giovedì 30 aprile 2015

Infiltrazioni da terrazza a livello: il risarcimento va richiesto a tutti i condomini

Legittimato passivo dell'azione risarcitoria è l'amministratore di condominio
Nel caso di specie, il proprietario dell'appartamento sottostante la terrazza a livello lamentava la sussistenza di danni da infiltrazioni – provenienti anche da detta terrazza – all'interno della propria abitazione. Proponeva dunque azione risarcitoria nei confronti del Condominio, nella persona dell'amministratore condominiale.
Funzione del lastrico solare e legittimazione passiva del condominio La controversia in questione ha consentito all'organo giudicante – il quale ha accolto la domanda principale, condannando il Condominio al risarcimento – di cogliere una serie di punti di attenzione. Il Tribunale ha in primo luogo confermato la corretta proposizione dell'azione in questione nei confronti del condominio, in persona dell'amministratore condominiale, in virtù dell'equiparazione al lastrico solare della terrazza a livello qualora essa assuma anche funzioni di copertura (Cass. civ., 27 luglio 2004, n. 15702; Cass. civ., 15 luglio 2003, n. 11029, richiamate in motivazione). Il giudice ha dunque rammentato che, svolgendo il lastrico solare funzione di copertura, anche nell'ipotesi in cui appartenga in proprietà superficiaria o sia attribuito in via esclusiva ad uno dei condomini, alle spese di riparazione o ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo, secondo le proporzioni fissate dall'art. 1126 c.c. E tutti i condomini, per la medesima ragione e secondo le medesime quote, dovranno altresì concorrere al risarcimento dei danni: « La relativa azione, pertanto – conclude sul punto il Tribunale –, va proposta nei confronti del condominio, in persona dell'amministratore – quale rappresentante di tutti i condomini obbligati – e non già del proprietario o titolare dell'uso esclusivo del lastrico, il quale può essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto ove frapponga impedimenti all'esecuzione dei lavori di manutenzione o ripristino, deliberata dagli altri obbligati, e al solo fine di sentirsi inibire comportamenti ostruzionistici od ordinare comportamenti di indispensabile cooperazione, non anche al fine di sentirsi dichiarare tenuto all'esecuzione diretta dei lavori medesimi (Cass. civ., sez. II, 22 marzo 2012, n. 4596)».
Una norma “speciale” Si rammenta che, accanto ai criteri di cui all'art. 1123 c.c., il codice civile enuncia una serie di disposizioni (artt. 1124-1126) in materia di ripartizione delle spese inerenti parti comuni specificamente individuate. L'art. 1126 c.c. riguarda, in particolare, il “lastrico solare”, consistente nella struttura di copertura dell'edificio, la quale differisce dal tetto perché costituita da una superficie “in piano” – il secondo è, invece, a forma inclinata e/o arcuata (a falde). Si deve però chiarire che l'art. 1126 c.c. si riferisce al lastrico solare in uso esclusivo, il cui diritto di uso spetti, cioè, solo ad un condomino o ad alcuni di essi: nel caso in cui detta copertura sia “comune” a tutti i condomini deve infatti applicarsi la ripartizione di cui all'art. 1123, comma 1, c.c. (ossia, a millesimi di proprietà), al pari del tetto comune. La ratio del criterio di ripartizione delle spese posto dall'art. 1126 c.c. è riconducibile alla duplice funzione che il lastrico solare svolge:
· copertura dell'edificio per tutti i condomini;
· area fruibile a favore del titolare (o dei titolari) del relativo uso esclusivo.
La doppia utilità trova dunque rappresentazione e disciplina proprio nella previsione secondo cui le spese devono essere poste per un terzo a carico del titolare dell'uso esclusivo, e per i restanti due terzi a carico dei proprietari delle unità immobiliari cui il lastrico “serve” – una ripartizione la cui misura è peraltro fissata direttamente dalla legge e che l'assemblea dei condomini non potrebbe derogare con una delibera assunta solo a maggioranza. Con specifico riguardo all'art. 1126 c.c., nella pronuncia in questione il Tribunale rammenta peraltro che essa, in realtà, «valorizza la posizione di chi ha l'uso esclusivo del lastrico solare, anche se tale posizione non può che valere nei rapporti interni, in sede specifica di ripartizione delle spese e non nel presente giudizio», nel quale – si ribadisce – unico legittimato resta il condominio.
La responsabilità da cose in custodia Il Tribunale, accertata la legittimità passiva del condominio, ha considerato operante nel caso di specie il disposto di cui all'art. 2051 c.c., il quale dispone che chiunque abbia in custodia una cosa, che provochi un danno a terzi, è responsabile di quanto verificatosi, sempre che non provi che è avvenuto per caso fortuito. Il giudice ha ricordato che «ai fini dell'attribuzione della responsabilità prevista dall'art. 2051 cod. civ. sono necessarie e sufficienti una relazioni tra la cosa in custodia e l'evento dannoso nonché l'esistenza dell'effettivo potere fisico su di essa da parte del custode, sul quale incombe l'obbligo di vigilarla e di mantenere il controllo onde evitare che produca danni a terzi.
Ne consegue che il custode convenuto è onerato di offrire la prova contraria alla presunzione iuris tantum della sua responsabilità mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causale autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta eccezionalità. […] per l'applicazione della disciplina stabilita dalla norma occorre altresì che la cosa dalla quale è derivato il danno sia, nel momento in cui si è verificato, nella custodia del soggetto chiamato a risponderne». La giurisprudenza ha peraltro ritenuto che, qualora il danno sia stato causato da colpa, da incuria o da negligenza del proprietario della terrazza a livello, a questi spetta risarcire l'intero danno cagionato (Cass. civ., 8 novembre 2007, n. 23308).
In definitiva, i criteri di ripartizione di cui all'art. 1126 c.c. trovano applicazione anche in materia di risarcimento dei danni causati da difetto di manutenzione, non potendo gli stessi essere posti interamente a carico del proprietario o usuario del lastrico (in tal senso, si veda anche Cass. civ., 17 maggio 1994, n. 4816): pertanto, dei danni provocati da infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico solare, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti i soggetti inadempienti gravati alla funzione di conservazione, ossia i condomini cui il lastrico serve da copertura, in proporzione dei 2/3, ed il titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo, in ragione delle altre utilità, nella misura di un terzo (Cass. civ., n. 4596/2012 cit.).
Va però rilevato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il disposto dell'art. 1126 c.c. riguarda le riparazioni dovute a vetustà, e non quelle riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell'opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario: in tale ipotesi, ove si tratti di difetti suscettibili di recare danno a terzi, la relativa responsabilità farà carico esclusivamente al proprietario, ex art. 2051 c.c., e non anche, in concorso, al condominio (Cass. civ., 15 aprile 2010, n. 9084).



