sabato 31 gennaio 2015

Se muore l’amministratore: quali conseguenze per il condominio - Fonte http://www.laleggepertutti.it/

La morte di un amministratore di condominio è un evento che può destabilizzare la vita del fabbricato, soprattutto quando la gestione è stata appannaggio della stessa persona per molti anni.
Le norme del codice civile infatti non prendono in espressa considerazione l’ipotesi del decesso dell’amministratore, disciplinando esclusivamente la durata dell’incarico, il suo rinnovo, l’eventuale revoca nonché l’ipotesi delle dimissioni.
Pertanto, per trovare la risposta al caso in oggetto, occorre ricostruire giuridicamente il rapporto che lega l’amministratore quale rappresentante legale del fabbricato all’insieme dei proprietari delle singole unità immobiliari. Tanto i precedenti insegnamenti giurisprudenziali quanto, oggi, la legge stessa fanno richiamo alla disciplina sul contratto di mandato per disciplinare tutti gli eventuali aspetti non specificamente regolati nel rapporto condomini – amministratore. Tale è quel contratto in cui una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra.
Quando il mandatario muore la legge prevede che il relativo contratto si estingua, fatto salvo soltanto il mandato conferito per il compimento di atti relativi all’esercizio di un’impresa.
Poiché l’amministrazione di un condominio non è certo attività d’impresa, bensì professionale, alla morte dell’amministratore di condominio deve ritenersi che cessi l’incarico a suo tempo conferitogli dall’assemblea, a prescindere perciò dal numero di anni in cui questi è rimasto in carica e dai rapporti pendenti con eventuali terzi quali fornitori, artigiani, utenze ecc.
Dal momento che, tuttavia, il rapporto di mandato che lega l’amministratore al condominio implica un’attività di gestione per definizione dinamica e dunque comporta che vi siano dei rapporti ancora in corso al momento della cessazione dell’incarico, la legge prevede che gli eredi del mandatario defunto, se hanno conoscenza del mandato, debbano avvertire prontamente il mandante e prendere, nel mentre e nell’interesse di questo, i provvedimenti richiesti dalle circostanze.
Dunque, essendo venuto a terminare l’incarico di amministrazione del fabbricato a causa della morte del suo rappresentante legale ed essendo lo stabile privo di un amministratore, ciascun condomino può prendere l’iniziativa e convocare un’assemblea per la nomina di un nuovo amministratore, il quale, preso possesso dell’incarico potrà richiedere agli eredi del defunto o comunque a chi gestisce lo studio di consegnare la documentazione inerente il fabbricato.
In attesa della nuova nomina, che cosa devono fare gli eredi dell’amministratore defunto? La legge non consente loro di proseguire nell’attività di gestione amministrativa del condominio per conto del defunto e quindi, ad esempio, non potranno accettare o eseguire pagamenti per conto del condominio né dare esecuzione a delibere prese mentre il vecchio amministratore era ancora in vita.

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venerdì 30 gennaio 2015

Nuovo ravvedimento operoso: più chance anche per il catasto (fonte: www.fiscooggi.it)

Con la radicale modifica dell'articolo 13 del Dlgs 472/1997 per effetto delle norme contenute nell'articolo 1, comma 637, della legge 190/2014 (Stabilità 2015), il legislatore - puntando su un nuovo approccio finalizzato a massimizzare la cooperazione tra Amministrazione finanziaria e contribuenti - attua una revisione sostanziale della disciplina del ravvedimento operoso.
Le novità, in vigore dall'1 gennaio 2015, ampliano i vincoli temporali entro cui è possibile avvalersi dell'istituto, prevedendo come unica causa ostativa all'utilizzo dello stesso solo l'avvenuta notifica dell'atto di constatazione dell'irregolarità tributaria e di irrogazione delle sanzioni.

In conseguenza della procedura di incorporazione avvenuta nel 2012, le competenze assegnate all'Agenzia del Territorio sono state acquisite dall'Agenzia delle Entrate, comprese le attribuzioni per la riscossione dei tributi in ordine ai servizi resi per la formazione, la tenuta e l'aggiornamento del catasto e il relativo controllo con le connesse funzioni concernenti l'irrogazione delle sanzioni; ragion per cui, le innovazioni apportate all'articolo 13 del Dlgs 472/1997 trovano piena applicazione anche in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme catastali.

L'istituto del ravvedimento operoso, strumento che consente di regolarizzare spontaneamente le violazioni e le omissioni commesse beneficiando di una sanzione ridotta rispetto a quella ordinaria, rappresenta un elemento pregnante del sistema sanzionatorio catastale.
L'ambito di applicabilità dell'istituto deflattivo in esame è definito dall'articolo 12, comma 1, del Dpr 650/1972, secondo il quale le inadempienze degli obblighi di legge si sostanziano in due distinte condotte: le "irregolarità" riscontrate nella documentazione presentata e le "omissioni o inosservanze dei termini temporali per l'assolvimento" degli obblighi posti a carico degli intestatari di beni immobili.

Le prime sono sanabili su invito dell'ufficio, le seconde ricorrendo all'istituto del ravvedimento operoso. L'estensione della portata applicativa della disposizione premiale in materia catastale trova, invece, fondamento nell'articolo 26 del Dlgs 472/1997, il quale dispone l'adozione di un'unica tipologia di sanzione (in luogo della pena pecuniaria e della sovrattassa) avente natura amministrativa, consistente nel pagamento di una somma di denaro da assoggettare a un procedimento di irrogazione omogeneo disciplinato dallo stesso decreto legislativo.

Le istruzione operative relative alle tipologie di ravvedimento attuabili e ai termini per il perfezionamento sono racchiuse nella circolare 2/2002 dell'ex Agenzia del Territorio. Il documento di prassi, in linea con i contenuti della circolare 198/E del 1998, precisa che le violazioni commesse in relazione a formalità catastali sono ravvedibili solo ai sensi delle lettere b) e c) dell'articolo 13, comma 1, del Dlgs 472/1997 (testo in vigore dall'1 febbraio 2011 al 31 dicembre 2014) e non della lettera a), trattandosi di mancata esecuzione di singoli adempimenti alla data di scadenza prefissata dalla norma e non di omessi versamenti.

