venerdì 27 febbraio 2015

I cani abbaiano incessantemente? Pazienza, i vicini li devono sopportare. Fonte http://www.condominioweb.com/se-i-cani-non-disturbano-piu-persone.11660#ixzz3SxyfiTBH www.condominioweb.com

dal sito condominioweb.com riportiamo un articolo sul "can che abbaia….."

Il fatto non ha rilevanza penale se non è potenzialmente idoneo ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone
Il caso.
La controversia nasce dall'impugnazione di una sentenza di condanna alla pena dell'ammenda, inflitta ai proprietari di alcuni cani, giudicati colpevoli di non avere impedito il continuo abbaiare dei loro animali (art. 659 c.p. - reato di disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone) . La sentenza del Tribunale territoriale è giunta direttamente in Cassazione - trattandosi di sentenza inappellabile ex art. 593, comma 3, c.p.p. -, dinanzi alla quale i ricorrenti hanno in particolare lamentato l'insussistenza della cd. plurioffensività soggettiva della condotta, rilevante ai fini della fattispecie di cui all'art. 659 c.p.: gli unici ad essere disturbati erano i coniugi vicini di casa, attori in primo grado, poiché all'epoca dei fatti non esistevano nei pressi delle due abitazioni altri nuclei abitativi o altri luoghi frequentati da persone.
Il reato di disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone. Si rammenta in proposito che, oltre agli strumenti di natura civilista, il legislatore ha approntato una serie di fattispecie penali applicabili in caso di immissioni sonore, e di condotte immissive intollerabili, in generale. Riguardo alle prime, norma di riferimento è il citato art. 659 c.p., ai sensi del quale «Chiunque, mediante schiamazzo o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a 309 euro» (comma 1). La norma in questione tutela dunque l'ordine pubblico, sotto il profilo specifico della tranquillità e della quiete pubblica; la giurisprudenza ha peraltro ulteriormente precisato che la condotta criminosa va riferita non solo al turbamento del riposo, ma anche a quello della quiete quale bene tutelato in ogni ora, sia notturna che diurna, a prescindere da orari lavorativi (Cass. pen., sez. I, 12 gennaio 1996, n. 1005).
La decisione Nella pronuncia in commento, la Cassazione, richiamando un consolidato orientamento interpretativo ribadisce che il reato in esame è un reato di pericolo: ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all'art. 659 c.p. occorre cioè la prova del superamento dei limiti della normale tollerabilità di emissioni sonore e della percettibilità delle emissioni stesse da parte di un numero illimitato di persone, a prescindere dal fatto che in concreto tali persone siano state effettivamente disturbate.
Principio generale in materia di rumori cosiddetti "intollerabili" è che essi devono avere l'attitudine a disturbare una cerchia indeterminata di persone: perché si verifichi una lesione o messa in pericolo della pubblica tranquillità, occorre che i rumori molesti abbiano una diffusività tale che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere percepito da un numero illimitato di persone, pure se poi concretamente solo una se ne possa lamentare. «Trattandosi di un reato di pericolo presunto, occorreva pertanto accertare in concreto - prosegue la Suprema Corte - se, in base agli elementi risultanti dalle indagini espletate, lo strepito degli animali avesse caratteristiche tali (per le modalità dei luoghi, ed in particolare per la presenza di abitazioni circostanti) da costituire un potenziale disturbo per la quiete pubblica, costituita nella specie dal disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone. Dalla sentenza impugnata risulta invece omesso un tale accertamento, mentre risulta che le uniche persone danneggiate dal continuo abbaiare dei cani erano i coniugi confinanti. Né la memoria di replica depositata dalla parte civile V. offre elementi per opinare diversamente. Né soccorre la "saltuaria" frequentazione da parte dei testi di accusa (rilevata dal giudice) che non li rende neppure annoverabili tra i potenziali danneggiati».
I giudici di legittimità hanno dunque cassato la sentenza impugnata e disposto il rinvio al Tribunale affinché si compiano «i necessari accertamenti in fatto sulla scorta dei principi affermati».
In altri termini, irumori, anche in relazione alla loro intensità, devono essere valutati a pre­scinde­re dal fatto che, in concreto, alcune persone siano state effet­tivamente di­stur­bate e, per l'effetto, le la­mentele di una o più sin­gole persone non sono, di per sé sole, sufficienti ad inte­grare la materialità del rea­­to in questione: trattandosi, come rilevato dalla stessa Corte nel caso in commento, di reato di pericolo "presunto", è sufficiente che la condotta dell'agente abbia l'attitudine a ledere il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice ed è indifferente che la lesione del bene si sia in concreto verificata.
Al riguardo, si afferma inoltre che, se risultano offesi solo i sog­getti che si trovano in un luogo con­tiguo a quello da cui provengono i rumori, il fatto non assume invero rilievo pe­nale, ma deve essere inqua­dra­to nell'ambito dei rapporti di vicinato tra im­mobili confinanti, disciplinato dal codice ci­vile (Cass. pen., sez. I, 24 aprile 1996, n. 5714).



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martedì 24 febbraio 2015

Targhe e insegne sul palazzo: l’autorizzazione condominiale - http://www.laleggepertutti.it

SEGNALIAMO UN ARTICOLO DALL'AGGIORNATISSIMO SITO WWW.LALEGGEPERTUTTI.IT

Il proprietario di un negozio ubicato nel nostro palazzo ha montato la seconda insegna sul lato del fabbricato appena restaurato; noi condòmini possiamo chiederne la rimozione sulla base del nostro regolamento condominiale che vieta ogni innovazione delle parti comuni senza il consenso dell’assemblea?

Ciascun condòmino può servirsi delle parti comuni dell’edificio, purché non ne alteri la funzione cui sono destinate e non impedisca agli altri condòmini di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

In applicazione di tale principio, ciascun condòmino può servirsi dei muri perimetrali dell’edificio condominiale per apporvi targhe insegne che diano risalto pubblicitario all’attività professionale o commerciale esercitata. L’apposizione di targhe e insegne non altera la funzione di sostegno dell’edificio svolta dal muro perimetrale e costituisce un normale esercizio del diritto di usare la cosa comune.

Tuttavia, il regolamento condominiale di tipo contrattuale può porre dei precisi limiti ai condòmini nell’utilizzo delle parti comuni del palazzo e, quindi, può anche vietare l’apposizione di insegne, targhe e simili sulle facciate o rendere necessario il consenso dell’assemblea condominiale.

