giovedì 28 maggio 2015

Secondo la legge l’edificio deve avere anche impianti a norma e attestazione energetica L’amministratore chiede l’agibilità!!! (da Il Sole 24 Ore)

Si riporta articolo da Il Sole 24 Ore:
Non esiste una legge che impone al venditore di allegare all'atto di compravendita il certificato di agibilità, così come non esiste una legge che obbliga il notaio rogante di farne menzione nell'atto. Ma per i giudici le cose stanno diversamente: la mancanza del certificato di agibilità costituisce grave inadempimento e, come tale, causa di risoluzione del contratto, oltre al risarcimento del danno.
In particolare, il venditore si può vedere costretto a riprendersi l'immobile ed a restituire all'acquirente il prezzo, oltre a risarcire i danni, se sussistenti. Il problema è che sono moltissimi gli edifici in cui manca il certificato di agibilità perché il costruttore non si è preoccupato di richiederlo. Nel frattempo le leggi sono cambiate e per ottenerlo servono una serie di adempimenti che passano necessariamente dall'amministratore condominiale. Il suo ruolo, quindi, è centrale per evitare che i condòmini, quando desiderino cedere il proprio appartamento (vendendolo o affittandolo) si trovino in serie difficoltà.
Ma andiamo per gradi. Il Dl 145/2013, articolo 1, comma 7, stabilisce che i contratti di compravendita immobiliare devono contenere una clausola nella quale l'acquirente dichiara di aver ricevuto le informazioni e la documentazione, comprensiva dell'attestato in merito all'attestazione della prestazione energetica. Copia di questo attestato deve essere allegato al contratto. In caso di omessa dichiarazione o allegazione le parti sono soggette a una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 3.000 ad euro 18.000,00.
Altro adempimento richiesto dalla normativa in vigore dal 2010 (Dl 78/2010) è il cosiddetto “allineamento catastale” la cui violazione comporta la nullità degli atti di trasferimento delle proprietà immobiliari. Gli atti di trasferimento devono contenere, oltre all'identificazione catastale, anche il riferimento alle planimetrie depositate in Catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie. La dichiarazione può essere sostituita da una attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato. Infine, non certo per importanza, il notaio è obbligato, ad inserire nel contratto, sempre pena la sua nullità, a seconda dell'epoca di costruzione dell'immobile, l'indicazione della licenza o della concessione edilizia, del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività oppure del titolo abilitativo in sanatoria.
Nulla, invece, viene detto dalla normativa in vigore sul certificato di agibilità. Si tratta di un vero e proprio “vuoto normativo” che comporta gravi ripercussioni su chi, e sono tanti, ogni giorno si appresta ad acquistare casa. Il certificato di agibilità (articolo 24 del Tu 380/2001) attesta, infatti, la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico dell'edificio e degli impianti in esso installati. Se l'edificio non gode di tali condizioni esso non potrà essere abitato.
Il certificato di agibilità viene rilasciato dal Comune; la domanda dovrà essere corredata dalla documentazione richiesta per legge, tra cui il certificato di conformità degli impianti e, ove previsto, il certificato di conformità alle norme antisismiche. Può essere ottenuto mediante espresso provvedimento, entro 30 giorni dalla domanda oppure mediante “silenzio-assenso” decorsi 30 dal parere positivo dell'Asl o 60 giorni in caso contrario. Quindi, anche se la consegna di questo certificato non è imposta dalla legge, l'acquirente può (o meglio deve) chiedere al venditore-costruttore fin dalla stipula del preliminare e, in ogni caso, al momento del contratto definitivo di compravendita, che gli venga esibito e consegnato il certificato di agibilità.
Ma quando, come spesso accade, non ci si è preoccupati di questo adempimento, occorre mobilitare l’amministratore e farne espressa richiesta. Se l'amministratore non è in possesso del certificato dovrà richiederlo con le modalità indicate prima. Anche il singolo condomino può farlo, sempre che l’immobile risulti agibile. In caso contrario dovranno essere apprestate dal condominio tutte quelle opere idonee a renderlo tale.
La mancanza del certificato, infatti, anche in assenza di una previsione legislativa, è stata valutata dai giudici come causa di risoluzione del contratto, principalmente in quanto costituisce una vendita di un bene diverso, inidoneo ad assolvere allo scopo che le parti si sono proposte. In particolare, per i giudici il certificato di agibilità costituisce un requisito essenziale del bene compravenduto poiché incide sulla sua attitudine ad assolvere la sua funzione economico-sociale, assicurandone il legittimo godimento e la commerciabilità (Cassazione, sentenze 17707/2011 e 629/2014).

