giovedì 30 ottobre 2014

Il distacco dall'impianto di riscaldamento alla luce del nuovo art. 1118 c.c. Il Tribunale di Milano applica la riforma.

Una sentenza interessante affronta il problema delle spese di aggravio imputate a chi si è distaccato.
Il dato normativo. "Il condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini. In tal caso il rinunziante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma" (Articolo 1118 c.c. così sostituito dall'art. 3, comma 1, L. 11 dicembre 2012, n. 220, a decorrere dal 17 giugno 2013, ai sensi di quanto disposto dall'art. 32, comma 1, della medesima legge n. 220/2012).
Il fatto. Con atto di citazione notificato il 10/6/2010 il Condominio via Tizio di Milano conveniva in giudizio il - vicino - Condominio di Via Caio, onde ottenerne dal Tribunale la condanna al pagamento di "tutti i maggiori costi già sopportati (Euro 14.200,00) e che saranno in futuro sopportati a seguito del distacco dall'impianto comune di riscaldamento", avvenuto nel periodo dal 2006 al 2010 (legittimando l'azione in forza della vecchia disciplina di cui all'art. 1118, II comma c.c., a mente della quale: Il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione.).
Si costituiva il Condominio Via Caio, chiedendo preliminarmente il difetto di legittimazione passiva il rigetto delle domande avverse e svolgendo domanda riconvenzionale.
La Sentenza. Il Giudice Milanese, valutati gli atti, intanto, ha respinto l'eccezione preliminare sulla carenza di legittimazione del condominio convenuto. Ed invero: i due condomini risultano soggetti giuridici distinti, dotati ciascuno di un separato organo di amministrazione, con in comune la centrale termica. La sola comunione dell'impianto - asserisce il Tribunale - non è idonea a caratterizzare la fattispecie di supercondominio. L'accezione "comunione", pertanto, comporta che legittimati attivi e passivi siano solo i due comunisti, cioè ì due condomini! Proprietari dell'impianto.
Quanto al merito. I maggiori costi sopportati a causa del distacco unilaterale dall'impianto comune di riscaldamento da parte del condominio convenuto risultano provati a mezzo delle risultanze tecniche discendenti in sede di accertamento tecnico preventivo.
Nel procedimento cautelare, la CTU aveva avuto modo di verificare che a seguito del distacco si era registrato un effettivo incremento dei consumi di combustibile, a carico esclusivamente del Condominio Via Tizio (in quanto ormai unico fruitore del servizio di riscaldamento). Incremento stimato dal consulente in misura del 23 per cento, oltre ad un maggior costo per la conduzione e manutenzione ordinaria.
Conseguentemente - per come è stato segnatamente stabilito - permane l'onere del condominio convenuto, ormai distaccato, di contribuire alle spese di conservazione dell'impianto e a rimborsare i maggiori costi di esercizio, cosi come indicati dal CTU e pari ad Euro 3,505,00 per stagione termica dalla domanda del presente giudizio.
Conclusione. Il Tribunale meneghino, con la sentenza in commento, si è allineato ad un orientamento giurisprudenziale costante - che è stato poi quello che ha informato il tenore della novella apportata all'art. 1118 cod. civ- per cui anche se è da ritenersi astrattamente legittima la rinuncia unilaterale al riscaldamento ed il distacco dall'impianto centralizzato da parte di un Condominio (e/o condòmino che sia), non viene meno l'onere in capo a questi di partecipare alle spese di gestione dell'impianto, oltre che a rimborsare i maggiori costi discendenti dallo squilibrio termico generato(cfr, ex multis, Cass. 2004/5974; Cass. 2001/6923).



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martedì 28 ottobre 2014

In vigore il nuovo DM 139/2014 che disciplina l’incompatibilità e i conflitti d’interesse dei mediatori (www.mondoadr.it)

Riportiamo l'articolo dal sito www.mondoadr.it relativo alla modifica del DM 180/2010 in materia di mediazione  civile, avvenuto con l'entrata in vigore del D.M. 139/2014:

Il 23 settembre scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto ministeriale 4 agosto 2014, n. 139, recante modifiche al D.M.180/2010. Diverse sono le modifiche apportate al D.M. 180/2010. Di seguito elenchiamo le più rilevanti:
- All’articolo 14 – bis, sono state introdotte le incompatibilità ed i conflitti di interesse relativi al mediatore. In particolare, il mediatore non può essere parte ovvero rappresentare o in ogni modo assistere parti in procedure di mediazione dinanzi all’organismo presso cui e’ iscritto o relativamente al quale e’ socio o riveste una carica a qualsiasi titolo; il divieto si estende ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino la professione negli stessi locali.
- Sono state aumentate le indennità spettanti agli organismi relativamente alle spese di avviodovute da ciascuna parte “per lo svolgimento del primo incontro”, ovvero 80,00 per le controversie di valore superiore a 250.000 euro. Inoltre è stato espressamente previsto che in caso di mancato accordo le parti devono lo stesso corrispondere detti importi.
- I mediatori che alla data di entrata in vigore del decreto non abbiano completato l’aggiornamento professionale (tirocinio assistito) di cui all’art. 4, co. 3, lett. b), D.M. 180/2010, sono tenuti a provvedervi entro il termine di un anno decorrente, dal 23 settembre 2014.
- E’ stato previsto espressamente che il richiedente debba garantire un capitale minimo di 10.000 euro, in sostituzione di “quello la cui sottoscrizione è necessaria alla costituzione di una società a responsabilità  limitata”;
- Ciascun organismo iscritto ha l’obbligo di comunicare al Ministero, alla fine di ogni trimestre, i dati statistici inerenti all’attività di mediazione svolta.
- Inoltre all’art. 10 primo comma del decreto sono previste disposizioni sanzionatorio nell’ipotesi di inosservanza della disposizione precedente. Infatti, si dispone la sospensione, per un periodo di dodici mesi, dell’organismo che non abbia effettuato le comunicazioni statistiche e/o dal provvedimento di cancellazione dal registro ove l’organismo medesimo non trasmetta, entro i tre mesi successivi, i dati compreso lo “storico” dei dodici mesi precedenti;
- Gli organismi di mediazione che alla data dell’entrata in vigore del regolamento non siano in possesso di tutti i requisiti di cui all’art. 4, co. 2, lett. a), D.M. 180/2010, dovranno provvedere all’integrazione entro 120 gg. dall’entrata in vigore medesima, a pena di cancellazione. Ciò è espressamente previsto anche per gli enti di formazione, con riferimento, naturalmente, ai requisiti di cui all’art. 18, co. 2, lett. a), D.M. 180/2010.

lunedì 27 ottobre 2014

Rifare il tetto male può costare caro anche al direttore dei lavori…..

Rifare il tetto e scoprire che nonostante tutto alle prime forti piogge entra acqua in casa, con chi prendersela; logico pensare all'impresa esecutrice dei lavori, ma per il tetto rifatto malamente anche il direttore dei lavori può passare i suoi guai.
Secondo la Corte di Cassazione – che s'è pronunciata sull'argomento con la sentenza n. 20557 depositata in cancelleria il 30 settembre 2014 – in tema di contratto di appalto e nello specifico di rifacimento del tetto mal eseguito, il direttore dei lavori, a determinate condizioni, può essere considerato (cor)responsabile assieme all'impresa esecutrice delle opere.
La pronuncia s'inserisce nel solco del consolidato orientamento giurisprudenziale e ribadisce un concetto importante: il direttore dei lavori deve fare quanto è possibile per vigilare sulla corretta esecuzione dei lavori, ma non può essere considerato responsabile sempre e comunque, salvo il caso in cui vi siano elementi che dimostrino (detta in termini comuni) che sia stato “l'ombra dell'impresa durante tutta l'esecuzione delle opere”. 
Rifare il tetto
In questa locuzione ricomprendiamo una serie d'interventi manutentivi, tra i quali:
a) sostituzione dei coppi;
b) rifacimento dell'impermeabilizzazione;
c) bonifica di quella parte dell'edificio (Es. rimozione amianto).
Nel caso risolto dalla sentenza n. 20557 il condomino aveva fatto causa all'impresa esecutrice dei lavori, all'amministratore ed al direttore dei lavori perché a suo dire nel rifare il tetto non s'era operata una buona bonifica e ed impermeabilizzazione dello stesso.
Direttore dei lavori, autonomia dell'appaltatore e responsabilità per danni, questi i concetti cardine attorno ai quali ruota la sentenza n. 20557; prima di entrare nel merito della decisione degli ermellini è utile soffermarsi su questi concetti.
Direttore dei lavori
Il codice civile nelle norme dedicate all'appalto (art. 1655 e ss.) non fornisce una definizione di direttore dei lavori.
Secondo la dottrina, “il direttore dei lavori è un rappresentante del committente con riferimento alle manifestazioni di volontà contenute in ambito strettamente tecnico, con poteri d'ingerenza, pari a quelli del committente, finalizzati alla buona realizzazione dei lavori” (Caringella – De Marzo, Manuale di diritto civile, Giuffré 2007).
Tizio commissiona a Caio l'esecuzione di opere edili ma non ha le competenze tecniche per seguire i lavori, sicché nomina l'ing. Sempronio (ma il direttore dei lavori può essere anche un geometra o un architetto) per vigilare sull'operato della ditta appaltatrice.
Appaltatore
L'appaltatore è quella figura cui il committente demanda l'esecuzione di un'opera o la prestazione di un servizio.
Esso, dice la legge, assume l'incarico “con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio” (art. 1655 c.c.).
Ad esempio: preso l'impegno di rifare il tetto, l'appaltatore deve agire nei modi e nei tempi stabiliti e se non ci riesce se ne assume la piena responsabilità (così detta obbligazione di risultato).
Per proseguire nell'esempio, l'appaltatore potrebbe rifare il tetto in modo difforme alla regola dell'arte.
In questo contesto il direttore dei lavori, nominato dal committente, può essere considerato (co)responsabile con l'appaltatore se non ha vigilato adeguatamente sull'esecuzione dell'opera.
Tradotto in termini pratici: il direttore dei lavori può essere chiamato a rispondere del danno da cattiva impermeabilizzazione del tetto, se si dimostra che un suo intervento più diligente avrebbe consentito la corretta posa in opera del manto impermeabilizzante; chiaramente l'onere di dimostrare tale fatto spetta a chi agisce in giudizio per sentire dichiarata la responsabilità.
Fino a che punto si estende la responsabilità del direttore dei lavori? È questo, nella sostanza, l'oggetto della sentenza n. 20557.
Secondo la corte regolatrice “il direttore dei lavori, in sostanza, assume la specifica funzione di tutelare la posizione del committente nei confronti dell'appaltatore, vigilando che l'esecuzione dei lavori abbia luogo in conformità a quanto stabilito nel capitolato di appalto. Da questo, tuttavia, non deriva a suo carico né una responsabilità per cattiva esecuzione dei lavori imputabile alla libera iniziativa dell'appaltatore, né un obbligo continuo di vigilanza” anche in relazione a profili marginali riguardanti l'esecuzione dei lavori medesimi.
Come dire il direttore dei lavori dev'essere presente, ma non dev'esserlo fino al punto di diventare “l'angelo custode” della ditta.