www.condominioweb.com 

giovedì 23 aprile 2015

C’è differenza tra mediazione demandata e mediazione rinviata dal giudice (Fonte: www.diritto.it)


Nonostante, almeno in questo, la legge sia abbastanza esplicita, molti colleghi avvocati e mediatori, responsabili di Organismi compresi, non hanno ancora chiara la distinzione tra mediazione come condizione di procedibilità e mediazione demandata dal giudice. Cerchiamo di fare le dovute differenze, sia ai fini teorici e pratici, sia terminologici e formali.

L’articolo di riferimento è l’art. 5 del D.Lgs. n.28/2010, come tutti ormai sanno, ritenuto illegittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 272/2012 per eccesso di delega e ripristinato con il Decreto del Fare n. 69 del 21 giugno 2013, convertito in Legge n. 98 del 9 agosto 2013.
Così come nel testo originario, il comma 1, anzi adesso 1bis, prevede l’elenco delle materie per le quali è necessario (condizione di procedibilità), prima di agire in giudizio, passare per la mediazione e tentare una conciliazione amichevole (c.d. mediazione obbligatoria). Se, per varie ipotesi, non si tenta la mediazione prima del deposito dell’atto di citazione e si giunge, quindi davanti al giudice in prima udienza, o la parte convenuta può “eccepire” il mancato esperimento della condizione di procedibilità o può “rilevarlo” il giudice d’ufficio (ex lege) e dare alle parti il termine di 15 giorni e tre mesi per procedere al tentativo di mediazione, rinviando il processo.
Soprattutto nei primi tempi, era abbastanza frequente che, verificatesi queste circostanze, stranamente, né la parte convenuta eccepiva, né il giudice rilevava la mancata condizione di procedibilità e, prevedendo la norma una “sanatoria” nel caso si superasse la prima udienza, il processo andava avanti nonostante non si fosse tentata la mediazione. Dato il perseverare di questa prassi è intervenuto il legislatore introducendo il comma 6bis all’art. 5, con il D.L. n. 212/2011,
poi però soppresso in sede di conversione. La norma così diceva:
“Il capo dell’ufficio giudiziario vigila sull’applicazione di quanto previsto dal comma 1 e adotta, anche nell’ambitodell’attività di pianificazione  ogni iniziativa necessaria a favorire l’espletamento della mediazione su invito del giudice …. e ne riferisce, con frequenza annuale, al ConsiglioSuperiore della Magistratura ed al Ministro della Giustizia”.