Si è in presenza di un regolamento condominiale di tipo contrattuale in due distinte ipotesi:
– quando il regolamento è predisposto dal costruttore dell’edificio ed espressamente richiamato negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari;
– quando il regolamento è approvato dai condòmini all’unanimità.

Il regolamento condominiale contrattuale si differenzia dal regolamento di condominio ordinario poiché consente di limitare i diritti dei singoli condòmini sulle rispettive proprietà e sulle parti comuni dell’edificio, e di attribuire maggiori diritti a uno o più condòmini.

Tutto ciò premesso, in riferimento al caso specifico, l’affissione dell’insegna su un muro esterno dell’edificio difficilmente può essere fatta rientrare nel concetto di innovazione. Per innovazione si intendono quelle modifiche che comportino un’alterazione sostanziale o il mutamento della originaria destinazione d’uso, in modo che le parti comuni, in seguito alle attività o alle opere innovative eseguite, presentino una diversa consistenza materiale o vengano ad essere utilizzate per fini diversi da quelli precedenti .

Per questi motivi, nonostante l’insegna muti l’aspetto della facciata, la sua affissione non può essere considerata come innovazione ma come semplice utilizzo delle parti comuni dell’edificio.

Alla luce di quanto sopra descritto, le possibilità di richiedere la rimozione dell’insegna dell’esercizio commerciale transitano attraverso una serie di verifiche:
– verificare che il proprio regolamento condominiale sia di tipo contrattuale. In caso di esito positivo, è necessario capire se nel regolamento è stabilito che l’installazione di targhe, insegne e simili sui muri perimetrali del palazzo è vietata o che è subordinata all’autorizzazione dell’assemblea. Se il regolamento condominiale non è di tipo contrattuale, per vietare l’affissione, servirà, in sede assembleare, l’unanimità dei consensi (ipotesi inverificabile, in quanto anche il soggetto che richiede l’affissione dovrebbe votare contro l’affissione stessa);
– verificare, inoltre, che il negoziante abbia effettivamente ottenuto dal Comune l’autorizzazione all’affissione dell’insegna: spesso i regolamenti comunali sulle affissioni (in genere consultabili sul sito internet del Comune di appartenenza) prevedono, tra i requisiti richiesti per la presentazione della domanda per l’autorizzazione all’affissione di targhe e insegne, anche l’autorizzazione dell’assemblea condominiale. In tal caso, infatti, non avendo il negoziante richiesto e ottenuto l’autorizzazione del condominio, l’installazione risulterebbe abusiva e basterebbe rivolgersi al Comune per ottenere la rimozione del manufatto.
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venerdì 20 febbraio 2015

Lettera di diffida…. a cosa serve? (fonte: www.condominioweb.com)

Riportiamo un interessante approfondimento dal sito www.condominioweb.com:


Il mio vicino è un rumoroso cronico: leggendo qua e la sul forum mi è stato consigliato di inviargli una lettera di diffida. A che cosa serve esattamente?
Il mio vicino mi ha comunicato che intende costruire sul suo terreno ma secondo me lo farà non rispettando le distanze. Che cosa posso fare per metterlo in guardia?
Uno dei condòmini di uno stabile che amministro viola costantemente le norme del regolamento sul parcheggio negli spazi comuni. Perché è utile diffidarlo dal proseguire prima di intraprendere l'azione legale?
Dopo le recenti piogge ho notato che in una stanza della mia casa sono presenti delle macchie e delle gocce d'acqua. Si tratta di un'infiltrazione proveniente dal terrazzo condominiale. Per ottenerne la cessazione devono diffidare l'amministratore?
Tutti questi interrogativi, ci siamo limitati a quattro esemplificazioni ma l'elenco è lungo, hanno in comune un aspetto: rispetto ad ognuno di essi può essere utile inviare una lettera di diffida.
Diffidare, in ambito giuridico e non solo, vuol dire "invitare qualcuno ad astenersi da un determinato comportamento o a compiere una determinata attività, sia oralmente, sia, in senso proprio, mediante esplicita diffida scritta" (Fonte: Dizionario enciclopedico Treccani).
La lettera di diffida, dunque, è quella comunicazione con cui chi si ritiene leso da un comportamento attuale (o futuro) di un'altra persona la invita a cessare il comportamento lesivo o a non intraprendere azioni considerate illegittime.
Chiaramente si può diffidare qualcuno solamente se si sta comportando in modo non corretto rispetto a quanto stabilito dalla legge o comunque da regole condivise e non semplicemente perché non si sta comportando come vorremmo sulla base di una nostra personale valutazione.
Gli esempi succitati rappresentano i classici casi in cui una persona può diffidare un altro soggetto perché non si sta comportando secondo legge o perché è successo un fatto a cose a lui riconducibile (es. delle infiltrazioni) che sta recando danno e che dev'essere eliminato.
La diffida non è obbligatoria se non nei casi previsti dalla legge. Così, ad esempio, il ambito contrattuale l'art. 1454 c.c. dedicato alla diffida ad adempiere, recita:
Alla parte inadempiente l'altra può intimare per iscritto di adempiere in un congruo termine, con dichiarazione che, decorso inutilmente detto termine, il contratto s'intenderà senz'altro risoluto.
Il termine non può essere inferiore a quindici giorni, salvo diversa pattuizione delle parti o salvo che, per la natura del contratto o secondo gli usi, risulti congruo un termine minore.
Decorso il termine senza che il contratto sia stato adempiuto, questo è risoluto di diritto.
L'impresa di pulizie non sta effettuando il proprio lavoro nei modi concordati? Per ottenere l'adempimento o addivenire alla risoluzione è necessario inviare una lettera di diffida. Diversamente il disinteresse potrebbe essere considerato tacita acquiescenza all'inadempimento dell'altra parte.
In altri casi la lettera di diffida può essere utile perché non sempre l'altra parte potrebbe essere a conoscenza (per ignoranza) della lesione dell'altrui diritto. È il caso delle infiltrazioni in locali di proprietà altrui.
La comunicazione del fatto lesivo non dev'essere per forza eseguita in forma di diffida, in quanto nei casi di illeciti extracontrattuali le parti non devono comportarsi in un determinato modo in base al generale principio del neminem laedere (brocardo latino che sintetizza il dovere di non compiere atti lesivi degli altri diritti). Come dire: posso anche limitarmi a segnalarti l'infiltrazioni o i rumori intollerabili senza utilizzare formule di diffida, in quanto mi basta metterti a conoscenza del fatto che stai ledendo un diritto altrui.
Diffidare o comunque avvisare la controparte dell'illegittimità del suo comportamento rispetto ai propri diritti è comunque utile per dimostrare in sede di giudizio che s'è cercata una soluzione anche fuori dalle aule di Tribunale (ciò al fine di valutare il comportamento delle parti in relazione alla condanna alle spese ed anche in relazione alla misura dell'eventuale risarcimento).