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sabato 25 ottobre 2014

Chi paga le spese di pulizia e sostituzione della grondaia?

Per rispondere alla domanda posta nel titolo dell'articolo è, prima d'ogni cosa, utile ricordare che cos'è una grondaia.
Il vocabolario della lingua italiana, definisce la grondaia come il canale, in genere di lamiera metallica, che segue la linea di gronda della falda di un tetto, riceve le acque raccolte dalla falda stessa e le convoglia fino ai pluviali o alle bocche di scarico
(Fonte: dizionario enciclopedico Treccanihttp://www.treccani.it/vocabolario/grondaia/).
Essa, quindi, altro non è che un sistema di raccolta delle acque che si collega ad un pluviale – che generalmente scende verticalmente appoggiato o incassato nella facciata dell'edificio – che termina sua volta in una bocca di scarico.
La grondaia non è specificamente menzionata dall'art. 1117 c.c.; ciò, però, non vuol dire che essa non debba essere considerata bene di proprietà comune.
È utile ricordare, infatti, che dottrina e giurisprudenza sono concordi nello specificare che l'art. 1117 c.c. contiene un'elencazione meramente esemplificativa, e non tassativa, di parti dell'edificio, servizi ed impianti di proprietà comune (cfr. tra le tante Cass. 4 giugno 2014 n. 12572).
D'altra parte lo stesso art. 1117 n. 3 c.c. specifica che sono oggetto di proprietà comune, salvo diversa indicazione del titolo (leggasi atto d'acquisto e regolamento) “le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come gli ascensori […]”. L'uso dell'avverbio “come” lascia intendere l'elencazione esemplificativa.
In questo contesto, pertanto, a dirlo è sempre la Cassazione, per considerare condominiali beni non menzionati dall'articolo del codice civile di apertura di quelli dedicati al condominio deve sussistere un rapporto “strumentale e funzionale che collega i piani o le porzioni di piano di proprietà esclusiva agli impianti o ai servizi di uso comune, rendendo il godimento del bene comune strumentale al godimento del bene individuale e non suscettibile di autonoma utilità, come avviene invece nella comunione” (ex multis Cass. 2 marzo 2007, n. 4973).
In tale contesto fattuale non v'è dubbio che, in ragione della sua funzione – convogliare a terra le acque meteoriche cadute sul tetto – la grondaia debba essere considerata un manufatto di proprietà comune a tutti i condomini proprietari di unità immobiliari ubicate nell'edificio che essa serve.
Acclarata la sua natura condominiale, si pone, quindi, il problema della ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione.
Al riguardo è utile ricordare che ai sensi dell'art. 1123, primo comma, c.c. “le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione”.
Non paiono sorgere particolari problematiche sull'inquadramento di tali interventi e delle relative spese nell'ambito di quelle di conservazione del bene comune, quindi, salvo diverso accordo, le spese di pulizia, sostituzione e riparazione devono essere ripartite in base ai millesimi di proprietà.
Fin qui abbiamo ragionato dando per presupposto che il tetto fosse bene comune; e se, invece, la copertura dell'edificio è di proprietà esclusiva? La grondaia, in questi casi, dev'essere considerata un bene comune a se stante o una pertinenza del tetto e come tale soggetta allo stesso regime di ripartizione delle spese? Chi paga per la sostituzione delle tegole condominiali?
Ad avviso di chi scrive poiché, come recita l'art. 817, primo comma, c.c. “gli atti e i rapporti giuridici che hanno per oggetto la cosa principale comprendono anche le pertinenze, se non è diversamente disposto” vale la seconda ipotesi succitata.
Fonte: www.condominioweb.com