Con l’introduzione di questa sorta di controllo sulla condotta dei magistrati, per i 60 giorni di vigenza, il comportamento e l’attenzione da parte dei giudici sul mancato esperimento della condizione di procedibilità è diventato ineccepibile e in ogni caso di dimenticanza o disattenzione degli avvocati, supplivano i giudici con la rilevabilità d’ufficio. Nonostante la norma sia venuta meno, l’impegno dei magistrati è proseguito ed oggi difficilmente si supera la prima udienza senza il tentativo di mediazione.
Diversa via per introdurre la mediazione è invece quella prevista dal comma 2 dell’art. 5, detta mediazione demandata o ex officio iudicis. Dice la norma che, anche in sede d’appello, ma prima dell’udienza della precisazione delle conclusioni, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruttoria e il comportamento delle parti, il giudice può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione, rendendolo condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Rispetto alla norma originaria che prevedeva un “invito” del giudice (c.d. mediazionedelegata) alle parti che potevano quindi rifiutare, adesso se il giudice demanda, le parti “devono” tentare la mediazione. Anche in questi casi di parla di mediazione obbligatoria e il tentativo diventa condizione diprocedibilità, ma è una obbligatorietà non derivante dall’oggetto/materia della controversia, ma da una valutazione da parte del giudice. È giurisprudenza ormai convalidata che in questi casi, quindi di rinvio ex comma 2, il giudizio sulla “mediabilità” che si dovrebbe valutare al primo incontro informativo previsto dall’art. 8, è già stato fatto dal giudice stesso prima di decidere di demandare, per cui è prassi saltare il primo incontro ed entrare direttamente in mediazione per tentare, realmente e non solo formalmente, di trovare un accordo amichevole alla controversia (Trib. di Firenze, 19 marzo 2014; Trib di Roma, 19 settembre e 29 settembre 2014; Trib. di Palermo, 23 luglio 2014; Trib. di Monza, 20 ottobre 2014; Trib. di Siracusa, 23 gennaio 2015).
Altro caso possibile e molto frequente è quello di rinvio in mediazione da parte del giudice all’udienza per la pronuncia sulle istanze di concessione o sospensione della provvisoria esecuzione nei procedimenti d’ingiunzione. Più semplicemente: si fa istanza di decreto ingiuntivo per la quale non è prevista la mediazione obbligatoria (art. 5, comma 4, lett.a)), una volta concesso la controparte può fare opposizione, quindi il giudice fissa l’udienza per pronunciarsi sulla esecutorietà da attribuire o meno al decreto. In questa sede, ritorna obbligatorietà del tentativo di mediazione come condizione di procedibilità del processo per cui il giudice rinvia l’udienza e assegna alle parti i 15 giorni e i tre mesi per l’esperimento della mediazione.
Tralasciando i dibattiti dottrinari e giurisprudenziali su chi abbia la titolarità/legittimità e responsabilità per le conseguenze di avviare il procedimento di mediazione (è prevalente l’opinione che vede l’opponente come obbligato in primis ad esperire il tentativo di mediazione, in quanto parte sostanziale del giudizio avviato con l’opposizione), l’equivoco nasce nel non capire che i rinvii in mediazione da parte del giudice in questi casi, non sono da annoverare nella mediazione demandata o ex officio prevista dal comma 2, ma semplicemente nella mediazione obbligatoria e condizione di procedibilità ex comma 1bis, solo che l’avvio è stato posticipato a questo momento.
Qual è l’importanza di questa catalogazione?
Chiamare le cose col proprio nome serve a comprendere meglio cosa dobbiamo affrontare, come comportarci e come gestire la situazione. In base al tipo di mediazione che abbiamo davanti possiamo capire se dover svolgere o meno il primo incontro informativo, se è possibile fermarsi o meno al primo incontro gratuito, decidere se entrare in mediazione e pagare le indennità o fermarsi alle spese di avvio, tutti aspetti che dai diversi punti di vista del mediatore, dell’avvocato, della parte, dell’Organismo di mediazione hanno la loro rilevanza. Se a prima vista, dunque, la differenza terminologica o il richiamo normativo non sembrano importanti, nella pratica gestionale e procedurale lo sono e come: è importante per il mediatore che deve avere chiara la situazione e capire come svolgere il primo incontro; è importante per l’Organismo di mediazione per preventivare i possibili guadagni e predisporre le fatturazioni; è importante per le parti che devono sapere come comportarsi in mediazione (presentarsi, non presentarsi, delegare) e in che termini il loro comportamento potrebbe essere valutato dal giudice quando e se si ripresenteranno davanti a lui; è importante per gli avvocati di parte per poter consigliare al meglio il cliente e stabilire insieme la strategia più conveniente in termini di costi, tempi e vantaggi; è importante per il Ministero di giustizia per l’individuazione delle corrette percentuali ai fini statistici e per le valutazioni che dovrà fare periodicamente sull’istituto; infine è importante anche per il giudice stesso che una volta ritrovate le parti in udienza, dovrà capire i passaggi che si sono nel frattempo svolti, la disponibilità o meno all’accoglimento del suo invito, la partecipazione personale o solo formale delle parti alla mediazione, l’eventuale assenza giustificata o ingiustificata, per agire di conseguenza con l’utilizzo degli strumenti processuali che ha a sua disposizione (sanzioni, rinvii nuovamente in mediazione, condanna alle spese, condanna per lite temeraria, ecc…).
Chiarito che in tutti questi casi si tratta comunque di mediazione obbligatoria, originaria o successiva che sia, è bene tenere distinto il rinvio in mediazione da parte del giudice tra comma 1bis, comma 2 o comma 4, facilmente rilevabile dal verbale d’udienza o ordinanza che lo prevede.
L’idea di questo articolo nasce dopo aver osservato il lavoro dei colleghi, sia mediatori che avvocati di parte, molti dei quali hanno poche idee e molto confuse in materie. Ribadisco che la legge sulla mediazione è ancora fatta male, con lacune normative e dubbi interpretativi, ma nei pochi punti in cui è chiara, cerchiamo almeno di non complicarla noi!

mercoledì 22 aprile 2015

L'inquilino può essere nominato presidente o di segretario dell'assemblea? Fonte www.condominioweb.com

L'assemblea condominiale è quella sorta di autorità privata con poteri di decisione sulla gestione del parti comuni di un edificio in condominio; le sue decisioni sono obbligatorie per tutti i condòmini ed in generale per ogni soggetto che abita in condominio.
La legge (art. 1136, sesto comma, c.c.) specifica che all'assemblea devono essere inviati tutti gli aventi diritto; formula vaga, quest'ultima, che la riforma del condominio ha sostituito a quella più specifica di condomino.
Il conduttore, a dirlo è l'art. 10 legge n. 392/1978 (così detta legge sull'equo canone) ha sicuramente diritto di partecipare all'assemblea:
a) con diritto di voto, per le questioni concernenti il funzionamento dell'impianto di riscaldamento;
b) senza diritto di voto, per le questioni riguardanti l'uso degli altri beni comuni.
A chi spetti convocare l'inquilino è a tutt'oggi incerto. La giurisprudenza che ha affrontato la questione prima dell'entrata in vigore della riforma era per lo più orientata nel ritenere che “l'art. 10 della l. 27 luglio 1978 n. 392 che ribadendo sostanzialmente la disciplina già introdotta dall'art. 6 della l. 22 dicembre 1973 n. 841, prevede con norma eccezionale un'ipotesi di sostituzione legale del conduttore al proprietario nelle assemblee dei condomini convocate per deliberare sulle spese e modalità di gestione dei servizi di riscaldamento e di condizionamento d'aria, non ha comportato modificazioni al disposto dell'art. 66 disp. attuaz. c.c., che disciplina la comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea dei condomini, con la conseguenza che tale avviso deve essere comunicato al proprietario e non anche al conduttore dell'appartamento, restando solo lo stesso proprietario tenuto ad informare il conduttore dell'avviso di convocazione ricevuto dall'amministratore, senza che le conseguenze della mancata convocazione del conduttore possano farsi ricadere sul condominio, che rimane estraneo al rapporto di locazione" (Cass. 22 aprile 1992 n. 4802).
Come dire: è il proprietario ha doversi attivare per far partecipare il conduttore.
La locuzione aventi diritto utilizzata dall'art. 1136 c.c. potrebbe aver cambiato tale situazione (cfr. in senso possibilistico, A. Celeste – A. Scarpa, Le nuove norme in materia di assemblea e di amministrazione nella riforma del condominio, Giur. merito, fasc.6, Giuffré, 2013, contra M. Jerovante e D. Sibilio, La Riforma del condominio, Condominioweb, Ebook 2013).
Sta di fatto che in un modo o nell'altro, anche semplicemente per esservi stato delegato, il conduttore ha diritto di essere presente all'assemblea condominiale rispetto alle discussioni di suo interesse; tale sua presenza può trasformarsi in un ruolo più fattivo, ad esempio assumendo la carica di presidente (o di segretario) della riunione?
Il presidente ed il segretario, è utile ricordarlo, sono due figure che hanno compiti di direzione, controllo e verbalizzazione delle operazioni assembleari. Il presidente, ad esempio, verifica la ricorrenza dei quorum costitutivi e prim'ancora della corretta convocazione, ecc.
Tale attività di mera regolamentazione dello svolgimento della riunione non influisce direttamente sui diritti dei proprietari a tal punto da dover richiedere un diretto coinvolgimento degli interessati e quindi non sorgono dubbi sul fatto che il conduttore possa assumere l'incarico di presidente o segretario, con l'unica eccezione della diversa prescrizione contenuta nel regolamento di condominio.