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mercoledì 18 febbraio 2015

Recente sentenza del Consiglio di Stato (22/01/2015) sul decoro professionale e gli onorari richiesti dai professionisti!!!!

Recentemente il Consiglio di Stato é tornato ad occuparsi delle parcelle dei professionisti ed il decoro della professione, affrontando nuovamente se esiste un legame tra i compensi, il decoro delle professione e la viglianza degli ordini e collegi professionali (oggi demandata ai Consigli di Discipilina).
Su ricorso da parte dell'Ordine Nazionale dei Geologi che riteneva che il compenso dovesse tenere di conto anche del decoro della professione,  l’Antitrust ha stabilito che i minimi tariffari non potevano essere reintrodotti, di fatto e surrettiziamente, attraverso principi deontologici di corretto comportamento. Tale decisione ha dato luogo, peraltro, a delle sanzioni per l'Ordine Nazionale Geologi e per il CNF (per quest'ultimo con una "multa" di € 912.000, provvedimento impugnato e tutt'ora sub judice).
Il Consiglio di Stato con sentenza 22 gennaio 2015, n. 238 ha rigettato l'appello del Consiglio dell’Ordine dei geologi, ha accolto quello dell'Autorità e ha stabilito che il decoro (con statuizione applicabile a tutte le professioni) non è più un valido parametro per determinare o verificare il prezzo della prestazione professionale concretamente applicato.
La qualità delle prestazioni professionali non è intaccata, quindi, dalla violazione del decoro che potrebbe derivare da importi troppo bassi, e comunque la misura di tali importi non può essere valutata con riferimento ad alcuna tariffa (non a caso, peraltro, tutte le tariffe delle professioni ordinistiche sono state abrogate). Prevale la libertà di concorrenza con piena possibilità di applicare (e pubblicizzare) prezzi ridotti.
Ogni commento ed opinione in merito é legittimo….. Stride la richiesta che il cliente fa al professionista di sempre più efficaci ed autorevoli consulenze, con l'opportunità di non garantire un riconoscimento economico minimo per tale prestazione. Ci domandiamo se l'apertura incondizionata delle prestazioni professionali al mercato possa garantire, oltre all'auspicata concorrenza sull'entità dei compensi, anche degli standard minimi di qualità….
Ai posteri (ma neanche troppo posteri…) l'ardua sentenza!!!!

PS: un interessante approfondimento potete trovarlo in questo articolo sul sito www.altalex.it, dal quale abbiamo estrapolato le notizie riportate
http://www.altalex.com/index.php?idnot=70200

venerdì 13 febbraio 2015

Condominio e conguaglio di fine anno, paga il proprietario o l'inquilino? (Fonte http://www.condominioweb.com)

Qualche giorno fa mi ha chiamato il proprietario della casa in cui vivo e mi ha detto che devo pagare il conguaglio di fine anno del condominio.
La cifra è davvero consistente, anche perché non è che durante l'anno non paghi nulla, e mi pare strano che si siano accumulate tutte queste somme: non sono moroso!
Che cosa posso fare per capirne di più?
Rispetto al conguaglio condominiale ed alla ripartizione delle spese tra proprietario ed inquilino, comprendere chi debba pagare che cosa non è operazione differente da quella che si fa nel corso dell'anno e gli strumenti per la verifica sono i medesimi.
Partiamo dalla definizione di conguaglio: esso, com'è noto, è il frutto di quell'operazione contabile che consente di verificare se rispetto ad una determinata situazione, l'interessato è esposto economicamente oppure deve avere restituita una somma. Ecco quando il locatore può farsi pagare dal conduttore le spese condominiali
Esempio: Tizio paga € 50,00 mensili di spese condominiali. Al termine dell'anno l'amministratore, provvedendo a preparare il rendiconto di gestione, verificherà se rispetto all'intero esercizio la somma versata da Tizio (€ 600,00 in un anno) debba essere considerata:
a) sufficiente a quanto da lui dovuto per la gestione del condominio;
b) insufficiente e quindi necessiti d'integrazione;
c) eccessiva e quindi debba essere restituita.
Se l'appartamento è concesso in locazione, di quei 50 euro una parte dovrà essere pagata dal conduttore.
Quale parte di questa spesa e carico di questo soggetto?
Come ci ricorda l'art. 9 della legge n. 392/78, il conduttore paga il 90% delle spese per il servizio di portierato e poi quelle necessarie per il servizio di pulizia delle parti comuni, per il funzionamento e all'ordinaria manutenzione dell'ascensore, per l'erogazione dell'acqua, dell'energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell'aria, nonché i costi riguardanti allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine e di in generale quelle concernenti l'erogazione di servizi comuni.
In buona sostanza l'amministratore se richiestogli dal proprietario o quest'ultimo devono scorporare dalla quota condominiale il costo a carico del conduttore e domandarne ad esso il pagamento.
Il pagamento, dice la legge deve avvenire entro due mesi dalla richiesta, pena la possibilità di azione per la risoluzione del contratto se l'ammontare dei debiti condominiali supera due mensilità di canone. Il conduttore in quel lasso di tempo può chiedere delucidazioni e riscontri documentali delle somme richiestegli, eventualmente contestandone il fondamento (cfr. art. 9 legge n. 392/78).
Il procedimento appena descritto vale anche in relazione al conguaglio. Se, come si suole dire, alla fine dell'anno si tirano le somme, in quel tirare le somme c'è anche la possibilità d'individuare con chiarezza quanto dovuto dal proprietario e quanto è addebitabile al conduttore.
All'eventuale pagamento del conguaglio corrisponde la chiusura dei rapporti economici rispetto allo specifico anno di gestione cui esso si riferisce.



