: pago prima e poi dopo verso solo il saldo (per la prima casa ad oggi pari al 2% del valore catastale dell'immobile se si acquista la prima abitazione).



www.condominioweb.com