Fonte http://www.condominioweb.com/perch%E8-%E8-il-proprietario-ha-doversi-attivare-per-far-partecipare.11785#ixzz3XxYJteUH 
www.condominioweb.com 

martedì 21 aprile 2015

Condominio: valida la nuova ripartizione delle spese solo se posta all’ordine del giorno (www.studiocataldi.it)

L’approvazione della nuova tabella di ripartizione delle spese condominiali è valida soltanto se posta all’ordine del giorno dall’assemblea, poiché tutti i condomini devono essere preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione.
Lo ha specificato il Tribunale di Trento, con la recente sentenza n. 1087/2014 accogliendo l’impugnazione di due condomini avverso la delibera dell’assemblea condominiale con la quale era stata approvata, dopo le modifiche apportate dall’amministratore sulla base di criteri individuati dall’assemblea precedente, la nuova tabella di ripartizione delle spese senza risultare all’ordine del giorno.
Per il Tribunale le doglianze dei condomini sono senz’altro fondate, poiché per la validità dell’approvazione della nuova tabella tutti i condomini, ex art. 1105, terzo comma, c.c., dovevano essere preventivamente informati dell’oggetto della deliberazione assembleare che quindi doveva essere posta all’ordine del giorno. Ai fini della sua validità, ha puntualizzato inoltre il Tribunale richiamando la giurisprudenza della S.C. (Cass. n. 21449/2010), l’ordine del giorno deve elencare specificamente, “sia pure in modo non analitico e minuzioso, tutti gli argomenti da trattare, si da consentire a ciascun condomino di comprenderne esattamente il tenore e l'importanza, e di poter ponderatamente valutare l'atteggiamento da tenere, in relazione sia alla opportunità o meno di partecipare, sia alle eventuali obiezioni o suggerimenti da sottoporre ai partecipanti”, mentre l’incompletezza dello stesso determina l’annullabilità della delibera condominiale (Cass. n. 143/2004).
Né può avere rilievo, ha concluso il Tribunale, che la nuova tabella di ripartizione delle spese si limitasse ad approvare quanto già deciso nella precedente assemblea, giacché nella stessa erano stati soltanto individuati i criteri da adottare per la modificazione dei millesimali i quali poi, come avvenuto, sarebbero serviti a predisporre le nuove tabelle da approvare definitivamente nella convocata assemblea, della quale, altrimenti, accogliendo le tesi del condominio, non ci sarebbe stato alcun bisogno. Su quest’assunto pertanto, il giudice ha accolto il ricorso dei condomini e annullato la delibera condominiale sul punto. 



Fonte: Condominio: valida la nuova ripartizione delle spese solo se posta all’ordine del giorno
(www.StudioCataldi.it)

venerdì 17 aprile 2015

Per installare una parabola sul balcone o sul tetto condominiale serve l'autorizzazione dell'assemblea? (www.studiocatald.it)

Domanda: Per installare una parabola sul balcone o sul tetto condominiale serve l'autorizzazione dell'assemblea?
Risposta: In linea generale il condomino e addirittura lo stesso inquilino (nel caso in cui vi sia un contratto di locazione) ha diritto di installare una parabola non solo sul proprio balcone ma anche sul tetto condominiale(dato che si tratta di una parte comune dell'edificio) e sul lastrico solare.

Sotto questo profilo non solo non serve l'autorizzazione dell'assemblea ma addirittura dovrebbe considerarsi nulla una eventuale delibera del condominio che dispone la rimozione dell'antenna che un condomino ha collocato sul tetto sul lastrico solare proprio perché va riconosciuto al singolo condomino il diritto a installare l'antenna con il solo limite di non arrecare pregiudizio all'uso del bene da parte degli altri condomini e di non danneggiare le parti comuni.

Ma attenzione: l'esercizio di questo diritto deve tenere conto di eventuali prescrizioni contenute nel regolamento condominiale che potrebbe contenere alcune limitazioni.

Il regolamento, infatti, ha natura negoziale e consente per questo di prevedere limiti all'utilizzo del bene comune anche se questi non sono indicati dalla legge.

E non basta: chi intende installare un'antenna parabolica deve tenere conto che il suo diritto all'utilizzo del bene comune non deve precludere lo stesso utilizzo da parte degli altri condomini.
Se ad esempio gli spazi utilizzabili sono ristretti e si va ad istallare un'antenna di dimensioni tali da impedire agli altri un analogo utilizzo, si andrebbe a compiere un atto non consentito.

Il principio generale è quello secondo cui "Nell'ambito delle facoltà di godimento attribuite a tutti i partecipanti al condominio vi è, innanzitutto, quella di natura generale insita nella comproprietà dei beni di servirsi liberamente delle parti comuni senza alternarne la destinazione né impedirne agli altri di farne analogo uso secondo il loro diritto (art. 1102, 1 comma, c.c.)".

Insomma l'antenna deve avere dimensioni tali da non impedire agli altri condomini di fare analogo utilizzo della parte comune dell'edificio.