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mercoledì 11 febbraio 2015

Lavori sul tetto e linee vita…. (da il Sole 24Ore)

Fra i ruoli che può ricoprire l’amministratore di condominio c’è anche quello del datore di lavoro. Lo è nei confronti di lavoratori dipendenti come il portiere o il giardiniere, ma anche, come previsto dal decreto legislativo 81/2008, Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro, quando il condominio commissiona, con un contratto d’appalto, lavori edili o d’ingegneria civile, vale a dire cantieri temporanei o mobili, che rientrano nel Titolo IV del Testo Unico.
In tali vesti, qualora avvengano incidenti e infortuni all’interno del cantiere, l’amministratore è responsabile sia dal punto di vista civile che penale. Per questo motivo, è suo compito verificare l’idoneità tecnico-professionale delle imprese coinvolte e garantire le migliori condizioni di sicurezza dei luoghi di lavoro. In particolare, la recente sentenza della Cassazione penale (42347/2013) ha specificato che l’amministratore assume la posizione di garanzia propria del datore di lavoro nel caso in cui «proceda direttamente all’organizzazione e direzione di lavori da eseguirsi nell’interesse del condominio stesso». Ma anche ove non proceda direttamente, non è esonerato quale “committente” all’osservanza di quanto stabilito dall’articolo 26 del Dlgs 81/2008 (obblighi di verifica della idoneità tecnica-professionale dell’impresa appaltatrice, di informazione, di collaborazione e cooperazione). Ciò a prescindere dal fatto che l’appalto dei lavori sia deciso attraverso una delibera assembleare o sia invece oggetto di una spontanea iniziativa dell’amministratore, nell’ambito dei suoi poteri conservativi e di urgenza, salvo ratifica assembleare (come l’articolo 1130, comma 1, numero 4, del Codice civile o articolo 1135, comma 2, del Codice civile).

Riguardo alla sicurezza dei luoghi di lavoro, particolarmente delicati sono gli interventi in quota, vale a dire tutti quei lavori «che espongono il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 metri rispetto a un piano stabile». (articolo 107 del Dlgs 81/08). Fra i sistemi di protezione contro le cadute dall’alto rientrano le linee vita, un insieme di ancoraggi posti sulle coperture, alle quali gli operatori si agganciano attraverso imbracature e cordini. Le linee vita possono essere sia temporanee che stabili: nel primo caso sono utilizzate per il montaggio di prefabbricati e, una volta terminato il lavoro, vengono smontate; nel secondo caso, invece, sono installate in modo permanente sulle coperture degli edifici e utilizzate ogni qualvolta si debba procedere a opere di manutenzione.

La normativa nazionale sulle linee vita (Dlgs 81/2008, articolo 115 “Sistemi di protezione contro le cadute dall’alto”) a oggi è stata recepita solo da alcune regioni. In molti casi l’obbligo è limitato agli edifici di nuova costruzione o a quelli in cui è prevista manutenzione sulla copertura, anche se molte amministrazioni tendono a estenderne l’installazione anche per le ristrutturazioni significative di edifici esistenti. La prima regione a renderne obbligatoria l’istallazione è stata la Toscana, seguita da Liguria, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Marche.

Prima di installare la linea vita (secondo la norma Uni En 795) occorre verificare che l’installatore abbia le necessarie abilitazioni e qualifiche. Il progetto deve essere redatto da un professionista, che al termine dei lavori di posa deve sottoscrivere la relazione di calcolo attestante la corretta installazione, corredata dall’attestazione di corretta posa rilasciata dal posatore. Il responsabile dell’edificio, inoltre, è comunque tenuto a custodire il libretto d’uso e manutenzione del sistema, così da essere tutelato in caso di eventuali incidenti. Inoltre, ogni volta che siano previsti interventi con l’utilizzo della linea vita, il responsabile dell’edificio è tenuto a informare gli operatori della presenza dell’impianto e delle sue caratteristiche, in modo tale che gli operatori si possano dotare dei dispositivi di protezione individuale più adeguati.

Subito dopo l’installazione, la normativa prevede di verificare la resistenza del fissaggio, esercitando sugli ancoraggi una forza minima di 500 kg per 15 secondi. Quindi, periodicamente, la linea vita deve essere revisionata «almeno una volta all’anno se in regolare servizio o prima del riutilizzo se non usate per lunghi periodi», come previsto dalla Uni En 11158. Infine, in seguito all’arresto di una caduta, prima di procedere a un ulteriore uso, è obbligatorio ispezionare il sistema.

(da Il Sole 24Ore)

martedì 10 febbraio 2015

Natura dell'obbligazione condominale e solidarietà del debito - Cassazione sentenza n. 1674 del 29 Gennaio 2015 (fonte www.studiocataldi.it)


A fronte di un danno provocato a un terzo – nella specie, da infiltrazioni d'acqua al negozio sito al piano terra di un condominio – i condomini rispondono solidarmente o pro quota
Secondo il giudice del merito “all'adempimento delle obbligazioni i condomini sono tenuti sempre in proporzione alle rispettive quote. La sentenza è impugnata dal danneggiato, il quale ricorre in Cassazione.
Già la materia è stata oggetto, in passato, di una sentenza delle sezioni unite (in particolare, la sentenza n. 9148/2008) le quali hanno affermato, “in rapporto a obbligazioni assunte dall'amministratore in rappresentanza del condominio nei confronti dei terzi, che in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisce il principio della solidalietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parzietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote
In assenza di espressa previsione normativa che stabilisca la solidarietà del debito contratto dal condominio “la struttura parziaria dell'obbligazione ha il sopravvento e insorge una pluralità di obbligazioni tra loro connesse”. 
Se l'obbligazione è naturalisticamente divisibileviene meno uno dei requisiti della solidalietà. Tuttavia, sebbene questa sia la regola generalmente applicabile, il caso di specie rientra nella fattispecie di cui all'art. 2055 cod. civ. in materia di responsabilità solidale per il danno provocato da più soggetti: orientamento che trova anch'esso conforto in precedenti della Cassazione. 
In definitiva, afferma la Suprema corte, “il risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà condominiale non si sottrae alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055 1° comma cod. civ., individuati nei singoli condomini i soggetti solidalmente responsabili”. La Corte accoglie il ricorso limitatamente al motivo di cui si è trattato, decidendo direttamente nel merito.

lunedì 9 febbraio 2015

Cassazione: possibile il distacco dal riscaldamento centralizzato senza autorizzazione dell'assemblea (www.StudioCataldi.it)