mercoledì 27 maggio 2015

Cassazione: le spese di manutenzione dei balconi ricadono anche sul proprietario del pianterreno Fonte: www.StudioCataldi.it

Da www.studiocataldi.it
E' legittimo porre a carico (anche) del proprietario dell'appartamento al pian terreno la spesa sostenuta dal condominio per il rifacimento dei balconi e delle pensiline, se l'applicazione delle tabelle millesimali è espressamente prevista dal regolamento.
Lo ha stabilito la Suprema corte nella sentenza in oggetto, rigettando il ricorso promosso dal titolare dell'appartamento sito al pianterreno, avendo accertato che la delibera concernente la gestione e il riparto delle spese comuni(ivi comprese quelle di cui sopra) non è mai stata impugnata da alcun interessato.

Per risolvere la questione la Cassazione richiama il principio, consolidato in giurisprudenza, secondo il quale“in tema di condominio negli edifici, i balconi aggettanti, costituendo un prolungamento della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa; laddove devono considerarsi beni comuni a tutti i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell'edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole”. 


Inoltre, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, proprio per le ragioni sopra esposte i balconi non possono essere considerati meri prolungamenti degli appartamenti a cui accedono, pur essendo di proprietà esclusiva dei relativi titolari, proprio perchè tutto ciò che attiene l'esterno dell'edificio influisce sull'aspetto e sul decoro dell'edificio. Il ricorso è rigettato.


(www.StudioCataldi.it) 

martedì 26 maggio 2015

Un breve vademecum sui vizi e sul procedimento di impugnazione di una delibera assembleare Fonte www.condominioweb.com