Un altro aspetto di non minore rilievo è dato dalla necessità di procedere all'istallazione rispettando il decoro architettonico dell'edificio tenendo conto anche della sua struttura e della sua ubicazione.
Ad esempio il Tribunale di Milano con una sentenza del 25 ottobre 2001 aveva sancito che l'installazione di una parabola di notevoli dimensioni sulla facciata di un condominio lede il decoro dell'edificio ed p contraria ai criteri di utilizzo della cosa comune dettati dagli art. 1102 e 1120 del codice civile.


Fonte: Per installare una parabola sul balcone o sul tetto condominiale serve l'autorizzazione dell'assemblea? 
(www.StudioCataldi.it) 

giovedì 16 aprile 2015

Rinuncia alla quota di comproprietà: L’atto vale come donazione indiretta (Fonte Sole 24 Ore)



La rinuncia alla quota di comproprietà è stata presa in esame dalla Cassazione (sentenza n. 3819 del 25 febbraio 2015) sotto un particolare aspetto: e cioè se essa si possa configurare come una «donazione indiretta».
La risposta della Suprema corte è stata positiva. Per comprendere bene questo problema, occorre riflettere sulla motivazione che spinge un comproprietario a rinunciare alla propria quota. Spesso, chi rinuncia lo fa perché considera la quota rinunciata come una situazione fastidiosa, in quanto essa non provoca vantaggi, ma produce spese e responsabilità.
Non manca però il caso di chi rinuncia a una comproprietà con l’intento di beneficiare coloro che subiscono l’accrescimento della propria quota di comproprietà per effetto della altrui rinuncia: si pensi al caso dei coniugi, che siano comproprietari di un appartamento. Se uno di essi intenda fuoriuscire dalla comproprietà a beneficio dell’altro coniuge, si può percorrere senz’altro la strada della donazione (che è il metodo più “classico”), ma si può indubbiamente ricorrere anche alla rinuncia unilaterale alla quota di comproprietà, con l’effetto che l’altro coniuge, beneficiando della rinuncia, diviene proprietario esclusivo del bene in questione.
In quest’ultimo caso, dunque, ciò che attiva la rinuncia alla quota di comproprietà è l’intento di accrescere il patrimonio dei comproprietari (o del comproprietario) che beneficia dell’effetto espansivo della propria quota a causa dell’altrui rinuncia. In quest’ultimo caso si assiste dunque a una «donazione indiretta», vale a dire che, senza stipulare una «donazione diretta» (per tale si intende l’atto notarile di donazione, stipulato in presenza di due testimoni), si raggiunge lo stesso risultato, e cioè il depauperamento del patrimonio del donante e l’accrescimento del patrimonio del donatario, il tutto per spirito di liberalità.
Raggiungere lo stesso risultato di una donazione diretta mediante una indiretta (che è pur sempre un atto notarile – perché deve essere trascritto nei Registro immobiliari e volturato in Catasto – ma diverso dalla donazione tecnicamente intesa) ha un importante rilievo pratico, tenuto altresì conto che in questo caso la tassazione dei due atti è la stessa: infatti, è abbastanza sconsigliabile procedere alla donazione diretta di beni immobili, quando allo stesso risultato si possa pervenire mediante atti diversi, in quanto diventa indubbiamente assai complicata la circolazione di un bene che, nella sua “storia”, abbia avuto un passaggio per donazione diretta.
Questo perchè chi compra quell’immobile può avere il timore di vedersi coinvolto in cause ereditarie che insorgano tra gli stretti congiunti del donante, una volta che questi sia deceduto; inoltre, le banche nella massima parte dei casi rifiutano di prendere ipoteche su beni che siano stati oggetto di donazione e quindi non ne finanziano l’acquisto.
La donazione indiretta non fa sorgere queste complicazioni. Peraltro, la donazione indiretta, sotto ogni altro aspetto, ha la medesima regolamentazione di quella diretta: in entrambi i casi, dunque, si applicano le norme sull’azione revocatoria (qualora la rinuncia sia lesiva dei diritti dei creditori del rinunciante) e quelle sulla tutela dei legittimari del rinunciante, qualora la rinuncia comporti la violazione dei diritti di legittima di costoro.

martedì 14 aprile 2015

Cosa succede se si costruisce su un terreno di proprietà altrui? Il principio della cosiddetta "accessione" Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Domanda: Se si costruisce una casa su un terreno altrui, di chi è la proprietà?
Risposta: Qualunque sia il motivo che abbia indotto a costruire sul suolo altrui è bene sapere che per l’art. 934 del codice civile: "qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo".
Si tratta del principio della cosiddetta "accessione" in base al quale il suolo attrae tutto quello che vi è incorporato sopra.
Per cui, il proprietario del terreno diventa proprietario “ipso iure” (cioè immediatamente) di tutti i beni che si trovino sopra (o sotto) lo stesso (piantagioni, costruzioni, ecc.) essendovi “saldamente” connessi, in virtù proprio dell’istituto dell’accessione, la cui ratio è da rintracciarsi nella “forza espansiva” del diritto di proprietà.
Né sono influenti, ai fini dell’operatività dell’acquisto per accessione: la circostanza che l’opera sia compiuta da terzi o dallo stesso proprietario; la consistenza o la destinazione dell’opera stessa; la coincidenza o meno degli interessi dell’esecutore con quelli della collettività (Cass. n. 23798/2006).