La riforma strutturale del ravvedimento operoso, generata dalle disposizioni di recente approvazione, porta a estendere l'ambito applicativo dell'istituto così come delineato dal previgente disposto normativo.
La pregressa formulazione dell'articolo 13 del Dlgs 472/1997 consentiva di rimediare alla violazione commessa in un arco temporale molto limitato e solo se la stessa non fosse stata già contestata e comunque non fossero già iniziati accessi, verifiche, ispezioni o altre attività amministrative di accertamento. Le modalità previste nell'attuale sistemazione organica del testo normativo, oltre a diminuire le cause di preclusione, rimodulano, in ragione del tempo trascorso dall'inosservanza dell'obbligo di legge al comportamento resipiscente, le riduzioni automatiche sulle misure minime delle sanzioni applicabili.

Regolarizzazione
del mancato adempimento
Norma
(art. 13, co. 1, Dlgs 472/97)
Nuovo ravvedimento
Riduzione sanzione
(dall'1/1/2015)
Vecchio ravvedimento
Riduzione sanzione
(fino al 31/12/2014)
Entro 90 giorni dall'omissione o dall'errorelettera a-bis)sanzione ridotta a 1/9 del minimo edittale
__
Entro 90 giorni dalla data di scadenza per la presentazione della dichiarazione 1)lettera c)sanzione ridotta a 1/10 del minimo edittale
Entro 1 anno dall'omissione
o dall'errore 2)
lettera b)sanzione ridotta a 1/8 del minimo edittale
Entro 2 anni dall'omissione
o dall'errore
lettera b-bis)sanzione ridotta a 1/7 del minimo edittale
__
Oltre 2 anni dall'omissione
o dall'errore
lettera b-ter)sanzione ridotta a 1/6 del minimo edittale
__


Il pagamento del tributo e della sanzione in misura ridotta, a cui vanno aggiunti gli interessi calcolati al tasso legale annuo con maturazione giorno per giorno, può essere effettuato direttamente presso la cassa dell'ufficio provinciale - territorio dell'Agenzia dell'Entrate, ovvero, qualora si preferisca l'utilizzo del canale telematico, tramite l'apposita funzionalità per la gestione del ravvedimento operoso, predisposta all'interno degli specifici pacchetti applicativi realizzati dall'Amministrazione finanziaria per l'area catasto e cartografia. È possibile, inoltre, eseguire il versamento anche sui c/c intestati ai singoli uffici.Non è prevista alcuna forma di pagamento rateale delle somme dovute per effetto del ravvedimento.


1) Il termine "dichiarazione" va inteso in senso lato e, quindi, comprensivo anche della nozione di "atto" o "denuncia" (circolare 192/E del 1998).
2) La lettera b) dell'articolo 13 del Dlgs 472/1997, per i tributi in ordine ai quali non è prevista dichiarazione periodica (quale, per esempio, gli atti di aggiornamento dei dati catastali), contempla la possibilità di regolarizzare spontaneamente gli errori od omissioni, anche se incidenti sulla determinazione e sul pagamento del tributo, entro un anno dalla commissione della violazione (circolare 192/E del 1998).


(Fonte: http://www.fiscooggi.it/normativa-e-prassi/articolo/nuovo-ravvedimento-operosopiu-chance-anche-catasto)

mercoledì 28 gennaio 2015

Classamento degli immobili: Cassazione conferma obbligo di motivazione (fonte: altalex.com)

“E’ illegittimo il riclassamento catastale che non indica gli elementi necessari per giustificare le ragioni della variazione”.
E’ quanto ha affermato la Suprema Corte, con la sentenza 31 ottobre 2014, n. 23247 la quale esprime un principio di diritto che in linea con quanto stabilito secondo consolidato orientamento (Cass. n. 9626 del 2012; ord. 19814 del 2012; n. 21532 del 2013; n. 17335 del 2014; n. 16887 del 2014), ha ritenuto nella fattispecie che gli atti catastali, trattandosi di provvedimenti amministrativi non possono più riportare ai fini del classamento i soli dati catastali degli immobili.
Tale principio, fissato in considerazione delle incertezze proprie del sistema catastale italiano che non detta una specifica definizione normativa delle categorie e classi catastali, è stato affermato proprio per consentire al contribuente di individuare agevolmente il presupposto dell'operata riclassificazione ed approntare le consequenziali difese, e per delimitare, in riferimento a dette ragioni, l'oggetto dell'eventuale successivo contenzioso, essendo precluso all'Ufficio di addurre, in giudizio, cause diverse rispetto a quelle enunciate.
In particolare, la controversia originava da una negata attribuzione della specifica categoria (A 9: castelli, palazzi con eminenti pregi artistici o storici) da parte dell’Agenzia delle Entrate a nove unità immobiliari delle 38 di cui era composto un castello. L’Ufficio motivava l’atto impositivo dichiarando semplicemente che il Comune avesse richiesto la revisione del classamento ai sensi dell'art. 1 del comma 335, L. 311/2004, e si giustificava sulla base di una generica “evoluzione del mercato immobiliare”.
Orbene, secondo gli Ermellini (sentenza 13 giugno 2012, n. 9629; sentenza n. 4507 del 25 febbraio 2009) in relazione al contenuto minimo della motivazione dell'atto di riclassamento di un immobile già munito di rendita catastale:

a) se il nuovo classamento è stato adottato, ai sensi del comma 335 dellaLegge n. 311 del 2004, articolo 1, nell'ambito di una revisione dei parametri catastali della microzona in cui l'immobile è situato, giustificata dal significativo scostamento del rapporto tra valore di mercato e valore catastale in tale microzona rispetto all'analogo rapporto nell'insieme delle microzone comunali, l'atto deve indicare la specifica menzione dei suddetti rapporti e del relativo scostamento;
b) se la variazione è stata effettuata ai sensi della Legge n. 311 del 2004, articolo 1, comma 336, in ragione di trasformazioni edilizie subite dall'unita immobiliare, l'atto deve recare l'analitica indicazione di tali trasformazioni;
c) nell'ipotesi di riclassificazione avvenuta ai sensi della Legge n. 662 del 1996, art. 3, comma 58, l'atto deve precisare a quale presupposto - il non aggiornamento del classamento ovvero la palese incongruità rispetto a fabbricati similari- la modifica debba essere associata, specificamente individuando, nella seconda ipotesi, i fabbricati, il loro classamento e le caratteristiche analoghe che li renderebbero similari all'unità immobiliare oggetto di riclassamento.
Giova ricordare, a tal proposito, che l'art. 1 del comma 335, L. 311/2004 prevede l'attivazione, su richiesta dei comuni interessati, di processi di revisione parziale del classamento delle unità immobiliari urbane ubicate in microzone comunali, definite ai sensi del D.P.R. n. 138/1998, che presentano carattere di anomalia in termini di rapporti tra il valore medio immobiliare, rilevato dal mercato, e il valore medio catastale, determinato con i criteri utilizzati ai fini dell'Ici, rispetto l'analogo rapporto medio calcolato su tutte le microzone comunali.
La revisione dei classamenti delle unità immobiliari è parziale perché interessa soltanto gli edifici presenti in una o più delle microzone in cui è stato suddiviso il territorio comunale, a condizione che il rapporto tra il valore medio catastale si discosti per più del 35% dall'analogo rapporto relativo all'insieme delle microzone comunali (il Legislatore ha invece utilizzato il termine "significativamente").
Sulla stessa linea interpretativa di tali principi, in definitiva i Supremi giudici chiariscono, nella sentenza in commento, che l'atto con cui l'Agenzia del territorio attribuisce d'ufficio un nuovo classamento ad un'unità immobiliare a destinazione ordinaria, deve chiaramente specificare a cosa sia dovuto il mutamento.
Va detto che nell’ultimo periodo si sono intensificati gli accertamenti catastali degli immobili, volti, nella maggior parte dei casi, all’innalzamento della rendita. Ed infatti, l'aggiornamento del catasto, strumentale all'adeguamento delle entrate fiscali collegate al patrimonio immobiliare, ha comportato l'instaurazione di numerosi procedimenti di revisione del classamento, che hanno condotto all'attribuzione alle unità immobiliari interessate di una nuova classificazione e/o di una nuova rendita catastale.
Ed è quel che è accaduto ad esempio nel comune di Lecce laddove le sentenze dei giudici di merito salentini su un contenzioso ancora in piedi su circa 6.000 ricorsi presentati, hanno dato ragione ai contribuenti sulla illegittimità dell’aumento delle rendite catastali disposto dall’Agenzia del Territorio (ora confluita nelle Entrate) per il 95% del patrimonio immobiliare del territorio, facendo andare al tappeto il riclassamento catastale per difetto di motivazione. (tra le tante Ctp di Lecce, sez. IV, sentenze 29 luglio 2013 n. 836, 5 luglio 2013 n. 607, 21 giugno 2013 n. 505 e ordinanza 19 aprile 2013 n. 114). L’Agenzia del Territorio, infatti, ha notificato alla maggioranza della popolazione gli avvisi di accertamento con i quali ha proceduto alla rideterminazione del classamento e alla conseguente attribuzione della nuova rendita catastale delle unità immobiliari, basando la motivazione su presunti interventi di riqualificazione della viabilità interna e di arredo urbano nel centro storico.
Orbene, la giurisprudenza di legittimità intervenuta sino ad oggi ha permesso di delineare un quadro abbastanza preciso che consente di comprendere i requisiti minimi che possano soddisfare l’obbligo motivazionale.
Secondo il più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, la motivazione dell'atto di revisione del classamento catastale non può limitarsi a contenere l'indicazione della consistenza, della categoria e della classe attribuita dall'agenzia del Territorio (ora accorpata in quella delle Entrate) ma deve specificare, a pena di nullità, sia le ragioni giuridiche sia i presupposti di fatto della modifica. L'Amministrazione è tenuta, quindi, a precisare dettagliatamente se il mutamento è giustificato dal mancato aggiornamento catastale o dall'incongruenza del valore rispetto ai fabbricati similari (individuando detti edifici, il loro classamento e le caratteristiche che li rendono analoghi a quello in oggetto), o dall'esecuzione di lavori particolari nell'immobile, da menzionare analiticamente, o, infine, da una risistemazione dei parametri della microzona di collocazione, da esplicitare in modo chiaro con l'indicazione del rapporto tra valore di mercato e valore catastale dell'area e delle altre comunali, così che emerga il significativo divario (tra le tante, Cass. n. 21736-55 del 15 ottobre 2014; Cass. n. 21443 del 10 ottobre 2014, Cass. n. 17681 del 6 agosto 2014, Cass. n. 17346 del 30 luglio 2014; 17320/2014, 17322/2014 e 9629/2012; e quelle della sezione 6-5, 16643/2013, 10489/2013, 5784/2013; 19820/2012; 13174/2012).
(Altalex, 2 dicembre 2014. Nota di Maurizio Villani e Iolanda Pansardi)

venerdì 23 gennaio 2015

Condomino: anche la delibera a maggioranza può essere annullata se “dittatoriale” (fonte www.laleggepertutti.it)