Il Tribunale di Bari sintetizza il procedimento di impugnazione delle delibere assembleari tra limiti di sindacato, natura dei vizi e altro…
In fatto. Tizio impugnava la delibera assunta dalla propria Assemblea in materia di lavori straordinari - e/o asseritamente tali, laddove trattavasi di rifacimento del manto stradale -, agitando diversi motivi di gravame per chiederne l'invalidità.
L'attore lamentava la mancata tempestiva convocazione nel termine di legge; l'adozione di un quorum deliberativo inferiore ai cinquecento millesimi; l'eccesso di potere nella scelta della impresa (anche perché avvenuta per il tramite di una commissione di condomini); infine, la violazione dei criteri millesimali di ripartizione della spesa, disposta in parti uguali.
Il condominio convenuto non si costituiva in giudizio. Il Giudice, in assenza di prove contrarie, dichiarava l'invalida della deliberazione.
Di sicuro pregio è l'excursus argomentativo, di volta in volta, addotto rispetto ciascuno dei superiori motivi di impugnazione. E segnatamente.
Il procedimento di convocazione. In sede di impugnazione ogni condòmino è legittimato a procedere in giudizio al fine di far valere un vizio nella convocazione, anche se afferente al procedimento di interesse di un altro compartecipe.
Dall'altra parte, qualora il condomino agisca per far valere l'invalidità di una delibera assembleare, incombe sul condominio convenuto l'onere di provare che tutti i condomini siano stati tempestivamente avvisati della convocazione, quale presupposto per la regolare costituzione dell'assemblea (Corte di Cassazione 19.11.1992 n. 12379, 25.03.1999 n. 2837, 13.11.2009 n. 24132).
Ai sensi dell'articolo 1136 co. 6 c.c., in effetti, l'Assemblea non può deliberare se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione.
Il verbale dell'assemblea condominiale rappresenta quindi la descrizione di quanto è avvenuto in una determinata riunione e da esso devono risultare tutte le condizioni per una valida costituzione dell'assemblea e dunque per la validità della deliberazione, senza incertezze o dubbi, non essendo consentito fare ricorso a presunzioni per colmarne le lacune.
Il verbale deve pertanto contenere l'elenco nominativo dei partecipanti intervenuti di persona o per delega, indicando i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, con i rispettivi valori millesimali, la constatazione che tutti i condomini sono stati invitati a parteciparvi, perchè tali individuazioni sono indispensabili per la verifica della esistenza dei quorum prescritti dall'art. 1136 c.c..
E' compito del Presidente dell'Assemblea dare luogo alla dichiarazione di perfezionamento formale del procedimento di convocazione; in assenza della quale, è dato presumere il mancato svolgimento del controllo sulla regolarità del procedimento.
Le conseguenze del mancato controllo, laddove si è in presenza di un vizio insito nel procedimento di convocazione, si riverberano sulla validità della deliberazione, importandone l'annullamento.
Invero, come noto, in tema di condominio negli edifici – riferisce il Decidente richiamando la Sentenza della Corte di Cassazione S.U. n. 4806/2005 -, debbono qualificarsi nulle:
  1. le deliberazioni dell'assemblea condominiale prive degli elementi essenziali;
  2. le deliberazioni con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume);
  3. le deliberazioni con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea;
  4. le deliberazioni che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini;
  5. le deliberazioni comunque invalide in relazione all'oggetto;
Viceversa, debbono, invece, qualificarsi annullabili:
  1. le deliberazioni con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea;
  2. quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale;
  3. quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea;
  4. quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione;
  5. quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
Il sindacato del tribunale. Spetta, inoltre, al Giudice del gravame il compito di stabilire la natura del vizio (ove sussistente), al fine di esercitare legittimamente il potere di invalidazione.
Sulla scorta di tale presupposto è stato invece respinto il motivo di impugnazione della delibera relativo alla presunta violazione dell'art. 1136 co. 4 c.c., laddove gli attori ritenevano che i lavori di rifacimento del manto stradale dell'area condominiale fossero riparazioni straordinarie di notevole entità che ai sensi di tale disposizione, richiedevano la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio.
Al contrario, l'individuazione, agli effetti dell'articolo 1136, quarto comma, c.c., della "notevole entità" delle riparazioni straordinarie è rimessa, in assenza di un criterio normativo, alla valutazione discrezionale del giudice di merito; il giudice può tenere conto senza esserne vincolato, oltre che dell'ammontare complessivo dell'esborso necessario, anche del rapporto tra tale costo, il valore dell'edificio e la spesa proporzionalmente ricadente sui singoli condomini.
Alla luce di tali criteri, il Decidente ha statuito che il rifacimento del manto stradale condominiale non può considerarsi riparazione straordinaria di notevole entità per cui non si applicavano i quorum costitutivi e deliberativi di cui all'art. 1136 co. 4 c.c.
Parimenti infondato è stato ritenuto il motivo di impugnazione della delibera relativo all'approvazione del piano esecutivo dell'opera in quanto, a dire degli attori, i lavori di rifacimento del piazzale erano stati realizzati in maniera difforme rispetto alle previsioni del capitolato.
Al riguardo il Decidente ha rammentato che in tema di impugnazione delle delibere condominiali, il sindacato del giudice non può estendersi alla valutazione del merito e al controllo del potere discrezionale che l'assemblea esercita quale organo sovrano della volontà dei condomini.
Il sindacato del giudice deve limitarsi al riscontro della legittimità della deliberazione impugnata, riguardo alle norme di legge o di regolamento condominiale; può comprendere l'eccesso di potere, ravvisabile quando la decisione sia deviata dal suo modo di essere, perché, in tal caso, non si controlla l'opportunità o la convenienza della soluzione adottata dalla delibera impugnata, ma il risultato del legittimo esercizio del potere discrezionale dell'organo deliberante (finalità extracondominiale).
Sulla scorta della stessa motivazione è stato parimenti respinto il motivo di gravame spiegato con riferimento al capo della deliberazione assembleare che demandava ad una commissione di condomini il compito di fare una prima selezione delle impresa appaltatrice sulla scorta di determinati presupposti.
Ben può essere deliberata la nomina di una commissione di condomìni con l'incarico di esaminare i preventivi di spesa per l'esecuzione di lavori, le cui decisioni sono vincolanti per tutti i condomini - anche dissenzienti - solamente in quanto rimesse all'approvazione, con le maggioranze prescritte, dell'assemblea, le cui funzioni non sono delegabili ad un gruppo di condomini (Cassazione civile, sez. II, 06/03/2007, n. 5130).
Da ultimo, è stato ritenuto fondato il motivo di impugnazione attinente alla ripartizione delle spese dei lavori ad effettuarsi presso il Condominio, in parti uguali anziché in base alle tabelle millesimali e dunque al criterio di ripartizione.
La deliberazione, in questo caso, contrasterebbe la previsione dell'art. 1123 co. 1 c.c. secondo il quale le spese necessarie per la conservazione e il godimento delle parti comuni dell'edificio ...sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno. 