Limiti dell'accessione

Tuttavia, la regola dell’accessione non riveste carattere di assolutezza, essendo limitata oltre che “dal titolo” o dalla “legge anche da una serie di eccezioni, contemplate dallo stesso art. 934 c.c., dirette a dirimere gli eventuali contrasti nascenti dalla realizzazione dell’opera con materiali altrui.
L’art. 935 c.c., ad esempio, disciplina la circostanza in cui le opere siano state eseguite dal proprietario del suolo con materiali di altri.
La disposizione codicistica, in tal caso, contempla due ipotesi: quella in cui la separazione dei materiali dall’opera realizzata non è richiesta dal proprietario degli stessi e quella in cui la separazione non possa farsi senza arrecare grave danno alla costruzione o senza che perisca la piantagione. 
Nel primo caso, non si ha automaticamente acquisto per accessione della proprietà delle opere, poiché il proprietario può rivendicare i materiali entro 6 mesi; nel secondo, l’acquisto della proprietà é automatico rimanendo, però, un effetto “obbligatorio” in capo al proprietario, il quale diversamente si arricchirebbe ingiustificatamente in danno altrui.
In entrambe le ipotesi il proprietario del suolo deve pagare il valore del materiale utilizzato e, anche laddove se ne disponga la separazione, se si ravvisa colpa grave, il risarcimento dei danni.

Opere costruite da un terzo con materiali propri

Il successivo art. 936 c.c. prevede l’ipotesi delle opere eseguite da un terzo con materiali propri.
Se si costruisce con materiali propri senza autorizzazione da parte del proprietario, quest'ultimo potrà scegliere o di trattenere l'opera pagando in tal caso un indennizzo pari (a sua scelta) al valore dei materiali e al prezzo della manodopera, oppure al maggior valore acquisito dal suolo. Se, però, il proprietario del terreno non vuole trattenere il bene, può obbligare chi lo ha costruito a demolirlo a sue spese oltre a chiedere il risarcimento del danno. Questa seconda possibilità è riconosciuta però soltanto se la costruzione è stata realizzata in malafede ossia nella consapevolezza che il suolo fosse di proprietà di terzi. In ogni caso la rimozione può essere domandata entro sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell’incorporazione.

Costruzione eseguita da un terzo con materiali altrui

L’art. 937 c.c., invece, prevede il caso in cui la costruzione sia stata eseguita da un terzo con materiali altrui.
In queste ipotesi, il proprietario può rivendicare i materiali (previa separazione a spese del terzo), soltanto se la separazione può ottenersi senza apportare gravi danni alla costruzione stessa e al fondo, entro il termine di decadenza di sei mesi dalla conoscenza dell’incorporazione.
Laddove la separazione dei materiali non sia richiesta o gli stessi siano inseparabili, sia il terzo che li ha utilizzati che il proprietario del suolo, in malafede, sono tenuti a pagare un’indennità pari al valore degli stessi al loro proprietario.
Quest’ultimo può anche rivolgersi per l’indennità al proprietario del suolo in buona fede, limitatamente però al prezzo che da questi sia ancora dovuto, nonché chiedere ad entrambi (sia al terzo che ha usato i materiali senza il suo consenso che al proprietario in malafede che ne abbia autorizzato l’uso) il risarcimento dei danni cagionati.

Costruzione parziale su fondo altrui

Un'altra ipotesi è quella in cui la costruzione sul fondo altrui è solo parziale.
Può accadere infatti che si stia costruendo sul proprio fondo e che in buona fede si sia sconfinati sull’attigua proprietà altrui.
In tal caso si applica il principio della cosiddetta “accessione invertita” disciplinata dall'art. 938 del codice civile.
Secondo la disposizione codicistica, il giudice può attribuire a chi ha costruito “in buona fede” la proprietà di una parte del fondo occupata, sempre che il proprietario di questo non faccia opposizione entro tre mesi dal giorno in cui ha avuto inizio la costruzione, obbligandolo contestualmente a pagare il doppio del suo valore oltre al risarcimento dei danni all’originario proprietario.
Diversamente dall’istituto dell’accessione ex art. 934 c.c., l’accessione invertita non opera, quindi, automaticamente, ma deve essere pronunciata dal giudice, il quale, tenuto conto delle diverse circostanze, emette, sul punto, sentenza costitutiva (cfr. Cass. n. 5381/2006).


Fonte: Cosa succede se si costruisce su un terreno di proprietà altrui? Il principio della cosiddetta "accessione" 
(www.StudioCataldi.it)

venerdì 10 aprile 2015

La Cassazione ancora sull'opponibilità del regolamento di Condominio Fonte:(www.StudioCataldi.it)