Corte di Cassazione civile, sezione seconda, sentenza n. 24209 del 13 Novembre 2014. 
E' possibile, per il singolo condomino, distaccarsi dal riscaldamento centralizzato senza bisogno di ottenere preventivamente l'autorizzazione dall'assemblea dei condomini; tale distacco deve tuttavia avvenire senza che ne derivino, per i comproprietari maggiori oneri. 
Recente evoluzione giurisprudenziale ha ammesso che il distacco possa avvenire senza particolari adempimenti e senza l'ottenimento di autorizzazioni dall'assemblea purché siano pagate le spese di distacco e il condomino interessato contribuisca alle spese comuni sino al momento in cui tale distacco di fatto avvenga: Inoltre è necessario che l'impianto non subisca pregiudizio.
Una volta avvenuto il distacco, il condomino potrà avvalersi dell'esonero (ex art. 1123 codice civile), dal partecipare alle spese comuni per l'uso del servizio centralizzato. 
Tale principio prevale su ogni possibile statuizione contraria contenuta nel regolamento condominiale.
Tuttavia, “il diritto a chiedere il distacco, a determinate condizioni, non potendo la rinunzia del singolo condomino comportare un maggiore aggravio per gli altri, non può non valere per il futuro e non comporta la possibilità di chiedere restituzioni o danni”. Ciò significa che per tutti i consumi inerenti l'uso e la conservazione dell'impianto centralizzato, prima che di fatto fosse posta in essere la divisione, l'interessato deve comunque partecipare. “L'operatività della rinuncia, quale atto abdicativo unilaterale, è limitata dal divieto di sottrarsi all'obbligo di concorrere alle spese necessarie alla conservazione della cosa comune con aggravio degli altri partecipanti”. 



(www.StudioCataldi.it) 

sabato 7 febbraio 2015

La veranda sul balcone va demolita se altera il decoro (fonte http://www.laleggepertutti.it)

La modifica all’appartamento realizzata dal singolo proprietario non può mai danneggiare le cose comuni e il decoro architettonico dell’edificio. Così, sebbene non sempre vada demolita la veranda allestita sul terrazzo di proprietà di uno dei condomini, ciò diventa obbligatorio quando essa pregiudichi l’interesse comune degli altri condomini, ossia comprometta ildecoro estetico dell’edificio e la stabilità dello stesso.
È per questo che va smantellato il manufatto con cui è stata ricavata una stanza dal terrazzo, anche se l’innovazione ha ricevuto il consenso da parte della maggioranza degli altri proprietari.
A dirlo è stata la sentenza della Cassazione n. 2109/15 del 5.02.2015.
Il codice civile è chiaro nel vietare, nell’unità immobiliare di proprietà del condomino o nelle parti normalmente destinate all’uso comune, ma attribuite in proprietà esclusiva o destinate all’uso individuale (per esempio, il lastrico solare), opere che rechino danno alle parti comuni oppure determinino un pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio
Anche se la veranda ha modeste dimensioni rispetto all’intera massa dell’edificio, ciò che conta è il contrasto con le linee architettoniche del fabbricato, specie se quest’ultimo è di pregio o collocato in una zona urbana di valore, come il centro storico. In questo è decisiva la valutazione del CTU, il consulente tecnico nominato dal giudice con il compito di valutare l’impatto del manufatto sull’edificio e sull’ambiente attorno.
Il bene di proprietà esclusiva non può essere modificato in danno della cosa comune, anche se l’innovazione è stata votata dalla maggioranza dell’assemblea: e ciò soprattutto a seguito della recente riforma del condominio che vieta espressamente quelle opere che pregiudicano stabilità e decoro architettonico dell’edificio.
Risultato: va demolita la veranda in alluminio e lamiera adibita a camera da letto ed edificata abusivamente sulla terrazza di un palazzo a due passi dal centro, perché reca un’offesa al decoro che può essere sanata solo dalla demolizione.

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venerdì 6 febbraio 2015

La risoluzione alternativa delle controversie e la tutela dei consumatori a livello europeo. Novità con l'arrivo del nuovo anno (www.StudioCataldi.it)

Buone notizie per i consumatori europei: con l'arrivo del nuovo anno aumenta la tutela in caso di compravendita di beni e la fruizione di servizi. Con la direttiva 2013/11, infatti, troveranno applicazione in tutti i paesi UE regole e procedure semplificate per larisoluzione alternativa delle controversie riguardanti obbligazioni derivanti da contratti di vendita o di servizi, aventi natura nazionale o transfrontaliera, conclusi tra consumatori e professionisti degli Stati membri.

La tutela ha carattere spiccatamente unilaterale in quanto mira a favorire il consumatore, consentendogli l'accesso, gratuito o comunque dietro pagamento di un importo irrisorio, ad un organismo accreditato in grado di risolvere in via stragiudiziale le liti, proponendo o imponendo una soluzione ovvero organizzando un incontro tra consumatore e produttore al fine di coadiuvarli nella ricerca di una soluzione; la durata complessiva del procedimento, ispirato a canoni di trasparenza, imparzialità ed efficienza, non potrà eccedere i novanta giorni. 
Tale disciplina si aggiunge alla direttiva 2008/52 in materia di mediazione civile e commerciale, che continuerà ad applicarsi alle ipotesi non previste dalla direttiva più recente e, in particolare, alle controversie quando entrambe le parti siano professionisti. 
La direttiva in materia di risoluzione alternativa delle controversie, che deve essere recepita a livello nazionale entro due anni dalla sua entrata in vigore, sarà comunque direttamente applicabile anche in caso di mancata implementazione a partire dal 9 luglio 2015. 
Grazie al regolamento 524/2013, inoltre, la risoluzione alternativa delle controversie tra consumatori e professionisti potrà essere esperita anche attraverso una piattaforma on-line. La tutela predisposta, in questo caso, è di tipo bilaterale essendo attivabile tanto dai consumatori quanto dai professionisti e accessibile da ogni Stato membro. 
La piattaforma elettronica, in effetti, collegherà tutti gli organismi deputati alla risoluzione alternativa delle controversie presenti nei ventotto Paesi mediante un sito internet interattivo e di utilizzo intuitivo disponibile in tutte le lingue ufficiali dell'Unione europea. 
La piattaforma, più precisamente, consentirà agli utilizzatori di reperire le informazioni sulla risoluzione alternativa delle controversie tra consumatori e professionisti derivanti da inadempimento dei contratti di vendita di beni o fornitura di servizi, permetterà di inoltrare reclami attraverso la compilazione di un apposito modulo allegando i documenti necessari, provvederà ad inoltrare il suddetto reclamo all'organismo competente, gestirà l'intera procedura telematicamente.