www.condominioweb.com 

sabato 23 maggio 2015

Lo stalking condominiale (da UPPI Bologna)


(Articolo dal sito UPPI Bologna)


Una recentissima sentenza emessa dal Giudice del Tribunale di Genova nel mese di aprile 2015 ha condannato a quattro mesi di reclusione, oltre al risarcimento dei danni , i vicini molesti di una giovane coppia di sposi alla pena di “stalking condominiale “ , equiparando gli atti persecutori descritti e delineati come “stalking” all’articolo 612 bis del codice penale anche alle azioni persecutorie che si verificano spesso nei condominii.
Non deve trattarsi , ovviamente, di semplici dissapori tra vicini ma di vere e proprie torture psicologiche e di persecuzioni reiterate nel tempo.
La coppia era stata costretta a rilasciare il proprio appartamento di proprietà, per rifugiarsi in un seminterrato e sfuggire alla persecuzione .
La situazione era peggiorata con la nascita del figlio dei denuncianti , a seguito della quale i vicini perpetravano minacce e intimidazioni gravissime, avvisando di voler ammazzare il piccolo .
La sentenza è, rispetto alla Giurisprudenza di merito, molto innovativa, in quanto ha espressamente riconosciuto il perdurante stato di ansia e paura descritto dalla norma penale che disciplina lo stalking: è stata, quindi definita una sorta di sentenza apripista destinata ad estendere il reato di stalking a soggetti diversi da ex mariti gelosi, fidanzati o spasimanti respinti e ad aprire detto reato a fattispecie diverse da quelle strettamente passionali o sentimentali.
In realtà, la recentissima sentenza sopra citata, prende spunto dalla precedente sentenza della Suprema Corte di Cassazione, la n° 39933 del 26.09.2013, . Questa sentenza partiva da un altro caso limite di litigi e dissidi che si svolgono nei condomini , e stavolta tra parenti : l’imputato commetteva continuativi e numerosi atti di molestia ai danni di suo fratello, sporcando quasi quotidianamente l’abitazione e il cortile di proprietà di quest’ultimo gettando rifiuti di ogni genere, cagionandogli in questo modo un grave e perdurante stato di ansia e un fondato pericolo per la sua incolumità , tanto che la persona offesa si trasferiva altrove per alcuni periodi, rinunciando anche a coltivare rapporti con altri condomini per la paura .
Veniva, quindi, anche in questo caso configurato il delitto di atti persecutori ex articolo 612 bis c.p..
La Suprema Corte di Cassazione ha, quindi, coniato per la prima volta, dando pertanto lo spunto alla successiva e recentissima sentenza del Tribunale di Genova, il reato di stalking condominiale, ritenendo ricomprese nella figura criminosa descritta dall’articolo 612 bis c.p. le condotte di minaccia e molestie ripetute indistintamente a danno di tutti i soggetti facenti parte del condominio, in maniera da provocare un grave stato di ansia .
La riconducibilità di taluni atteggiamenti tenuti nei condominii al reato di stalking è piu che giusta, in quanto è innegabile come spesso il condominio diventa l’epicentro in cui, da semplici dissidi e contrasti, si entra nell’area del penalmente rilevante quando vengono lesi o messi in pericolo beni giuridici tutelati da specifiche fattispecie incriminatrici .
La difficoltà del Giudice, cui sul punto sarà rimessa la più ampia discrezionalità, è di discernere di quale reato si tratta .
C’è da dire, anche al fine di fare chiarezza sulla casistica precedente alla recente pronuncia del reato di stalking condominiale, che i giudici , sia di merito che di Cassazione, sono stati chiamati più volte a pruninciarsi su litigi condominiali .
Si passa dal caso di ingiuria , quando la convivenza tra condomini scatena un conflitto verbale nel quale si proferiscono espressioni offensive alla reputazione , al reato di diffamazione nei confronti dell’amministratore di condominio quando i condomini assumono condotte ingiuriose o diffamatorie profferite nel corso dell’assemblea o in scritti affissi nelle aree condominiali o indirizzati direttamente all’amministratore .
Si sono verificati dei casi in cui, inversamente a quello sopra descritto, è l’amministratore del condominio che è incorso nel delitto di diffamazione dei condomini nella sua attività di gestione condominiale . A questo ultimo riguardo, la Suprema Corte ha confermato la sussistenza del reato di diffamazione, previsto dall’articolo 595 c.p., nel comportamento tenuto da un amministratore che affigge nell’atrio di un condominio un avviso di imminente distacco della fornitura idrica della società di acquedotto municipale a seguito della presunta persistenza del debito di alcuni condomini espressamente indicati.
Un altro reato che si è ritenuto configurabile nel condominio è quello riconducibile all’articolo 674 c.p. che punisce il getto pericoloso di cose , atte a offendere , imbrattare oppure molestare persone.Di recente, infatti, la Suprema Corte , con una sentenza anch’essa recentissima ( aprile 2013 ) ha confermato la sussistenza di un reato per avere l’imputato arrecato molestie ad una condomina in quanto, abitante nello stesso stabile, aveva gettato nel piano sottostante ove si trovava l’appartamento di quest’ultima, rifiuti quali cenere e cicche di sigarette ,nonché detersivi corrosivi , quale candeggina.
Un reato che è difficile configurare come atti persecutori (stalking ) o molestia continuata è quello che si verifica per petulanza in danno dei vicini . Uno degli ultimi casi trattati, sempre nell’anno 2013, dalla Cassazione ha riguardato una coppia di coniugi che a causa dei dissapori con il titolare di un panificio aveva posto in essere atteggiamenti di molestia alle normali attività del negozio , versando grandi quantità di acqua dal piano soprastante proprio davanti all’entrata del panificio spesso proprio quando giungevano clienti .Avevano inoltre costretto il commerciante a subire altre molestie, quali il gettito di foglie e rami in prossimità dell’entrate panificio, e di altri rifiuti solidi urbani , così da diminuire l’immagine , il decoro e l’igiene .
Stessa condanna ne è derivata da un condomino che in più occasioni ha arrecato molestie ad un’altra coppia di coniugi , suoi vicini di casa posizionandosi su un terrazzo posto a brevissima distanza dall’appartamento abitato dalla coppia , scrutando in continuazione all’interno di esso , costringendo le parti offese a tirare i tendaggi ed accendere la luce anche in pieno giorno per proteggersi da questa intrusione , e anche per aver fatto gesti o sberlefffi quando erano da lui incontrati nelle scale o sulla pubblica via.
I casi sono molti, bisognerà verificare se le fattispecie che , purtroppo, spesso e volentieri si verificano nei condominii verranno ricondotte allo stalking condominiale .
Ciò potrebbe potrebbe condurre i condomini più “indisciplinati “ a percepire il disvalore di quanto commesso e ad assumere atteggiamenti più civili ed equilibrati all’interno del condominio.
(Fonte: http://www.uppi-bologna.it/legale/lo-stalking-condominiale/)