La Corte di Cassazione, con la Sentenza della Seconda Sezione Civile n. 5657 depositata in data 20 marzo 2015, enuncia una serie di principi in ordine alle modalità di approvazione del regolamento di Condominio nonché ai limiti di opponibilità del medesimo ai terzi acquirenti dell’unità immobiliare facente parte del complesso condominiale.
Tuttavia, se relativamente ad alcuni aspetti (id est l’invalidità di un mandato rilasciato dall’acquirente al venditore – costruttore avente ad oggetto l’approvazione dell’emanando regolamento) si registra un ampia e consolidata opinione di vedute (1), su altri (id est il ruolo decisivo della trascrizione del regolamento nel registro previsto dall’originario art. 1129 c.c.) (2) la conclusione accolta dagli Ermellini è a dir poco singolare.
La complessa vicenda analizzata nei giudizi di merito verteva, tra l’altro, sulla legittimità o meno di alcune clausole di un regolamento di condominio: dall’attore ritenute invalide, in quanto lesive dei diritti esclusivi del singolo condomino; dal convenuto reputate – invece – legittime, in quanto di natura contrattuale per esser le medesime state approvate in sede di acquisto delle singole unità immobiliari.
Prima, però, di entrare nel cuore della decisione del S.C. può essere utile una brevissima disamina in ordine all’istituto del Regolamento di Condominio, essendo pacifico ed assodato che nell’alveo della medesima locuzione siano – in realtà – enucleabili due distinte figure: il regolamento di Condominio c.d. proprio e il regolamento di Condominio c.d. contrattuale (o improprio che dir si voglia).
Il primo è quello contenente le norme circa l’uso delle parti comuni, la ripartizione delle spese, la tutela del decoro dell’edificio e l’amministrazione.
Il secondo, invece, è quello che incide sulla proprietà esclusiva del condomino ponendone dei limiti di godimento e/o utilizzo.
Detta distinzione è, seppur indirettamente, consacrata dall’art. 1138 quarto comma c.c. (3) nella parte in cui statuisce che le norme del regolamento (che a questo punto sappiamo essere quello c.d. proprio) “non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino” (che, invece, per interpretazione ovvia – a contrario - potranno essere intaccati da un regolamento c.d. contrattuale).
Dalla distinzione contenutistica di cui sopra (4) discendono sia un differente iter procedimentale di approvazione sia un diverso regime pubblicitario, in quanto: mentre il regolamento c.d. proprio può essere approvato a maggioranza e non deve (né può) essere trascritto nei Registri Immobiliari, quello c.d. contrattuale richiede il consenso di tutti i condomini (5) e deve essere trascritto nei Registri Immobiliari consistendo - in linea di massima - nel perfezionamento di una servitù (a carico della proprietà esclusiva di un proprietario ed a favore delle restanti parti comuni).
I Giudici del Palazzaccio, tuttavia, per dirimere la vertenza a favore dell’inopponibilità ai terzi delle contestate clausole del regolamento affermano anche “che non era stato nemmeno trascritto nell'apposito registro di cui all'art. 1129 c.c., u.c., secondo la previsione dell'art. 1138 c.c., comma 3, in modo da poter assolvere la funzione di pubblicità notizia per essere opponibile nei confronti di tutti i condomini”.
L’affermazione lascia a dir poco perplessi, non tanto perché nessuna norma attribuiva a tale registro una funzione di pubblicità dichiarativa, ma – soprattutto – in quanto l’associazione professionale dei proprietari dei fabbricati, presso la quale il regolamento si sarebbe dovuto conservare, è stata soppressa con il D.Lgs. n.369 del 23.11.1944, rendendo così inattuabile (in fatto ed in diritto) l’adempimento pubblicitario de quo.
Ne è derivato allora l’accoglimento del ricorso per asserita inidoneità del regolamento contrattuale ad essere opposto ai terzi: unica consolazione è che la mancata pubblicità presso un organismo inesistente non è stato, come si evince dalla stesura del Provvedimento, il solo argomento che ha indotto gli Ermellini all’accoglimento del ricorso.
(Autore: Avv. Gabriele Mercanti - Foro di Brescia - avv.gabrielemercanti@gmail.com - www.avvocatogabrielemercanti.it)
(1) Cfr. recentemente sul punto Cass. n. 8.606/2014.
(2) Il caso in commento riguardava una fattispecie perfezionatasi prima dell’entrata in vigore della Legge n. 220/2012 (c.d. riforma del Condominio) e, quindi, vigente l’art. 1138 terzo comma c.c. nella parte in cui statuiva che il regolamento di condominio dovesse essere “trascritto nel registro indicato dall’ultimo comma dell’art. 1129”; art. 1129 ult. comma c.c. che – a sua volta – faceva riferimento, seppur ad altri fini, all’esistenza di “apposito registro” che ai sensi dell’originario art. 71 disp. att. c.c. doveva essere “tenuto presso l’associazione professionale dei proprietari dei fabbricati”. Con la novella Legislativa sopra citata l’”apposito registro” è stato di fatto sostituito dal registro dell’anagrafe condominiale al quale deve oggi essere allegato il regolamento di Condominio. 

Nonostante le differenze tra le due forme di conservazione, esse sono accomunate da un medesimo beffardo destino consistente nella mancanza di un’espressa previsione legislativa in ordine agli effetti di tale adempimento pubblicitario (verrebbe – quasi – da dire “mal comune … mezzo gaudio”): tale (omissiva) similitudine rende la Sentenza in commento potenzialmente estensibile anche alle fattispecie perfezionatesi post riforma.

(3) La formulazione letterale ante riforma e post riforma è identica, il che consente di trasferire i convincimenti maturati prima della novella legislativa ai giorni d’oggi senza particolari necessità di adeguamenti interpretativi.
(4) Correttamente la distinzione è di natura contenutistica e non formale, in tal senso cfr. Cass. n. 12.173/1991: “Poiché la natura di clausola regolamentare dipende unicamente dal suo contenuto, in un regolamento condominiale richiamato nei singoli atti d'acquisto degli appartamenti dell'edificio condominiale (c.d. regolamento contrattuale) hanno natura contrattuale soltanto le disposizioni che incidono nella sfera dei diritti soggettivi o degli obblighi di ciascun condomino, mentre hanno natura tipicamente regolamentare le norme riguardanti le modalità d'uso della cosa comune e, in genere, l'organizzazione e il funzionamento dei servizi condominiali”.
(5) Si noti che detto consenso dei condomini può essere raggiunto con due diverse modalità tecniche: o attraverso una delibera condominiale assunta all’unanimità ovvero attraverso la specifica ed espressa approvazione del regolamento da parte del condomino in sede di acquisto del bene in condominio.




Fonte: La Cassazione ancora sull'opponibilità del regolamento di Condominio 
(www.StudioCataldi.it) 

mercoledì 8 aprile 2015

Rumori molesti: Cassazione, il concetto di "normale tollerabilità" nei rapporti di vicinato Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Corte di Cassazione civile, sezione seconda, sentenza n. 6786 del 2 Aprile 2015.
Una tirata di orecchie dalla Corte di Cassazione per i giudici di merito che nel caso di specie, a seguito di accertamenti disposti per lamentata violazione dell'art. 844 del codice civile (rumori ed immissioni intollerabili), avevano negato la rimozione degli apparati di condizionamento d'aria che una gelateria, sita al piano terra di un complesso condominiale, aveva provveduto ad installare.
Gli interessati ricorrevano in Cassazione lamentando che il giudicante non aveva preso in considerazione alcuni elementi di fatto inerenti alla domanda, debitamente allegati.
La norma sopra citata dispone che “il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi”.
E' fondamentale dunque, in sede processuale, delineare questa soglia di normale tollerabilità, onde valutare se effettivamente sia stata superata. 
La proprietà, rimarca la Corte, è qui tutelata nella sua interezza“con riferimento alle multiformi esigenze di vita e di piena fruibilità del bene e non dunque solo alla tutela della salute in quanto tale”.
L'interpretazione del concetto di normale tollerabilità deve avvenire in senso ampio, pur mantenendo un collegamento alla norma costituzionale che provvede alla tutela della salute.
Accertato il mutamento della “normale qualità della vita” (tenuto conto degli elementi probatori non esaminati nei gradi di merito) la Suprema corte ha ritenuto fondate le doglianze del ricorrente, cassando con rinvio la sentenza impugnata.