Quando la volontà della maggioranza è dannosa per la minoranza si configura un eccesso di potere e, pertanto, si può chiedere l’annullamento della votazione dell’assemblea. 
Finalmente uno stop ai soprusi condominiali: anche se la delibera dell’assemblea è stata approvata a maggioranza (e, quindi, formalmente, è in regola con la legge) può essere comunque annullata dal giudice se risulta essere dannosa per la minoranza, tanto da rasentare l’eccesso di potere. A dirlo è una interessantissima sentenza del Tribunale di Lecco [1]. Si tratta di un principio nuovo, non previsto in nessuna norma, perché il concetto di “eccesso di potere” è previsto solo nell’ambito del diritto amministrativo. La pronuncia in commento è volta a evitare quelle “aggregazioni” coese di condomini che, grazie al fatto di avere la maggioranza dei millesimi – spesso con l’appoggio del costruttore – impongono, in modo del tutto dittatoriale, la loro “ingiusta” volontà alla minoranza. In buona sostanza, stando a questa sentenza, il giudice non è tenuto solo a controllare che la votazione dell’assemblea sia avvenuta nel rispetto di tutte le regole formali (convocazione, quorum costitutivo e deliberativo, successiva comunicazione del verbale di assemblea), ma può entrare anche nel merito della decisione, valutando se essa possa risolversi in un ingiusto svantaggio nei confronti di chi ha votato “contro”. Quando la delibera dell’assemblea è annullabile In genere, qualora venga impugnata una delibera di condominio, il giudice verifica solo la legittimità della delibera stessa qualora sia presente uno dei seguenti vizi: – violazione di una legge – violazione del regolamento di condominio. Il giudice, dunque, non può valutare le ragioni di opportunità e convenziona (ossia il merito) che hanno indotto l’assemblea ad assumere quella decisione, salvo in un solo caso che è proprio quando l’assemblea abbia deliberato con eccesso di potere [2]. Dunque, la delibera presa solo nell’interesse di quei pochi condomini che in assemblea hanno la maggioranza di millesimi, può essere annullata se assunta in eccesso di potere. Perché si può annullare la votazione a maggioranza L’interesse personale dei condomini che in assemblea hanno la maggioranza dei millesimi non può mai andare in contrasto con l’interesse collettivo del condominio che, ricordiamo, pur non essendo un soggetto giuridico identificato, è pur sempre un ente di gestione e, come tale, portatore di un proprio interesse (che è quello del condominio in sé considerato). L’eccesso di potere in ambito condominiale La sentenza valorizza il concetto di “eccesso di potere” per adattarlo in ambito condominiale: esso scatta tutte le volte in cui l’interesse collettivo viene leso unitamente all’interesse del singolo. Esso comporta sempre l’annullamento della delibera. - See more at: http://www.laleggepertutti.it/69877_condomino-anche-la-delibera-a-maggioranza-puo-essere-annullata-se-dittatoriale#sthash.v6gCU8I2.dpuf

mercoledì 21 gennaio 2015

Verbale di assemblea e ruolo dell'amministratore di condominio Fonte: www.condominioweb.com


Alzi la mano chi scelto come segretario ha glissato l'invito dicendo che non ha una bella grafia o indicato dagli altri come presidente ha preferito defilarsi. Non è raro che in molti condominii i ruoli di presidente e segretario dell'assemblea assumano importanza marginale nello svolgimento dell'assemblea e che sia, invece, l'amministratore a governarla. 
Che cosa dicono le norme in merito? Quelle condominiali ben poco: la recente riforma ha espunto l'unico riferimento al presidente dell'assemblea, quello contenuto nell'art. 67 disp. att. c.c.
Ciò non toglie che non si possa fare riferimento a qualche altra norma. Per analogia, come spesso accade per la materia condominiale, guardiamo alle norme dettate in materia societaria e più nello specifico all'art. 2371 c.c., rubricato Presidenza dell'assemblea, che recita:
L'assemblea è presieduta dalla persona indicata nello statuto o, in mancanza, da quella eletta con il voto della maggioranza dei presenti. Il presidente è assistito da un segretario designato nello stesso modo. Il presidente dell'assemblea verifica la regolarità della costituzione, accerta l'identità e la legittimazione dei presenti, regola il suo svolgimento ed accerta i risultati delle votazioni; degli esiti di tali accertamenti deve essere dato conto nel verbale.
Il presidente dirige e il segretario assiste, normalmente redigendo il verbale. Questo fatto lo si desume dalla prassi e comunque, se vogliamo trovare uno specifico riferimento normativo dal secondo comma del medesimo articolo a mente del quale “l'assistenza del segretario non è necessaria quando il verbale dell'assemblea è redatto da un notaio”.
La legge, quindi, vorrebbe che fosse il segretario a redigere il verbale e non l'amministratore, salvo il caso di coincidenza di queste figure.
Presidente e segretario, tuttavia, non sono figure indispensabili ai fini della validità della deliberazione (cfr. Cass. 15 luglio 1980 n. 4615), sicché ad avviso di chi scrive l'irregolarità formale dovuta alla redazione del verbale da parte dell'amministratore non è tale da inficiare la validità del verbale stesso, a maggior ragione se poi lo stesso viene sottoscritto da presidente e segretario per asseverarne il contenuto.
V'è di più: spesse volte la redazione del verbale da parte di un esperto della materia (o magari semplicemente l'assistenza nella sua stesura) possono essere utili per evitare errori, ridondanze e per garantire la corretta corrispondenza tra il deliberato ed il verbalizzato.
Ad ogni buon conto è utile ricordare che l'amministratore, di fronte alla richiesta del segretario di redigere il verbale, non può rifiutarsi e deve cedere il passo.




www.condominioweb.com 

martedì 20 gennaio 2015

Gratuito patrocinio per l'onorario dell'avvocato in mediazione obbligatoria

Il Tribunale di Firenze continua ad essere di riferimento in materia di mediazione in Italia. Il Giudice Breggia, particolarmente attenta e sensibile all'istituto della mediazione civile, con una innovativa ordinanza emessa il 13 Gennaio corso, ha stabilito che il gratuito patrocinio può essere applicato anche nella mediazione obbligatoria conclusa con l’accordo. La parte (assistita dall’avvocato) che conclude la lite, trattata nell'ambito della mediazione obbligatoria, con un accordo può essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ovviamente salvo i requisiti reddituali stabiliti dalla legge. 
Il caso era quello della rivendicazione di un diritto di usucapione, soggetto quindi a procedura di mediazione in quanto materia obbligatoria ai sensi del decreto legislativo 28/2010, ed il giudicante ha articolato, tramite un'analisi assai approfondita della norma e della giurisprudenza, la possibilità di porre a carico dello Stato l'onorario per l'opera dell’avvocato di fiducia della parte in mediazione.
L'analisi suddetta ha considerato la sentenza di Cassazione n. 9529/2013 ma anche gli orientamenti giurisprudenziali del diritto comunitario, andando così ad interpretare compiutamente (ed in maniera estensiva) l'art. 75 del D.P.R. 115/2012 concludendo che la chiusura della controversia con un accordo raggiunto in mediazione rendendo inutile il processo, sposando così l'assolvimento un interesse generale (vedi sentenza Corte costituzionale n. 276/2000).

lunedì 19 gennaio 2015

In quali cause la negoziazione assistita e in quali la mediazione - (www.laleggepertutti.it)

Da www.laleggepertutti.it

Come ormai non solo gli avvocati sanno, onde ridurre l’enorme arretrato dei tribunali, gli ultimi governi hanno introdotto nuovi strumenti volti per favorire la definizione delle cause in via transattiva prima ancora del loro insorgere: mediante, cioè, accordi preventivi tra le stesse parti, facilitati grazie all’aiuto di mediatori o dei rispettivi avvocati. Un tentativo, però, disegnato a più riprese e senza un’idea unitaria, che ha fornito soluzioni tra loro sostanzialmente identiche, ma tutte differenti nel procedimento. Il che non poteva che generare un’enorme confusione solo tra gli stessi operatori del diritto. È avvenuto, insomma, proprio quello che avviene coi vari riti in tribunale: “materia che vai, procedura che trovi”.