giovedì 21 maggio 2015

Infiltrazioni nell’appartamento? Paga il condominio che non ha impermeabilizzato il terrazzo Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Quella delle infiltrazioni d’acqua negli appartamenti e della conseguente umidità, provocate da tubazioni, opere murarie o impianti danneggiati, è una problematica ricorrente negli edifici condominiali. E se l’origine dei danni è la mancata impermeabilizzazione del terrazzo comune, la responsabilità è del condominio che ha omesso di occuparsene. 
Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 9294 pubblicata l’8 maggio scorso, dando ragione ad un condomino (una società) che ha trascinato in giudizio l’ente di gestione per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa delle infiltrazioni d’acqua provenienti dal terrazzo comune. Sbaglia, invece, per la S.C., il giudice d’appello a ritenere che, nonostante le infiltrazioni fossero provate, non fosse così per la colpa del condominio.
Per la corte territoriale, infatti, pur ritenendo sussistente il nesso causale, ossia la derivazione dell’evento dalla condotta colposa, la società danneggiata non aveva assolto “l’onere di provare anche il profilo soggettivo dell’illecito”, ovvero la colpa, “integrata dalla violazione della misura della diligenza obiettivamente dovuta dal soggetto”.  
Ma il Palazzaccio ribalta la decisione e accoglie le richieste dell’amministratore ricorrente, sull’assunto che, analogamente alla materia della responsabilità contrattuale, anche ai fini di quella extracontrattuale, “la colpa si sostanzia nell’inosservanza di leggi, regolamenti, regole e discipline nonché nell’obiettiva violazione degli aspetti di diligenza, della prudenza e della perizia, al cui rispetto il soggetto deve improntare la propria condotta anche nei rapporti della vita comune di relazione”.
Per cui, nel caso di specie, ha concluso la S.C. accogliendo il ricorso, l’omessa impermeabilizzazione del terrazzo condominiale depone automaticamente “per una connotazione in termini di imprudenza e negligenza, e pertanto di colpa, della condotta mantenuta dal condominio”, dalla quale è conseguito l’evento dannoso delle infiltrazioni, le quali, ove vi fosse stata una condotta diligente, consistente nell’occuparsi della necessaria impermeabilizzazione, “non si sarebbero, in base a ad un criterio di normalità, verificate”.