(www.StudioCataldi.it) 

sabato 4 aprile 2015

Oggi niente notizie, sentenze…… solo Auguri!!!!

Oggi niente notizie, sentenze, articoli vari ed assortiti.
Il condominio, la CTU, la mediazione e tutte le altre materie di cui trattiamo possono attendere!!!
Solo il nostro augurio più sincero perché la Pasqua regali a tutti quelli che ci seguono costantemente, a chi ci incontra in aula, a chi saltuariamente e con curiosità butta un occhio alla nostra attività, un periodo ricco di serenità e felicità.

Simone, Claudia e Luca

venerdì 3 aprile 2015

Parti comuni. Il condomino o l’inquilino hanno diritto al rimborso dei danni subiti durante i lavori Risarcito il furto dai ponteggi (Fonte: Il Sole 24 Ore)



Se chi abita (proprietario, conduttore, o anche persona convivente con costoro) in un’unità immobiliare in un edificio condominiale subisce un furto di beni conservati nel proprio appartamento, commesso da ladri che vi si introducano servendosi dei ponteggi e delle impalcature installati dall’impresa appaltatrice dei lavori di manutenzione della facciata del fabbricato, si può individuare la responsabilità a fini risarcitori sia dello stesso appaltatore, sia del condominio (sul tema si è espressa di recente la Cassazione con la sentenza 26900/2014).
L’impresa
La responsabilità dell’impresa appaltatrice che utilizzi impalcature per l’espletamento di lavori edili, in caso di furto negli appartamenti, discende dall’articolo 2043 del Codice civile, se siano state trascurate le ordinarie norme di diligenza che impediscano l’uso anomalo del ponteggio, ed emerga il nesso causale fra l’esistenza di questo e l’ingresso agevolato dei malviventi nell’appartamento svaligiato. Le cautele che l’appaltatore deve adottare per non facilitare i furti negli appartamenti consistono, per esempio, nell’illuminazione notturna dell’impalcatura, nella sorveglianza dell’edificio, nell’installazione di sistemi antifurto, nell’allestimento di porte da cantiere, nella rimozione alla fine di ciascuna giornata di lavoro della scala di collegamento tra il piano terra e il primo piano del ponteggio, nel non apporre corrimano sovrapposti alle ringhiere dei balconi. La responsabilità dell’appaltatore nei confronti del singolo condòmino o inquilino derubato (terzo danneggiato) ha natura «extracontrattuale»: committente delle opere è il condominio unitariamente inteso come soggetto contraente autonomo e non i singoli condòmini. L’affermazione della responsabilità extracontrattuale in capo all’appaltatore, per il furto subito dal condòmino, comporta quindi l’applicabilità della relativa disciplina in tema di onere della prova, danni risarcibili, termini di prescrizione eccetera.
Il condominio
Non è facile ravvisare una responsabilità del condominio per violazione di regole di cautela su esso incombenti in base all’articolo 2043 del Codice civile, in relazione ai ponteggi installati dall’appaltatore. Possono farsi al riguardo solo gli esempi della scelta da parte del condominio di un’impresa inidonea, o del condominio committente che, sebbene reso edotto dall’appaltatore della precarietà degli accorgimenti seguiti per scongiurare indesiderati accessi agli appartamenti, abbia insistito per proseguire i lavori senza darsi cura di quell’allarme. È invece possibile individuare la responsabilità del condominio nella presunzione di colpa prevista dall’articolo 2051 del Codice civile per i danni cagionati dalle cose in custodia, perché tale è la relazione intercorrente tra il condominio e il bene comune ingabbiato dall’impalcatura. La responsabilità del condominio come custode non dovrebbe escludersi nemmeno per effetto dell’imputabilità dei danni alla negligenza dell’appaltatore della manutenzione dei beni comuni, negligenza comportante, piuttosto, la concorrente responsabilità dell’imprenditore, essendo comunque il condominio tenuto, proprio quale custode, a eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Il «condominio-custode», per liberarsi da responsabilità, dovrebbe provare che il fatto del ladro sia del tutto estraneo alla sua sfera soggettiva, presentando i caratteri del fortuito, ovvero l’imprevedibilità e l’assoluta eccezionalità. Non rileva, invece, al fine di escludere o affermare la responsabilità del condominio committente, che questo sia incorso in una culpa in eligendonell’individuazione dell’appaltatore, del progettista o del direttore dei lavori, ovvero che lo stesso abbia lasciato loro piena autonomia.
Un’eventuale clausola del contratto di appalto che accolli all’impresa ogni obbligo e conseguente responsabilità in relazione ai danni subiti da terzi (come, appunto, il condòmino derubato) spiega i suoi effetti soltanto nei rapporti fra il condominio e l’appaltatore, nel senso che il primo può rivalersi sul secondo per gli eventuali risarcimenti cui sia condannato in dipendenza dell’esecuzione delle opere, ma non esonera il condominio dall’obbligo di rispondere nei confronti del singolo condòmino o inquilino danneggiato.
L’amministratore
Non è invece ravvisabile una distinta responsabilità personale dell’amministratore per il furto subito dal singolo condòmino fondata sull’omessa custodia dei ponteggi. Una responsabilità per la mancata custodia dell’impalcatura sarebbe incompatibile con l’abituale qualifica di mandatario che si attribuisce all’amministratore: questi rimane, piuttosto, soggetto solo all’azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio stesso per il recupero delle somme che questo abbia versato al condòmino derubato, ove la mancata adozione delle cautele con riguardo ai ponteggi sia addebitabile alla negligenza o al cattivo uso dei poteri dell’amministratore.