Perché è importante questo articolo anche per chi non è un avvocato? Molto semplice. Le parti devono sapere – e se non lo sanno, il loro avvocato ha l’obbligo di informarle in anticipo – che, in determinate ipotesi, prima di iniziare una causa, devono obbligatoriamente avviare – volenti o nolenti – una trattativa con la controparte per cercare un accordo.
Con due conseguenze fondamentali:
– la mancata attivazione di tale procedura rende impossibile (tecnicamente “improcedibile”) rivolgersi dopo al giudice (in gergo tecnico si chiama “condizione di procedibilità”);
– la partecipazione solo formale alla procedura o il rifiuto ingiustificato a stringere l’accordo sarà un comportamento di cui il giudice verrà dopo messo a conoscenza e di cui terrà conto ai fini di una eventuale condanna al pagamento delle spese processuali. Come dire: “Abbandonate le questioni di principio: con la giustizia non si scherza (più)”.
Detto ciò, è bene sapere che le principali procedure da seguire obbligatoriamente, al momento, sono due:
– la mediazione
– la negoziazione assistita dagli avvocati.

Come dicevamo, questi obblighi non sussistono per tutti i tipi di cause, ma solo per alcuni: ossia, in determinati casi è necessario attivare la mediazione e in altri la negoziazione assistita. Prima però di sintetizzare quali sono queste ipotesi, in modo da non commettere errori prima dell’avvio del giudizio, spendiamo due parole sulla differenza tra i due procedimenti.

1 | MEDIAZIONE
La mediazione obbligatoria impone, a chi vuol intraprendere una causa, di rivolgersi prima a un organismo (appunto “organismo di mediazione”), situato nella città ove si trova il tribunale competente a decidere la specifica controversia. A quel punto, il mediatore raccoglierà la richiesta (depositata dall’avvocato di parte) e convocherà i soggetti in lite per un incontro, al quale essi dovranno obbligatoriamente presenziare di persona e accompagnati dal proprio legale. In tale sede si tasterà la possibilità di un primo approccio all’accordo, si disegnerà una sorta di road map per ulteriori incontri per tentare la stipula di un vero e proprio atto che ponga fine alla controversia.
Se però già alla prima riunione risulta chiara la volontà delle parti di non definire bonariamente la vertenza, il tentativo di mediazione si chiude, ai mediatori non sarà dovuto alcun compenso e si potrà procedere in tribunale. Diversamente, gli incontri proseguiranno – scatterà l’obbligo del compenso ai mediatori – fino all’arrivo di una transazione.

Una parte della giurisprudenza (in particolare, alcune sentenze dei tribunali di Roma, Bologna e Firenze) ha avuto modo di affermare che la natura della mediazione richiede che all’incontro siano presenti (anche e soprattutto) le parti personalmente (e non solo gli avvocati). L’istituto, infatti, mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto. Questo – sempre secondo i tribunali citati – implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore.
Pertanto, nell’ipotesi in cui all’incontro davanti al mediatore compaiono i soli difensori, anche in rappresentanza delle parti, non può considerarsi in alcun modo mediazione: in pratica, non potrà ritenersi effettuato il tentativo di mediazione e non si potrà procedere in tribunale.
La domanda di mediazione, inoltre, impedisce, dalla data della comunicazione alle parti, la decadenza (per esempio, nel caso del termine di trenta giorni per impugnare la deliberazione di una assemblea di condominio) per una sola volta. Ma, se il tentativo fallisce, la domanda giudiziale dev’essere proposta entro il medesimo termine di decadenza, decorrente dal deposito del verbale alla segreteria dell’organismo.



2 | NEGOZIAZIONE ASSISTITA
La negoziazione assistita obbligatoria, invece, si consuma all’interno dello studio degli avvocati. Il legale di chi intende agire in giudizio invia, prima di iniziare il giudizio, una raccomandata a.r. alla controparte. Con tale comunicazione la invita a firmare una sorta di contratto (si chiama “convenzione di negoziazione assistita”) finalizzato a raggiungere un accordo, evitando la causa, in cui si stabiliscono le modalità da seguire (tempi, procedura, oggetto della controversia, ecc.). Se entro 30 giorni non si riceve risposta o la risposta, nel medesimo termine, è negativa, allora la parte è libera di avviare l’azione giudiziale. Diversamente, si proseguirà nel cammino definito dagli avvocati e rivolto alla firma dell’accordo.

Il procedimento di negoziazione assistita inizia quando, prima di proporre la domanda giudiziale e procedere con un processo civile, la parte, tramite il proprio avvocato iscritto all’albo, invita la controparte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita. L’invito a stipulare deve contenere:
1) l’indicazione dell’oggetto della controversia;
2) l’avvertimento che la mancata risposta all’invito entro 30 giorni dalla ricezione o il suo rifiuto può essere valutato dal giudice al fine di decidere sulle spese di giustizia, sulla responsabilità aggravata e sulla concessione della provvisoria esecutorietà
3) la firma autografa della parte certificata dall’avvocato che formula l’invito.

La comunicazione dell’invito alla controparte determina, al pari di una domanda giudiziale, l’interruzione della prescrizione e impedisce il maturare di eventuali decadenze.
La controparte, una volta ricevuto l’invito, nei successivi 30 giorni può decidere di aderire, non aderire o non rispondere all’invito.