(www.StudioCataldi.it) 

martedì 19 maggio 2015

Quando l'amministratore di condominio è privo delle qualità e dei requisiti necessari. I rimedi esperibili. Fonte: (www.StudioCataldi.it)

(da StudioCataldi.it)
Per amministrare uno stabile in condominio la normativa (L. 220/2012), entrata in vigore il 18 giugno 2013, prevede determinati requisiti che devono essere posseduti dal candidato sin dall'atto della sua nomina.
In particolare - salvo non si tratti di amministratore (interno) scelto nell'ambito degli stessi condòmini e, in quanto tale, che amministri esclusivamente l'immobile nel quale risulta anche condomino - chi vuole assumere l'anzidetto incarico di gestione, ai sensi dell'art. 71 -bis disp. att. c.c., deve essere in possesso:
a) del godimento dei diritti civili; b) non aver subito condanne per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni; c) non essere sottoposto a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione; d) non essere interdetto o inabilitato; e) non risultare iscritto nell'elenco dei protesti cambiari; f) aver conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado; g) aver frequentato un corso di formazione iniziale e svolgere attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.
La norma prevede due sole eccezioni.
La prima, quella relativa al caso sopra visto di condomino che assume l'incarico di amministrare il proprio condominio, nel qual caso, fermi restando gli ulteriori requisiti, quelli di cui alle lettere f) e g) non sono necessari.
Si tratta in sostanza degli amministratori non "professionali".
La seconda riguardante coloro i quali hanno svolto attività di amministratore di condominio per almeno un anno - nell'arco dei tre anni precedenti alla data del 18.06.2013 (data di entrata in vigore della L. 220/2012) - per costoro l'attività di amministratore può ritenersi legittimamente espletata anche in mancanza dei requisiti di cui alle lettere f) e g), fermo restando l'obbligo di formazione periodica.
In buona sostanza, il legislatore ha voluto riconoscere una sorta di "merito sul campo" a chi già esercitava detta attività in precedenza, ritenendolo sufficientemente istruito e formato proprio in virtù dell'esperienza acquisita e tale, pertanto, da non necessitare della (sola) formazione iniziale.
Per inciso, la possibilità di esercitare i compiti di amministratore di condominio viene riconosciuta sia alle persone fisiche che alle società, siano esse di persone o di capitali.
Nel caso delle società, tuttavia, i requisiti sopra menzionati devono essere posseduti da tutti i soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condominii a favore dei quali la società presta i servizi.
La norma richiamata prevede inoltre che la perdita dei requisiti di cui alle lettere a), b), c), d) ed e), sopra visti, comporta la cessazione dall'incarico.
In tal caso ciascun condomino può convocare senza formalità l'assemblea per la nomina del nuovo amministratore.
Da ciò si evince che tutti gli anzidetti requisiti, salve le particolari fattispecie sopra indicate, devono essere posseduti dal candidato sin dall'atto della nomina, anzi, riteniamo sin dall'atto dell'invio della proposta contrattuale (vale a dire nel momento in cui il candidato formula la propria offerta di amministrazione), come comunemente avviene per i bandi pubblici, laddove i requisiti per la partecipazione generalmente devono essere posseduti dal candidato al momento dell’emanazione del bando.
Diversamente opinando, si verificherebbe una inaccettabile differenza di trattamento tra candidati amministratori e una violazione del diritto di concorrenza che, addirittura, potrebbe risultare sleale.
Ciò posto la norma evidentemente disciplina i casi di perdita successiva dei requisiti, prevedendo quale rimedio quello della convocazione dell'assemblea, anche ad opera di un solo condomino, per la nomina del nuovo amministratore.
L'art. 71-bis disp. att. c.c. nulla prevede invece in caso di mancanza originaria dei requisiti relativi al grado di istruzione secondaria e/o nel caso di mancanza di formazione iniziale o successiva.
Ebbene in tali casi la norma di riferimento è quella di cui all'art. 1129 co. 12 c.c., il quale, tra le altre ipotesi contemplate - essenzialmente relative a violazioni e irregolarità gestionali ovvero fiscali (dalla mancata apertura ed utilizzazione del conto corrente condominiale alla confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore) oppure relative alla tenuta dei registri e l'accesso ai documenti - prevede anche l'omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei dati anagrafici e professionali all'atto della nomina o della conferma.