giovedì 23 ottobre 2014

Corso Base abilitante per Amministratore Condominiale e Corso per Aggiornamento annuale dell'Amministratore: Ecco i corsi della TregeoFormazione!!!!

Dopo l'entrata in vigore del Regolamento per la Formazione degli Amministratori Condominiali (D.M. n. 140/2014), la TregeoFormazione, grazie ai Responsabili Scientifici Dott. Comm. Simone Berti ed il Geom. Luca Bini, ed ai formatori Geom. Claudia Caravati, Geom. Simone Scartabelli, Avv. Massimo Liotta e Per. Ind. Carlo Monteggia, ha organizzato il corso di Formazione Base per Amministratore di Condominio. Abbiamo strutturato un corso che abbraccia le poliedricità necessarie per poter svolgere questa attività professionale, articolando le lezioni per una durata di 80 ore oltre l'esame finale (il d.m. 140/14 stabilisce un minimo di 72 ore senza prevedere la verifica finale), cercando di trattare compiutamente gli aspetti importanti per fornire all'amministratore condominiale le nozioni per soddisfare le esigenze dei propri clienti.
Il corso è rivolto ai professionisti ed ai soggetti che vogliono intraprendere lo svolgimento dell'attività di amministratore di condominio, ricordando che per conseguire tale titolo si deve essere in possesso almeno del diploma di scuola superiore di secondo grado.
Come da D.M. 140/2014 abbiamo programmato anche alcuni corsi per assolvere l'aggiornamento annuale obbligatorio di almeno 15 ore di chi già riveste il ruolo di amministratore di condominio.
Per qualsiasi informazione relativa all'organizzazione della proposta formativa della Tregeoformazione (corso base o corso di aggiornamento), potete contattarci all'indirizzo: tregeoformazione@gmail.com 


mercoledì 22 ottobre 2014

L'usucapione nella comproprietà (www.StudioCataldi.it)