L’assenza di risposta della controparte nel termine suindicato equivale all’espresso rifiuto di aderire all’invito. In caso di rifiuto o di mancata adesione all’invito, la parte può proporre la domanda giudiziale entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal rifiuto o dalla mancata adesione nel termine.

La mancata adesione o il rifiuto esplicito di aderire può poi essere valutato dal giudice nel successivo giudizio al fine di decidere:
1) sulle spese di giustizia (disponendo eventualmente la condanna alle spese);
2) sull’applicazione della responsabilità aggravata per lite temeraria;
3) sulla concessione della provvisoria esecutorietà.

La controparte può invece aderire all’invito entro 30 giorni dalla sua ricezione. In tal caso, le parti sono chiamate a stipulare una convenzione di negoziazione con la quale si obbligano a cooperare per raggiungere un accordo amichevole sulla controversia.

Successivamente alla stipulazione della convenzione, si svolge la vera e propria fase di negoziazione nelle forme e con le tempistiche stabilite dalle stesse parti nella convenzione di negoziazione.

All’esito della fase di negoziazione, le parti possono raggiungere un accordo integrale su tutta la materia del contendere, raggiungere un accordo parziale oppure non raggiungere alcun accordo.

In ogni caso, il procedimento di negoziazione assistita si considera esperito quando entro 30 giorni la controparte non ha aderito all’invito o ha espressamente rifiutato l’invito o, comunque, è decorso il termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura (termine che non può essere inferiore a un mese).
Nel corso del procedimento di negoziazione le parti devono cooperare secondo criteri di lealtà e buona fede e sono obbligate a tenere riservate le informazioni di cui abbiano avuto conoscenza. Le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento di negoziazione non possono essere utilizzate nel successivo giudizio che abbia, anche in parte, lo stesso oggetto. Le parti non sono tenute a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel corso della procedura di negoziazione e godono delle garanzie di libertà del difensore in materia di perquisizioni e ispezioni.


3 | MATERIE
Nel seguente schema sintetizziamo le materie che impongono la mediazione obbligatoria e quelle che impongono la negoziazione assistita obbligatoria.



OGGETTO DELLA CONTROVERSIAPROCEDURA
Affitto di aziendeMediazione
Autotrasporto o sub-trasporto (contratti)Negoziazione assistita
ComodatoMediazione
CondominioMediazione
Contratti assicurativiMediazione
Contratti bancariMediazione
Contratti finanziariMediazione
Diritti reali (proprietà, usufrutto, abitazione, ecc.)Mediazione
Divisione di beni in comunioneMediazione
Domanda di pagamento a qualsiasi titolo, per somme fino a 50mila euro, salvo rientri in una delle materie per cui è prevista la mediazioneNegoziazione assistita
LocazioneMediazione
Patti di famigliaMediazione
Risarcimento danno per diffamazione a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicitàMediazione
Risarcimento danno per responsabilità medica e sanitariaMediazione
Risarcimento danno per sinistri stradali e da circolazione di natantiNegoziazione assistita
Successioni ereditarieMediazione

I procedimenti esenti nelle materie sottoposte a mediazione obbligatoria
- nei procedimenti per decreto ingiuntivo. Per la fase di opposizione, l’esenzione vale solo fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione (da questo momento in avanti, quindi, se si tratta di una materia sottoposta a mediazione obbligatoria, il giudice dovrà invitare le parti a effettuare il tentativo, nel termine minimo di tre mesi, prima dell’ulteriore prosecuzione del processo);
- nei procedimenti per convalida di licenza o di sfratto [1];
- nei procedimenti possessori [2];

- nei procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;
- nei procedimenti in camera di consiglio;
- nell’azione civile esercitata nel processo penale.
- nella consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite [3].


[1] Fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 cod. proc. civ.
[2] Fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, 3 co. cod. proc. civ.
[3] Di cui all’art. 696-bis cod. proc. civ.


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sabato 17 gennaio 2015

Chi paga le spese di manutenzione straordinaria sull'immobile pignorato? L'orientamento dominante e il recente revirement della giurisprudenza ( Fonte: www.StudioCataldi.it)

Nella procedura esecutiva immobiliare, è dovere del custode garantire la gestione e la manutenzione ottimali del bene pignorato, al fine di una migliore realizzazione della vendita.
Spettano al custode sia l’amministrazione conservativa del bene (ovvero il mantenimento dell’integrità materiale e la salvaguardia del valore economico dell’immobile), sia il dovere di sorveglianza sulle condizioni della res e sull’operato dell’occupante, segnalando tempestivamente alle autorità gli eventuali pericoli che dal bene possano scaturire (ad es. pericolo di crollo, inagibilità, ecc.) e i comportamenti o le situazioni che possano minare l’integrità dell’immobile pignorato.
Il custode è tenuto, inoltre, con la diligenza del buon padre di famiglia, a conservare il bene secondo modalità tali da evitare rischi e danni a terzi e ad attivarsi per eliminare ogni effetto pregiudizievole o situazioni potenzialmente pericolose, facendo eseguire le opere necessarie ad evitarli.
Ma, a questo punto, quid iuris in ordine alle spese necessarie per le opere di manutenzione straordinaria sull’immobile?

L’orientamento dominante

Il recente revirement della giurisprudenza
Fonte: Chi paga le spese di manutenzione straordinaria sull'immobile pignorato? L'orientamento dominante e il recente revirement della giurisprudenza 
(www.StudioCataldi.it) 