Fonte: La risoluzione alternativa delle controversie e la tutela dei consumatori a livello europeo. Novità con l'arrivo del nuovo anno
(www.StudioCataldi.it) 

giovedì 5 febbraio 2015

Condominio: Con il rent to buy sono obbligate tutte e due le parti (da il Sole24 Ore)

Articolo da Il Sole 24Ore:

Come deve comportarsi l’amministratore di condominio quando una delle unità immobiliari comprese nell’edificio sia oggetto di un contratto di rent to buy? Chi va convocato alle assemblee, il concedente o il conduttore? A chi dei due va chiesto il pagamento delle spese per la conservazione o il godimento delle parti comuni o per la prestazione dei servizi condominiali?
L’articolo 23 del Dl 133 del 2014 (il cosiddetto «Sblocca Italia») ha dettato la «Disciplina dei contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili». Si tratta di operazione, diversa dal leasing, abitualmente denominata “rent to buy”, che prevede l’immediata concessione del godimento di un immobile, con diritto per il conduttore di acquistarlo entro un termine determinato imputando al corrispettivo del trasferimento la parte di canone indicata nel contratto.
L’articolo 23 del Dl 133/2014 afferma che si applicano al rent to buy, nei limiti della compatibilità, gli articoli da 1002 a 1007 nonché gli articoli 1012 e 1013 del Codice civile, in tema di obblighi nascenti dall’usufrutto, in maniera da sottolineare la diversità rispetto alla locazione in senso stretto. Al contratto di rent to buy non devono, piuttosto, estendersi le discipline speciali dettate per le locazioni: queste non sono invocabili, infatti, per un rapporto negoziale, come il rent to buy, nel quale il godimento di un immobile è concesso nell’ambito di una complessa operazione economica, e una quota dei canoni, predefinita in sede contrattuale, va imputata a corrispettivo della successiva vendita e perciò restituita in caso di mancato esercizio del diritto di acquistare la proprietà dell’immobile.
Comunque, è certo che la concessione di un’unità immobiliare in rent to buy va comunicata per iscritto all’amministratore di condominio entro sessanta giorni dalla stipula del contratto, dovendo il nome del conduttore essere annotato nel registro dell’anagrafe condominiale ai sensi dell’articolo 1130, n. 6 del Codice civile (al pari di tutti gli altri proprietari, diritti reali o personali di godimento su parti esclusive).
Il conduttore di rent to buy, in base all’articolo 1130 bis del Codice civile, può poi prendere visione ed estrarre copia dei documenti giustificativi delle spese inserite nel rendiconto.
Alla luce della diversità funzionale dell’operazione dalla locazione in senso stretto, nonché della volontà legislativa di richiamare in parte la disciplina del Codice civile sull’usufrutto, non dovrebbero operare per il conduttore in rent to buy gli articoli 9 e 10 della legge 392/78, quanto alle spese dovute dagli inquilini nei rapporti coi locatori e alle assemblee di condominio allargate, per determinate materie, alla partecipazione degli stessi.
Tra le disposizioni cui l’articolo 23 del Dl Sblocca Italia fa rinvio ci sono gli articoli 1004 e 1005 del Codice civile, che regolano gli obblighi nascenti dall’usufrutto, ordinari e straordinari, nei rapporti interni fra nudo proprietario e usufruttuario. Non sono invece espressamente richiamate nella disciplina del rent to buy le norme sui rapporti tra nudo proprietario, usufruttuario e amministrazione condominiale, inserite dalla Riforma del condominio nei commi 6, 7 e 8 dell’articolo 67, Disposizioni attuazione del Codice civile. Se ci si convincesse, tuttavia, della loro estensibilità, vista l’assimilazione comunque voluta dal legislatore all’assetto codicistico dell’usufrutto, proprietario e conduttore in rent to buy sarebbero entrambi necessariamente destinatari dell’avviso di convocazione per le assemblee di condominio, ma soltanto il conduttore voterebbe negli affari che attengono all’ordinaria amministrazione, mentre il proprietario avrebbe diritto di voto nelle restanti deliberazioni: per le spese, infine, sarebbe sostenibile il pagamento solidale dei contributi dovuti, attinenti all’ordinaria come alla straordinaria amministrazione.
In ogni caso, il proprietario dell’immobile concesso in rent to buy rimane obbligato solidalmente col conduttore per le spese condominiali pure dopo l’esercizio del diritto di acquisto da parte di quest’ultimo, fino al momento in cui trasmette all’amministratore copia autentica del titolo che determina la vendita definitiva, in forza del comma 5 dell’articolo 63, delle Disposizioni attuazione del Codice civile. 
Antonio Scarpa

mercoledì 4 febbraio 2015

Ripartizione spese per la colonna di scarico

Nel condominio in cui vivo lo scorso mese abbiamo dovuto sostituire un pezzo della colonna di scarico che s'era rotto.
L'amministratore ha chiesto le somme per pagare la ditta ripartendo la fattura in parti uguali: dice che la colonna è tutti e quindi tutti dobbiamo pagare e non c'è motivo di pagare diversamente.
Secondo me non è proprio così e poi ci sono pure delle unità immobiliari, le cantine al piano interrato, che nemmeno usufruiscono della colonna e pure le ha inserite nel conteggio. Chi ha ragione?
La risposta è secca: sbaglia l'amministratore, vediamo perché.
In condominio c'è ancora ci s'intestardisce a utilizzare il criterio di ripartizione in parti uguali come un criterio legislativamente previsto.
Molti di quelli che teorizzano l'esistenza di questo criterio lo fanno prendendo come riferimento normativo il secondo comma dell'art. 1123 c.c, che recita:
Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell'uso che ciascuno può farne.
Leggendo attentamente la norma si evince subito che si parla "cose destinate a servire i condomini in misura diversa", quindi l'esatto contrario della suddivisione in parti uguali.
Fatta questa doverosa premessa è utile, per rispondere alla domanda del nostro lettore, comprendere a che titolo sono dovute le spese condominiali, in particolar modo le spese inerenti la conservazione delle cose comuni.
La Cassazione, quand'è intervenuta sull'argomento, ha sempre affermato che "le obbligazioni dei condomini di concorrere nelle spese per la conservazione delle parti comuni si considerano obbligazioni propter rem, perché nascono come conseguenza della contitolarità del diritto sulle cose, sugli impianti e sui servizi comuni. Alle spese per la conservazione per le parti comuni i condomini sono obbligati in virtù del diritto (di comproprietà) sulle parti comuni accessori ai piani o alle porzioni di piano in proprietà esclusiva. Pertanto, queste obbligazioni seguono il diritto e si trasferiscono per effetto della sua trasmissione" (Cass. 18 aprile 2003 n. 6323).
Tizio deve pagare le spese condominiali in quanto proprietario dell'appartamento; la suo trasferimento perderà questa qualità che diverrà del nuovo condomino.
La misura delle spese è indicata dall'art. 1123 c.c. che fa riferimento a tre criteri:
a) il criterio di suddivisione delle spese in base ai millesimi di proprietà, al primo comma;
b) il criterio di ripartizione in base all'uso, di cui gli artt. 1124 e 1126 rappresentano una specificazione (art. 1123, secondo comma, c.c.);
c) la suddivisione delle spese in ragione di un accordo tra tutti i condòmini (la diversa convenzione di cui al primo comma).
Il terzo comma della norma in esame, infine, sia pur senza introdurre uno specifico criterio di ripartizione differente da quelli sopra enucleati, specifica che "qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condòmini che ne trae utilità".
Si tratta del così detto condominio parziale; una colonna di scarico in uso solamente ad una parte dei condòmini è una parte comune solamente a quei comproprietari che ne traggono utilità.
Conseguenza di tale considerazione è che la spesa per la sua conservazione dev'essere sostenuta solamente dai condòmini che la utilizzano, sulla bade dei millesimi di proprietà, trattandosi di costo per la conservazione di quel bene.