L'usucapione da parte del comproprietario della quota spettante ad altri contitolari è comunemente ammessa dalla dottrina e dalla giurisprudenza in correzione del principio per il quale l'usucapione è l'acquisto, da parte di un terzo, della cosa altrui.
Nella pratica, peraltro, si cerca di stiracchiare questa possibilità teorica, per applicarla anche ad una inedita usucapione parziale.
Vediamo. Tizio e Caio sono comproprietari al 50% di un fondo. Tizio, per proprio comodo, decide per suo conto di occuparne il 60%, e lo delimita con recinzione. Caio, già anziano, lascia correre in attesa di sistemare la cosa in sede di divisione.
Eventi diversi (malattia di Caio, contenziosi vari, ecc.) trascinano la situazione oltre i canonici 20 anni.
A questo punto, Tizio chiede la divisione giudiziale pretendendo il riconoscimento per usucapione di quel 10% da lui (abusivamente) occupato in più.
Tralasciamo l'ipotesi che Caio possa dimostrare la sua tolleranza all'abuso di Tizio (escludendo così l'usucapione) e consideriamo il problema in astratto, sotto il profilo dei principi che reggono l'istituto.
Il primo aspetto da prendere in considerazione è la natura e la tipologia del possesso preteso da Caio ad usucapionem.
Nella proprietà indivisa, il possesso della cosa comune, fa capo egualmente a tutti i comproprietari e concerne ogni frazione della cosa stessa.
In effetti, questo compossesso è conseguenza e derivazione diretta della contitolarità del diritto di proprietà.
Ed infatti, del tutto correttamente, è comunemente riconosciuto che ogni contitolare possa reagire con azione possessoria ad eventuali atti lesivi commessi da terzi, quale che sia la porzione del bene interessata dalla aggressione del terzo.
E' ovvio, infatti che, prima della definizione formale sancita dall'atto di divisione, ogni contitolare è proprietario di ogni frazione del bene comune ed il possesso è riferito – per ognuno di essi - all'intero bene. Se l'estensione del diritto di ciascuno è da definire con l'atto di divisione, altrettanto avviene per il relativo possesso.
In queste condizioni, nessuna rilevanza, ai fini della modifica della estensione del diritto, può assumere l'estensione della detenzione verificatasi in concreto. Proprio perché tale diritto deve ancora essere sancito formalmente.
Il secondo aspetto attiene ad uno dei presupposti fondamentali dell'istituto: l'inerzia del comproprietario, il quale si disinteressa della cosa (tamquam non esset) e su di essa non esercita il diritto di cui è titolare.
Nel nostro caso Caio è presente ed ha un attivo rapporto di possesso con la cosa, occupandone quanta ne può. In altri termini, egli fa uso del suo diritto. Nella misura che – nella pratica – gli viene consentita.
Circostanza che non incide sulla estensione del suo diritto e, quindi, sul suo possesso giuridico.
A nulla rileva che – di fatto – egli goda di una quota del bene inferiore a quella che gli spetta. Siffatta difformità tra “quantità” materiale della occupazione e “quantità” del diritto è naturale esito dello stato di “sospensione” insito nella comproprietà indivisa.
D'altronde, nel momento in cui Tizio, impedisce con la recinzione a Caio il possesso di quel 10% in più, non può invocare l'inerzia di Caio stesso in ordine a quella specifica porzione del bene.
Inoltre, prima del momento nel quale avverrà la specificazione formale e definitiva del diritto di ogni contitolare, il possesso di ciascuno di essi, come si è già visto, è generico su tutto il bene e non può quindi assumere, nei fatti, le caratteristiche proprie del possesso ad usucapionem. Essendo intrinsecamente comune, non può dotarsi della tipica caratteristica della esclusività.
In presenza del possesso giuridico di Caio, Tizio non può possedere alcunchè in via esclusiva.
Occorre considerare che il possesso ad usucapionem è un possesso caratterizzato da assenza di titolo.
Ora, il possesso di Tizio nasce, e contemporaneamente trova la sua giustificazione, in un titolo ben individuato: quello di comproprietario.
In altri termini, nella comproprietà, il possesso del comproprietario, finché sono presenti anche gli altri contitolari, non può mai essere nomine proprio (come richiesto ai fini della usucapione), bensì soltanto nel nome della comproprietà, cioè quale contitolare. E, in tale veste, non trasmutabile, non può pretendere l'acquisizione di parti del bene indiviso.
Angelo Casella




(www.StudioCataldi.it) 

lunedì 20 ottobre 2014

Gravi difetti dell'immobile, non basta scaricare la colpa sul direttore dei lavori