La tesi portata avanti, tutt’oggi, dalla giurisprudenza sostiene che le spese di manutenzione sui beni pignorati spettino sempre al creditore procedente e, nell’ipotesi della sua inerzia al custode, il quale potrà successivamente chiederne il rimborso nel rendiconto.
In particolare, l’indirizzo affermato in una datata sentenza della Cassazione (ma tuttora seguito), ha ritenuto che “nel caso in cui i beni pignorati non possano essere custoditi senza spese, queste debbono essere anticipate dal creditore procedente su provvedimento del giudice dell'esecuzione. Ove tale provvedimento non sia stato emesso o non venga eseguito, ed il custode non si dimetta, le suddette spese debbono essere erogate in proprio da esso custode, che ne chiederà il rimborso in sede di liquidazione, ovvero, su espressa autorizzazione del giudice, potrà provvedervi con i redditi ricavati dalle cose pignorate” (Cass. n. 2875/1976).
Nella stessa sentenza, si legge, altresì, che è il custode a dover “provocare dal giudice del merito un immediato provvedimento per il deposito delle somme occorrente da parte del creditore procedente e, qualora il provvedimento non venga emesso o non eseguito, se il custode stesso non ritenga di dimettersi, provocando se del caso l'eventuale provvedimento del giudice che sanziona la cessazione della procedura esecutiva, lo stesso, risponde in proprio, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni assunte; salvo, poi, il suo diritto al rimborso in sede di rendiconto” (Cass. n. 2875/1976).
Per parte della dottrina, invece, ove il creditore non provveda a saldare la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile pignorato l’esecuzione forzata è da dichiararsi improcedibile, giacchè “gli obblighi del custode sono tutti quelli inerenti alla conservazione della cosa – e - se il creditore non anticipa i mezzi necessari il custode non può essere costretto all'esborso”, dovendo riferire e declinando l'incarico.

L’orientamento maggioritario illustrato è stato ribaltato dalla giurisprudenza di merito più recente.
Nell’ordinanza del 24 ottobre 2014, infatti, la quinta sezione civile del Tribunale di Napoli, ripercorrendo gli indirizzi in materia, ha ritenuto di doversi discostare dalla tesi tuttora seguita, sia in dottrina che in giurisprudenza, secondo la quale le spese per la manutenzione ordinaria e straordinaria del bene pignorato devono essere anticipate dal creditore, ex art. 8 d.p.r. n. 115/2002, a pena di improcedibilità dell'azione esecutiva. 
Per il giudice napoletano, infatti, “il creditore ha diritto di espropriare i beni del debitore (art. 2910 c.c.) nello stato in cui si trovano, senza dover sopportare alcun onere economico per la previa esecuzione di opere volte a salvaguardare l'integrità dell'immobile o il suo valore di realizzo”.
Ciò anche laddove il bene, per le condizioni in cui si trova, è fonte di pericolo per la pubblica o privata incolumità, atteso che il pignoramento, “pur determinando una limitazione delle facoltà di godimento e dei poteri di disposizione dell'immobile, non fa venir meno il diritto dominicale del proprietario, il quale, pertanto, deve ritenersi unico responsabile, ex art. 2053 c.c., per i danni cagionati a terzi a seguito della rovina del bene”.
E tale responsabilità permane, secondo il tribunale di Napoli, anche nel caso di sostituzione del custode nel corso del processo esecutivo, ex art. 559 c.p.c., almeno con riguardo alla conservazione ed alla manutenzione delle strutture murarie e degli impianti in esse conglobati.

Nel “consapevole” revirement della giurisprudenza, pertanto, l’attività del custode deve intendersi limitata agli atti di ordinaria amministrazione e di gestione passiva degli immobili staggiti, accantonando gli eventuali frutti ai fini del soddisfacimento della pretesa azionata in via esecutiva.
Da ciò consegue che l’unico obbligato “all'esecuzione di lavori di straordinaria manutenzione è il debitore proprietarioalla cui inerzia dovranno sopperire, in caso di pericolo per la pubblica incolumità, i competenti organi amministrativi mediante il procedimento della c.d. ‘esecuzione in danno’”.
Resta fermo, ovviamente, che, previa autorizzazione del giudice dell’esecuzione, il creditore, volendo conseguire il massimo profitto dalla vendita, possa farsi carico spontaneamente delle spese occorrenti per la manutenzione straordinaria dell’immobile. 


venerdì 16 gennaio 2015

Chi sceglie il consulente tecnico di parte?

Nel condominio in cui abito, un nostro vicino ha impugnato una deliberazione riguardante l'approvazione del rendiconto, deducendo che alcune spese poste a carico di tutti devono, invece, essere sostenute solamente da un gruppo di condomini.
Il giudice, in corso di causa, ha nominato un CTU per valutare le prove; il nostro amministratore s'è fatto affiancare da un consulente tecnico di parte ed adesso ci chiede le quote per pagargli il compenso.
È giusto che la scelta del nostro consulente sia stata operata dall'amministratore? Ed è giusto che le spese per l'onorario del consulente siano ripartite in base ai millesimi di proprietà?
Questa la situazione e le domande esposteci da un nostro lettore: il caso in sé non toglie la valenza generale alle considerazioni che andremo a fare in merito al poter di affidamento dell'incarico al consulente di parte.
Impugnazione delle delibere condominiali
La giurisprudenza ormai da anni è orientata nel senso di affermare che "spetta all'amministratore del condominio in via esclusiva la legittimazione passiva a resistere nei giudizi promossi dai condomini per l'annullamento delle delibere assembleari (Cass. 12379/92; Cass. 12204/97; Cass. 13331/2000) con la conseguenza che, nei casi in cui egli può resistere in giudizio, è anche legittimato a proporre impugnazione, nel caso di soccombenza del condominio da lui rappresentato, senza necessità di alcuna autorizzazione da parte dell'assemblea (Cass. 7474/97; Cass. 3773/2001)" (Cass. 20 aprile 2005 n. 8286).
Si badi: la legittimazione a resistere in giudizio non coinvolge anche autonomia decisionale in sede di tentativo di conciliazione, rispetto al quale è prevista un'articolata disciplina deliberativa che rende l'amministratore un mero nuncius della volontà assembleare.
Rispetto alla causa, però, se l'assemblea non ha deciso nulla (es. nomina legale e simili), l'amministratore ha pieno potere (meglio dovere) d'agire in quanto.
La motivazione è semplice: la legittimazione attiva e passiva dell'amministratore di condominio non necessita di autorizzazione assembleare nelle materie di sua competenza. Siccome il mandatario della compagine è tenuto ad eseguire le delibere assembleari, egli deve fare tutto ciò che è necessario ad adempiere, ivi compresa la resistenza nelle cause aventi ad oggetto la validità delle delibere medesime. Unica eccezione: quella delle delibere palesemente contrarie alla legge, la cui esecuzione potrebbe portare responsabilità civili e penali per l'amministratore stesso.
In tale contesto di fatto e di diritto, pertanto, non sussistono dubbi in merito alla possibilità, per l'amministratore non solo di nominare un legale che assuma la difesa del condominio, ma anche quella di affidare l'incarico di consulente tecnico di parte ad un professionista da lui stesso individuato.
Sebbene la nomina del consulente di parte non sia obbligatoria è comunque consigliabile al fine di cooperare con il CTU nell'espletamento del suo incarico.
In casi del genere l'assemblea può contestare la scelta di quel professionista, eventualmente revocandolo, ma non può decidere di non pagarlo perché l'ha scelto l'amministratore. Se si ravvedono responsabilità del mandatario rispetto alla scelta (così detta culpa in eligendo) queste dovranno essere fatte valere in separato giudizio.
Il compenso del consulente, infine, dev'essere ripartito tra tutti i condomini (ad eccezione di quello impugnante) sulla base dei millesimi di proprietà (criterio generale di ripartizione delle spese), salvo diverso accordo.