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martedì 3 febbraio 2015

Ma la qualità non può essere gratuita (da Sole 24Ore e mondoadr.it)

Dal Sole 24 Ore, l’articolo di Giuseppe De Palo:
“Proseguirà la sperimentazione della “nuova mediazione”, come il TAR Lazio ha definito la procedura per risolvere le liti civili fuori dai tribunali riscritta dal Decreto del fare. Secondo i giudici amministrativi, chiedere ai litiganti di provare prima a risolvere alcuni tipi di controversie con l’ausilio di un terzo neutrale non viola il principio del libero accesso alla giustizia, e anzi contribuisce a migliorarne il funzionamento.
La sentenza, però, ha sorpreso un po’ tutti stabilendo anche che il primo incontro di mediazione – per offrire il quale sono comunque necessarie significative risorse, organizzative e di personale – debba essere interamente gratuito. La reazione negativa di tutti gli organismi di mediazione, inclusi quelli forensi, non può essere banalizzata per almeno due motivi. Primo, è contraddittorio esigere un servizio professionale di qualità  e gratis. Secondo, la sentenza contraddice, senza motivazione alcuna sul punto, una circolare del Ministero della giustizia che distingueva nettamente le spese di avvio di 40 euro (sempre dovute) dal compenso (dovuto solo in caso di proseguimento oltre il primo incontro) per il tentativo di conciliazione.
Il danno però ora è fatto, e per rimediare rapidamente il Ministero non potrà che chiedere al Consiglio di Stato la riforma e prim’ancora la sospensione della sentenza, pena il possibile crollo di quella infrastruttura di mediazione il cui necessario funzionamento per la giurisdizione nel suo complesso – sono parole dello stesso Tar – ha legittimato l’urgenza del Decreto del fare.
Ma affidarsi a Palazzo Spada perché aggiusti la normativa vigente non può bastare. Sono ancora tante le mediazioni in cui una parte non si presenta; o si presentano entrambe, ma per abbandonare subito il tavolo. Per porre rimedio a questo problema, alcuni giudici negano la facoltà delle parti di porre liberamente termine alla procedura durante il primo incontro, basandosi su un’ambiguità del dettato normativo. L’obiettivo di questa giurisprudenza è giusto, ma occorre adeguare le norme per rimuovere ogni dubbio interpretativo.
Se non può fare di più, il governo approfitti dell’occasione per due interventi normativi. Primo: stabilire requisiti basilari di partecipazione in buona fede, tra cui la presenza necessaria di un decisore con poteri adeguati, in aggiunta a quella dell’avvocato. Secondo: tornare al Decreto del fare, che prevedeva per il primo incontro di mediazione un esborso forfetario assai contenuto, senza confusione (e ipocrisia) tra spese e onorari. Per quanto limitato, l’esborso iniziale indurrà le parti a impegnarsi di più nel primo incontro, oltre a risolvere il paradosso della gratuità di un servizio professionale (questa sì, molto probabilmente, una regola incostituzionale). Paradosso crescente ora che proprio il Tar, oltre alla costituzionalità, ha sancito la legittimità degli standard qualitativi della mediazione, rigettando anche tutte le contestazioni dei ricorrenti relative al DM 180/2010.
Quasi una mediazione su due ha successo, quando le parti restano al tavolo con il mediatore. I dati del Ministero sono incontestabili. Si pensi ai risultati possibili con un quadro normativo della mediazione ancora migliore, e ai danni per il sistema della giustizia civile se l’attività di mediazione, degli organismi pubblici e privati, dovesse di colpo bloccarsi.
Giuseppe De Palo
Presidente Adr center ”

Quando è (o non è) possibile la revisione del regolamento condominiale? Fonte www.condominioweb.com