In questa ultima fattispecie rientrano a pieno titolo gli anzidetti requisiti culturali, vale a dire il requisito minimo del grado di istruzione secondaria, e professionali, relativi alla necessaria formazione iniziale e successiva.
In tali casi il rimedio esperibile risulterebbe senz'altro quello della revoca dell'amministratore.
Per la revoca la procedura da seguire sarebbe quella di convocare l'assemblea, possibilità concessa anche al singolo condomino, avendo cura di inserire all'ordine del giorno appunto la revoca dell'amministratore.
Qualora l'assemblea dei condomini - per le motivazioni più svariate - nonostante l'effettiva mancanza dei requisiti culturali e professionali in capo all'amministratore in carica, non provvedesse alla sua revoca, il condomino o i condomini che hanno assunto l'iniziativa di convocare l'assemblea, ma riteniamo anche quelli assenti, dissenzienti o astenuti (in applicazione analogica del nuovo art. 1137 c.c. in materia di legittimazione all'impugnativa della delibera assembleare), sarebbero legittimati a chiedere la revoca all'autorità giudiziaria.
In tali casi il procedimento da seguire è quello dettato dall'art. 64 disp. att. c.c., per il quale proposto ricorso per la revoca giudiziale dell'amministratore, il Tribunale provvede in camera di consiglio, con decreto motivato, sentito l'amministratore in contraddittorio con il ricorrente.
Avverso il provvedimento del Tribunale è ammesso il reclamo alla Corte d'Appello nel termine di dieci giorni dalla notificazione o dalla comunicazione del decreto, di accoglimento o di rigetto, emesso dal Tribunale in camera di consiglio.
Non è ammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento della Corte d’Appello, se non con riferimento al solo capo relativo alle spese giudiziali.
Appare evidente che dalla terminologia utilizzata dal legislatore nonché dalla giurisprudenza di legittimità formatasi in materia, sia pure nella previgente formulazione dell'art. 64 disp. att. c.c., ci troviamo al cospetto di un procedimento di volontaria giurisdizione, da assumersi dal Tribunale in composizione collegiale, in camera di consiglio, avente natura di giudizio cautelare.
Per inciso, l'anzidetta procedura di volontaria giurisdizione è soggetta al pagamento del Contributo unificato di € 98,00 oltre alla marca da bollo di € 27,00 per diritti forfetizzati per notifica nonché ai costi relativi alla notificazione dell'atto introduttivo del giudizio, da eseguirsi solo nei confronti del medesimo amministratore, unico legittimato passivamente che, in quanto tale, può e deve costituirsi in cancelleria senza alcuna autorizzazione assembleare né successiva ratifica.
In caso di soccombenza è prevista la rifusione delle spese processuali sopra viste, oltre alla liquidazione delle competenze professionali dell'avvocato difensore della parte vittoriosa.
Dubbi invece sussistono in merito all'obbligatorietà, in siffatta speciale materia, della preventiva mediazione.
Ed invero, come oramai noto, dal 21.09.2013 vige l'obbligo della mediazione anche per quanto concerne le controversie in materia di condominio.
Detta obbligatorietà è desumibile dall'art. 5 co. 1, del D. Lgs. 28/2010, successivamente integrato e modificato dalla L. 98/2013, che indica le materie, tra cui appunto quella condominiale, nelle quali la mediazione è ritenuta oltre che obbligatoria anche inderogabile.
Il termine “condominio”, adottato in senso evidentemente omnicomprensivo, farebbe presupporre la necessità della mediazione - indistintamente - in tutte le ipotesi di controversie condominiali.
Tale generale applicazione risulterebbe vieppiù confermata dal disposto (speciale) dell'art. 71 quater disp. att. c.c., il quale prevede testualmente che: Per controversie in materia di condominio, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle disposizioni del libro terzo, titolo VII, capo II, del codice e degli articoli da 61 a 72 delle presenti disposizioni per l’attuazione del codice civile.
Tuttavia, il comma 4 dell'anzidetto art. 5 D. Lgs. 28/2010, prevede l'esclusione dalla procedura di mediazione di alcune specifiche fattispecie:
a) i procedimenti di ingiunzione, inclusa l’opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;