Se in una consulenza tecnica d'ufficio è accertato che l'appaltatore è responsabile dei gravi difetti dell'immobile, questo, per andare esente da responsabilità, non può limitarsi a dire che ha eseguito le direttive impartitegli dal committente (o per conto di questi dal direttore dei lavori).
Come dire: lo “scaricabarilismo” in un'aula di giustizia lascia il tempo che trova se non è fondato su dati di fatto verificabili. A dirlo è stata la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 18515 del 2 settembre 2014.
Che cosa sono i gravi difetti?
Entro quanto tempo bisogna denunciarli?
Partiamo dalla nozione.
L'art. 1669 c.c., una norma che, pur posta nell'ambito di quelle dettate in materia d'appalto, ha natura extracontrattuale, disciplina la responsabilità dell'appaltatore verso il committente (o comunque del costruttore-venditore verso l'acquirente) del gravi difetti dell'immobile. La durata dalla garanzia è decennale.
Quanto alla nozione di gravi difetti, la giurisprudenza è concorde nell'affermare che “i gravi difetti dell'edificio idonei a configurare una responsabilita' del costruttore nei confronti del committente o dell'acquirente, ai sensi dell'art. 1669 c.c., sono configurabili, al di fuori dell'ipotesi di rovina o di evidente pericolo di rovina, nei vizi che, senza influire sulla stabilita' dell'opera, pregiudichino e menomino in modo grave il normale godimento e/o la funzionalita' e/o l'abitabilita' della medesima; - tra i gravi difetti di costruzione che danno luogo alla garanzia prevista dall'art. 1669 c.c., sono comprese le deficienze costruttive vere e proprie, quelle cioe' che si risolvono nella realizzazione dell'opera con materiali inidonei e/o non a regola d'arte […]”(App. Ancona 14 febbraio 2012 n. 116).
Sempre nella stessa pronuncia testé citata, ad esempio, s'è concluso che le infiltrazioni d'acqua “determinate da carenze di impermeabilizzazione o delle opere di drenaggio che incidano sulla funzionalita' dell'opera” costituiscono gravi difetti.
Quanto ai tempi, s'è già accennato, la garanzia ha durata decennale. Tuttavia il committente deve denunciare il difetto entro un anno dalla scoperta e deve iniziare l'azione legale entro un anno dalla denuncia.
La Cassazione, in più occasioni, ha spiegato che il momento della conoscenza del grave difetto, se la sua conoscibilità necessita di particolari competenze tecniche, decorre dalla data di effettuazione della perizia sull'immobile.
Denuncia dei gravi difetti e decadenza dall'azione legale, il conteggio dei termini
L'appaltatore, è qui entriamo nel merito della sentenza n. 18515 del 2 settembre 2014, è sempre responsabile, salvo il caso in cui dimostri d'aver agito come nudus minister, vale a dire come soggetto spogliato d'ogni potere decisionale è soggetto esclusivamente alle direttive del committente.
Senza questa prova, egli dovrà essere ritenuto responsabile dei gravi difetti derivanti dalle opere appaltate. Nel caso di specie, ha specificato la Cassazione, il grave difetto “era dovuto alla cattiva posa in opera dei materiali, senza nessuna preparazione del sottofondo” né risultava dagli atti di causa (ergo dalle prove fornite dalle parti ed in particolar modo dall'appaltatore) che il condominio o il suo amministratore avessero imposto alla ditta di agire in tal modo.


Fonte http://www.condominioweb.com/lappaltatore-esente-da-responsabilita.11370#ixzz3F79dMHdc 

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sabato 18 ottobre 2014

Il testamento olografo: requisiti e cause di invalidità

Il testamento olografo è la forma più semplice e diffusa per esprimere liberamente e spontaneamente le proprie volontà, senza la necessità di un particolare rigore formale, del ricorso ad un notaio o della presenza di testimoni.
Per queste ragioni, ai fini del rispetto del c.d. “principio di autodeterminazione” del de cuius, la legge impone alla disposizione testamentaria olografa il rispetto dei requisiti richiesti dall’art. 602 c.c. che, al primo comma, dispone che il testamento sia scritto per intero di mano del testatore, ivi comprese la data e la sottoscrizione.

I requisiti del testamento olografo

Tre sono i requisiti essenziali richiesti dalla disposizione codicistica per garantire la validità del testamento olografo: l’autografia, la data e la sottoscrizione.

L’autografia è la scrittura dell’atto in tutte le sue parti ad opera del testatore, senza l’ausilio di mezzi meccanici o di terzi.
È ormai pacifico in giurisprudenza che la guida (o l’aiuto) della mano del testatore da parte di un terzo soggetto escluda il requisito dell’autografia, indispensabile per la validità del testamento, non rilevando l’eventuale corrispondenza del contenuto della scheda testamentaria alle volontà del de cuius (Cass. n. 24882/2013).

È discusso, invece, se ritenere sussistente il requisito dell’autografia quando la guida della mano del de cuius da parte di un terzo sia necessaria a causa delle sue condizioni di salute o della carenza di istruzione (ad es. analfabeta), ma se in qualche caso il testamento è stato ritenuto valido (Cass. n. 32/1992), secondo l’indirizzo maggioritario, qualsiasi collaborazione alla materiale compilazione del documento (anche solo l’aver sorretto la penna o contribuito alla formulazione delle lettere) comporta la mancanza del requisito dell’autografia (Cass. n. 12458/2004; n. 7636/1991; n. 3163/1993).
La scrittura autografa può essere fatta con qualsiasi mezzo (penna, carbone, gesso, ecc.) e su qualunque materia (carta, stoffa, legno, pietra), purché idonea a riceverla (Cass. n. 1089/1959; n. 920/1963; n. 394/1965).
Il testamento olografo può anche: contenere segni geometrici (diagrammi, ecc.) ove indispensabili e inseriti in un contesto chiaro; essere redatto in dialetto o in una delle c.d. “lingue morte”, purchè conosciute dall’autore; assumere la forma di una lettera, laddove siano chiaramente espresse le ultime volontà del testatore.