Nel condominio in cui vivo, una norma del regolamento specifica che l'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale debba essere inviato ai condòmini almeno sette giorni prima della data fissata per la prima convocazione.
Siccome la maggior parte dei condòmini vive fuori città, allungare questo termine sarebbe utile per tutti: come fare?
Nel condominio in cui sono proprietario di un'unità immobiliare, una norma del regolamento specifica che l'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale debba essere inviato ai condòmini almeno cinque giorni prima della data fissata per la prima convocazione, mi sa proprio come dice la legge.
Da quando è entrata in vigore la riforma, tutti noi condòmini ci siamo dotati di casella di posta elettronica certificata e riceviamo in questo modo avvisi dell'amministratore a quell'indirizzo. Cinque giorni, quindi, ci sembrano esagerati, nei casi urgenti: possiamo ridurre il termine?
Si tratta di due ipotesi nelle quali risulterebbe utile la variazione (tecnicamente revisione) del regolamento condominiale; eppure solamente nella primo caso portato ad esempio è possibile addivenirvi. Vediamo perché.
Revisione del regolamento condominiale
Partiamo dal potere d'iniziativa per la revisione del regolamento. Il secondo comma dell'art. 1138 c.c. specifica che:
Ciascun condomino può prendere l'iniziativa per la formazione del regolamento di condominio o per la revisione di quello esistente.
Questa iniziativa può consistere;
a) nella semplice richiesta all'amministratore di convocazione dell'assemblea;
b) nella richiesta di convocazione con contestuale proposizione della specifica modifica da apportare allo “statuto” vigente.
A ben vedere oltre che d'iniziativa dei condòmini, il regolamento può essere variato anche su iniziativa dell'amministratore; a questo, infatti, spetta il potere/dovere di curare l'osservanza del regolamento e di fare in modo che a tutti i condòmini sia garantire la migliore fruizione dei servizi comuni. Per fare ciò nel migliore dei modi potrebbe essere utile modificare il regolamento, ad esempio prevedendo delle sanzioni o modificando una norma mal scritta, ecc. La distinzione delle clausole del regolamento contrattuale
In ogni caso per la revisione del regolamento è necessario che si adotti la forma scritta (cfr. Cass. SS.UU. 30 dicembre 1999 n. 943) ed è indispensabile, come minimo, il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all'assemblea ed almeno la metà del valore millesimale dell'edificio (cfr. art. 1138 c.c.).
S'è detto in principio che dei due esempi riportati solamente nel primo caso si potrà modificare il termine intercorrente tra comunicazione dell'avviso di convocazione e prima data dell'assemblea.
Il motivo va rintracciato nella diversa natura della modificazione.
Nel primo caso, infatti, aumentare il tempo minimo previsto dalla legge (cinque giorni art. 66, terzo comma, disp. att. c.c.) è operazione considerata modificativa ma non derogatoria di una norma inderogabile ai sensi dell'art. 72 disp. att. c.c. Come dire: siccome la si migliora è possibile modificarla.
Nella seconda ipotesi, invece, la diminuzione dei giorni liberi tra comunicazione dell'avviso e prima convocazione sarebbe considerato intervento derogatorio e ciò non sarebbe possibile per i motivi spiegati sul finire del precedente periodo.




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lunedì 2 febbraio 2015

Diritti. Mediatori promossi. E ora pensano in grande (fonte: Corriere Economia)

Proposta l'estensione della procedura nei Tribunali delle imprese e per tutti i contratti commerciali. Ma...

Fine della guerra di carte bollate. Per ora. Dopo cinque anni, la mediazione 
delle controversie civili ha ottenuto pieno via libera dal Tar Lazio, che ha ritenuto legittimo non solo il nuovo impianto normativo, ma persino la sua re-introduzione in via di urgenza con il Decreto del Fare. 

Numeri a confronto. A esultare stavolta sono i sostenitori della mediazione che proprio qualche giorno fa avevano incassato la critica del presidente della Cassazione. Nella relazione d`inaugurazione dell`anno giudiziario, infatti, si sanciva l`inefficacia dello strumento visto che solo il 10% delle mediazioni avviate termina con un accordo, perché molti ancora non accettano l'invito a recarsi di fronte al mediatore, o se lo fanno decidono di abbandonare subito il percorso conciliativo.

Sui numeri si gioca gran parte del dibattito sull'efficacia della mediazione: i detrattori lo considerano uno strumento inefficace nello sveltire la macchina giudiziaria e portano a sostegno i numeri esigui di mediazioni andate a buon fine. Una valutazione che però conterrebbe un errore statistico macroscopico, secondo Giuseppe De Palo, presidente di A& Center: «Il tango si fa in due, e la mediazione (almeno) in tre: assurdo quindi considerare fallite delle procedure mai effettivamente avviate, o dove addirittura sono presenti il mediatore e una sola delle parti. Per accrescere la partecipazione alla procedura, si pensi a incentivi e sanzioni più adeguati». 

In effetti, quando le parti sono rimaste al tavolo con il mediatore, la soluzione bonaria della lite si è trovata quasi una volta su due, anche se i numeri assoluti non sono di grande rilevanza. «È la dimostrazione che lo strumento, se usato correttamente, funziona continua De Palo - perché il risparmio 
collettivo derivante dalle mediazioni di successo è assai superiore ai costi aggiuntivi di quelle non riuscite. Inoltre, senza tentativo di conciliazione preliminare quegli accordi non ci sarebbero mai stati, perché se i litiganti sono finiti davanti al mediatore, evidentemente l`accordo tra loro e i rispettivi avvocati non era stato trovato». 

Il rilancio. Incassata la sentenza del Tar, i mediatori adesso rilanciano e propongono di estendere il campo della mediazione, come passaggio preliminare rispetto al processo.

La commissione Giustizia della Camera, in sede di conversione in legge del Decreto del fare, aveva tentato di includere nella mediazione le materie di competenza dei tribunali delle imprese e tutti contratti commerciali. 
Adesso i tempi sono maturi? Forse, considerato che si registrano aperture anche tra gli avvocati: per Andrea Zanello, membro del direttivo dell'Anf, il potenziamento della mediazione è ora scontato, visti i limiti dei nuovi strumenti deflattivi del contenzioso civile messi in campo dal Decreto legge 132/2014. «A diversi mesi dalla sua conversione in legge - afferma Zanello - non mi risulta che sia stato ancora avviato un solo arbitrato presso i consigli forensi. È vero, mancano ancora delle norme complementari, ma soprattutto non si vede l`interesse della categoria e dei litiganti». 

Prospettiva europea. La mediazione viene proposta dunque come soluzione alternativa agli strumenti di arbitrato e negoziazione assistita (appena varati dal governo) sollevando dubbi sull'efficacia di questi strumenti per risolvere le liti fuori dai tribunali. Per esempio, per quanto riguarda la negoziazione assistita, si sollevano dubbi di costituzionalità nella sua versione obbligatoria (cosa che per altro era accaduta anche per la stessa mediazione). 

Invece sull'arbitrato dei consigli forensi e sulla negoziazione assistita,che nelle dichiarazioni del ministro Orlando dovrebbero smaltire centinaia di migliaia di cause civili all'anno, è invece nota la netta stroncatura dell'Anm. 

Sponsor del potenziamento della mediazione in Italia potrebbe essere il Parlamento europeo, che affronterà il tema al prossimo Forum sulla giustizia civile, a cui partecipano i rappresentanti dei 28 stati membri. In quell'occasione verrà presentato il nuovo rapporto dell`emiciclo di Strasburgo sull`impatto della Direttiva europea in materia di mediazione.

Il rapporto dello scorso anno, valse una lettera di congratulazioni da Bruxelles all'allora ministro della giustizia Cancellieri. Quest'anno i mediatori sperano in qualcosa di più. 

ISIDORO TROVATO
 (fonte: Corriere Economia)