www.condominioweb.com 

giovedì 15 gennaio 2015

Spese per il rifacimento dell'area comune adibita a parcheggio: chi paga? Fonte http://www.condominioweb.com

Dopo tre intensi giorni di corso AIF/GeoCAM a Milano, riprendiamo la selezione di notizie interessanti con questo articolo pubblicato sul sito www.condominioweb.com che tratta del problema del parcheggio condominiale………

Le spese per la manutenzione e il rifacimento dell'area comune adibita a parcheggio, che svolge anche la funzione di copertura di locali sottostanti, vanno ripartite in parti uguali tra il Condominio e i proprietari dei locali anzidetti.
Lo ha deciso il Tribunale di Trento con la sentenza n. 417 del 1° aprile 2014. Applicando in via analogica l'art. 1125 c.c. in tema di soffitti, volte e solai, il giudice trentino ha ripartito al 50% le spese di manutenzione e riparazione dell'area in questione, tenuto conto della doppia utilità del bene comune: da un lato, area comune di transito e parcheggio, dall'altro lato, piano con funzione di riparo e copertura dei locali di proprietà esclusiva ad esso sottostanti.
Decisivo anche lo stato di degrado dell'area, le cui cause sono riconducibili a due fattori: il traffico veicolare e la mancata manutenzione del parcheggio da parte di tutti i condomini.
Il caso. La sentenza in commento prende le mosse dall'impugnazione avverso la deliberazione con cui l'assemblea di condominio aveva deliberato le spese relative ai lavori sull'area di parcheggio comune, ripartendole in parti uguali a carico dei proprietari della stessa e dei proprietari dei locali ad essa sottostanti. Si tratta, nello specifico, di un'area carrabile attraverso la quale si accede e si recede alle unità condominiali e al di sotto della quale sono allocati alcuni box di proprietà esclusiva (tra i quali quello del condomino che agisce in giudizio). Il condomino contesta il fatto che le spese predette sarebbero dovute essere poste interamente a carico dei proprietari utilizzatori dell'area di parcheggio. Per il Condominio, al contrario, la deliberazione è valida e, peraltro, applica un criterio (art. 1125 c.c.) più favorevole ai proprietari dei locali rispetto a quello disposto dall'art. 1126 c.c.
È noto che, nella generalità dei casi, le spese che riguardano i beni comuni devono essere ripartite tra i condomini in proporzione alle proprietà esclusive, sulla base di apposite tabelle millesimali. Tuttavia, nella determinazione del criterio di riparto delle spese è necessario considerare anche l'utilità che il bene comune è destinato a dare ai singoli appartamenti, secondo i principi generali ricavabili dall'art. 1102 c.c.
Si applica in via analogica la disciplina dei soffitti, volte e solai. Nel caso di specie - osserva il Tribunale - l'area di transito è utilizzata da tutti i condomini quale area di accesso, recesso e parcheggio ma, al contempo, riveste anche l'importante funzione di riparto e copertura dei locali che stanno al di sotto, di proprietà esclusiva. I proprietari dei locali sottostanti l'area, in definitiva, ricavano da questa una utilità aggiuntiva, quella appunto di copertura. Da qui la decisione del giudice di equiparare il piano di parcheggio alle volte o solai, con conseguente applicazione, in via analogica, dell'art. 1125 c.c., secondo cui le spese per la manutenzione e ricostruzione di volte e solai sono sostenute in parti uguali dai proprietari dei due piani uno all'altro sovrastanti (cfr. Cass. civ. n. 15841/2011).
Confermata dunque la legittimità della deliberazione approvata dall'assemblea. A sostegno della propria decisione, peraltro, il tribunale osserva che gli interventi di manutenzione non hanno riguardato solo la pavimentazione, bensì anche l'impermeabilizzazione dell'area, a tutto vantaggio dei proprietari dei locali sottostanti il parcheggio. Osserva, altresì, che lo stato di degrado dell'area de quo è stato determinato da due componenti, ovvero il traffico veicolare ma anche la cattiva manutenzione dell'area, a cui tutti i condomini sono tenuti.
L'orientamento opposto: applicabile l'art. 1126 c.c. in tema di lastrici solari. L'impostazione seguita nella sentenza in commento si pone in contrasto con l'altro orientamento, pure autorevolmente sostenuto in giurisprudenza (cfr. Cass. civ. n. 941/2011), che ritiene più corretto applicare nei casi come quello in esame l'art. 1126 c.c. in tema di lastrici solari, con conseguente ripartizione delle spese per 1/3 a carico del proprietario dell'area (nel caso di specie, il Condominio) e per 2/3 a carico dei proprietari dei locali sottostanti.
In definitiva, fermo restando l'obbligo anche dei proprietari dei box sottostanti l'area comune di parcheggio di partecipare alle spese di manutenzione e riparazione della stessa, rimangono tuttavia controversi i criteri da utilizzare per la ripartizione delle spese. Si tenga presente poi che, nella determinazione delle spese, possono talvolta incidere anche eventuali responsabilità del Condominio che, in qualità di custode delle parti comuni, è chiamato a rispondere dei danni (ad esempio infiltrazioni d'acqua) riconducibili alla cattiva o negligente custodia e manutenzione dell'area comune.





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