La data, secondo il disposto dell’art. 602, 3° comma, c.c., “deve contenere l’indicazione del giorno, mese e anno.
La sua funzione è quella di indicare l’esatto momento cronologico in cui il testamento è stato redatto, indispensabile per stabilire quale sia il documento efficace in presenza di più atti complementari o per valutare, se al momento della stesura delle ultime volontà, il testatore fosse capace di intendere e di volere.
La norma codicistica non richiede l’indicazione del luogo, né dell’ora, sebbene la stessa possa essere determinante in presenza di più testamenti recanti la stessa data: in tal caso, sarà l’ultimo in ordine cronologico a prevalere sugli altri.
La data del testamento olografo può essere apposta in ogni parte della scheda, poiché la legge non prescrive che essa debba precedere o seguire le disposizioni di ultima volontà (Cass. n. 18644/2014).
L'art. 602, comma 3, c.c. stabilisce che “la prova della non verità della data è ammessa soltanto quando si tratta di giudicare della capacità del testatore, della priorità di data tra più testamenti o di altra questione da decidersi in base al tempo del testamento”.

La sottoscrizione è il terzo requisito di forma richiesto per il testamento olografo. Essa indica il soggetto che ha scritto il testamento e deve essere apposta di proprio pugno dal testatore alla fine delle disposizioni come prescrive l’art. 602 c.c.
È da ritenersi rispettato il dettato normativo, anche quando “la sottoscrizione delle disposizioni di ultima volontà è stata apposta a margine o in altra parte della scheda, anziché in calce alla medesima, a causa della mancanza di spazio su cui apporla” (Cass. n. 14119/2014).
La sottoscrizione non deve essere necessariamente composta da nome e cognome, l’essenziale è che individui con certezza la persona del testatore, potendo quindi essere sostituita anche da un soprannome, da uno pseudonimo, o finanche da una sigla se questa è riconducibile con certezza al suo autore.
Il requisito della sottoscrizione, infatti, “previsto dall’art. 602 cod. civ. distintamente dall’autografia delle disposizioni in esso contenute, ha la finalità di soddisfare l’imprescindibile esigenza di avere l’assoluta certezza non solo della loro riferibilità al testatore, già assicurata dall’olografia, ma anche dell’inequivocabile paternità e responsabilità del medesimo che, dopo avere redatto il testamento – anche in tempi diversi – abbia disposto del suo patrimonio senza alcun ripensamento” (Cass. n. 22420/2013).

Invalidità, revoca e modifica del testamento olografo

La legge prevede due tipi di invalidità per il testamento olografo: la nullità e l’annullabilità.
Ex art. 606 c.c., il testamento è nullo quando manca l’autografia o la sottoscrizione, ed è annullabile per difetto di forma (ad esempio, se la data è incompleta) su istanza di chiunque vi abbia interesse, entro il termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.
In merito all’invalidità del testamento per difetto della manifestazione di volontà del testatore, la giurisprudenza ha affermato che “ "ai fini della configurabilità di una scrittura privata come testamento olografo non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma individuati dall’art. 602 c.c., occorrendo, altresì, l’accertamento dell’oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso: tale accertamento, che costituisce un prius logico rispetto alla stessa interpretazione della volontà testamentaria, è rimesso al giudice del merito e, se congruamente e logicamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità" (Cass. n. 8490/2012).
Per essere valida, cioè, la volontà del testatore “deve essersi compiutamente ed incondizionatamente formata e manifestata e diretta a disporre attualmente, in tutto o in parte, dei propri beni per il tempo successivo alla morte” (Cass. n. 26931/2013).
La nullità di una disposizione testamentaria, secondo l’art. 590 c.c., in ogni caso non può essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità, abbia confermato la disposizione o abbia dato ad essa volontaria esecuzione dopo la morte del testatore.
Fattispecie diversa dal testamento nullo o annullabile è, infine, il testamento inesistente che si ha quando, pur esistendo materialmente l’atto è affetto da un vizio di tale gravità da impedire di essere identificato come tale (ad es. il testamento falso) (Cass. n. 7475/2005).
Il testamento, infine, essendo un atto mortis causa, giacché la sua funzione è quella di regolamentare i rapporti giuridici facenti capo al testatore nel tempo in cui avrà cessato di vivere, è revocabile o modificabile, fino all’ultimo istante di vita: qualsiasi clausola o condizione contraria alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie, ex art. 679 c.c., non ha effetto.



(www.StudioCataldi.it) 

giovedì 16 ottobre 2014

Corso Tregeoformazione al Collegio Geometri di Firenze - 7 e 14 Ottobre 2014

Completato il corso presso il Collegio Geometri di Firenze!!!
A Scandicci, nella sala convegni della società Olmo Casa, si é svolto il "Il Nuovo Condominio, il ruolo dell'Amministratore e la Mediazione nei conflitti".
45 partecipanti, la presenza costante dei rappresentanti del Collegio, la tipica verve toscana ad animare le due giornate ci hanno impegnato e divertito.
Il nostro più sentito ringraziamento al Collegio Geometri di Firenze che ci ha permesso di condividere con i colleghi la nostra passione e le nostre conoscenze, al Consiglio Direttivo, al Presidente Stefano Nicolodi e sopratutto a Matteo Parisi che ci ha ben supportato nell'organizzazione e nei due giorni di corso.
Ma il grazie più grande va ai 45 colleghi che ci hanno regalato la possibilità di arricchirci di una nuova esperienza che, come le altre sin qui vissute, rimarrà nel nostro bagaglio. di emozioni!!!
Grazieee

Compensi professionali per attività di progettazione – Convenzione che subordina il pagamento del compenso all’ottenimento della concessione edilizia (www.diritto.it)

Corte di Cassazione Civile n. 016501, sez. Terza del 18/7/2014

Compensi professionali per attività di progettazione – Convenzione che subordina il pagamento del compenso all’ottenimento della concessione edilizia – Condizione potestativa mista – Ritiro della domanda di concessione edilizia da parte del committente in pendenza della condizione – Recesso anticipato del committente dall’incarico professionale ex art. 2237 c.c. – Fictio iuris di avveramento della condizione – Artt. 1358 e 1359 c.c. – Diritto al compenso – Sussistenza.

Nell’ipotesi di convenzione che subordina il pagamento del compenso in favore del professionista per prestazioni di progettazione al rilascio della concessione edilizia deve ritenersi operante la fictio iuris di avveramento della condizione, ex art. 1359 c.c., qualora il committente provveda autonomamente al ritiro della domanda di concessione edilizia, dovendosi valutare l’esistenza di un interesse contrario all’avveramento della condizione (rilascio della concessione edilizia) in capo al committente non in termini astratti o facendo riferimento al solo momento della conclusione del contratto, ma valorizzando il dato dell’effettivo interesse delle parti all’epoca in cui si è verificato il fatto o comportamento che ha reso impossibile l’avveramento della condizione.

L'art. 1359 cod. civ., in forza del quale la condizione si ha per avverata se è mancata per causaimputabile alla parte controinteressata al suo avveramento, non si riferisce solo a coloro che, percontratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti dichi in concreto ha dimostrato, con una successiva condotta, di non avere più interesse al verificarsidella condizione, ponendo in essere atti tali da contribuire a far acquistare al contratto un elementomodificativo dell''iter' attuativo della sua efficacia. Detta norma è applicabile anche alla c.d.condizione potestativa mista, il cui avveramento dipende in parte dal caso e in parte dalla volontà diuno dei contraenti.
L'art. 1359 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui l'interesse di una delle parti -originariamente convergente con quello della controparte - si modifichi in corso di rapporto fino arisultare contrario all'avveramento della condizione, avuto anche riguardo alla previsione di cuiall’art. 1358 c.c., che impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fededurante lo stato di pendenza della condizione, e che va osservato anche con riguardo all’attività diattuazione dell’elemento potestativo della condizione mista.
Non può negarsi che il ritiro di un'istanza di concessione edilizia sia chiaramente sintomatico delvenir meno dell'interesse ad ottenerla da parte di chi tale istanza aveva  presentato e deve ritenersi pertanto che integri un comportamento idoneo configurare un'ipotesi di "interesse contrario" comportante l'operatività della previsione dell'art.1359 c.c..
L'art. 2237, 1 co. c.c. ('il cliente può recedere dalcontratto, rimborsando al prestatore d'opera le spesesostenute e pagando il compenso per l'opera svolta'),bilanciando i contrapposti interessi tra le parti,riconosce al cliente un illimitato diritto di recesso,ma — al tempo stesso - garantisce al professionista ilrimborso delle spese e il pagamento del compensoper le attività svolte fino al momento della revocadell'incarico.
A fronte della revoca dell'incarico professionale (orecesso) da parte del committente, il professionistanon ha di norma interesse a richiedere la risoluzione del contratto (già verificatasi per effetto delrecesso) ed il conseguente risarcimento dei danni, ma può senz'altro agire per conseguire il pagamento delle spettanze maturate per l'attività svolta.

Fonte:  www.diritto.it