b) i procedimenti per convalida di licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all’articolo 667 del codice di procedura civile;
c) i procedimenti di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite (art. 696-bis del codice di procedura civile);
d) i procedimenti possessori, fino alla pronuncia dei provvedimenti di cui all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile;
e) i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all’esecuzione forzata;
f) i procedimenti in camera di consiglio;
g) l’azione civile esercitata nel processo penale.
Di talché, rientrando il procedimento in parola tra quelli da trattarsi in camera di consiglio, la mediazione sarebbe da ritenersi esclusa.
Tuttavia, essendo in diritto tutto, o quasi, opinabile, il Tribunale ordinario di Padova, con ordinanza assunta in camera di consiglio in data 24.12.2014, depositata il 24.02.2015, ha ritenuto che per il combinato disposto dagli artt. 71 quater e 64 disp. att. c.c., la controversia rientra tra quelle soggette all’obbligo della mediazione ai sensi del D.Lgs. n. 28/2010.
La decisione suscita invero non poche perplessità, e presta il fianco a diverse osservazioni critiche, nonostante la pure dedotta specialità dell’art. 71 quater disp. att. c.c. in materia di mediazione condominiale, rispetto ai principi generali portati dal D.Lgs. 28/2010.
In primo luogo perché la revoca giudiziale dell’amministratore di condominio, risultando pacificamente un procedimento in camera di consiglio, rimarrebbe esclusa dall’obbligo della mediazione in virtù dell’art. 5 co. 4, lett. f) D.Lgs. 28/2010.
In secondo luogo perché avendo natura tipicamente cautelare e, quindi, connotata dal carattere della sommarietà, provvisorietà e, soprattutto, da quello dell’urgenza, mal si concilierebbe con il procedimento di mediazione.
Ed invero, così come accade comunemente per gli altri procedimenti cautelari (ingiunzione, sfratto, d’urgenza, possessori, ecc.), nei quali appunto vi è la necessità di ottenere un provvedimento giudiziale urgente e indifferibile, sottoporre gli stessi al previo tentativo obbligatorio di mediazione, con la conseguente inevitabile dilatazione dei tempi, rappresenterebbe una evidente contraddizione in termini, tanto che il legislatore, per siffatti procedimenti, ha espressamente escluso l’obbligatorietà della mediazione.
Infine, perché le fattispecie che legittimano la richiesta di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio, mal si combinano con l’istituto della mediazione.
La mediazione, infatti, ha quale scopo essenziale quello di conciliare l’insorta controversia, in altri termini, tende al raggiungimento di un accordo tra le parti che, generalmente, avviene quando ognuna di esse rinuncia a parte della propria pretesa iniziale.
Ciò posto, risultando le fattispecie abilitanti la revoca dell’amministratore assolutamente tipizzate, si pensi al caso in oggetto, quale appunto la mancanza in capo all’amministratore del requisito professionale della formazione iniziale o culturale, non vi è chi non veda come in proposito non ci sarebbe nulla da mediare.
I requisiti necessari (discendenti direttamente dalla norma di legge) per amministrare o sono posseduti oppure no, pertanto, in proposito non potrebbe esistere alcun accordo conciliativo concernente i titoli obbligatori dell’amministratore che, semmai raggiunto, comporterebbe certamente una violazione del dettato normativo.
Si rimanda a tal proposito all’art. 1344 c.c. intitolato contratto in frode alla legge, il quale stabilisce che la causa si reputa illecita quando il contratto (accordo di mediazione) costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa.
Di talché appare preferibile, per tutte le motivazioni sopra esposte, che il giudizio di revoca giudiziale dell’amministratore di condominio venisse debitamente escluso dall’obbligatorietà della mediazione.
Ad ogni buon conto l’instaurazione del giudizio senza il preventivo esperimento della mediazione obbligatoria (qualora ritenuta necessaria), fortunatamente non comporta conseguenze irreversibili, atteso che il Tribunale è tenuto a sospendere il giudizio e a fissare un termine per l’avvio del procedimento di mediazione che, in caso di esito negativo, consentirebbe il prosieguo del giudizio.
Solo successivamente e qualora la parte onerata non ottemperasse all’ordine giudiziale impartito, nel termine alla stessa assegnato, il giudizio diverrebbe improcedibile.
Ferma restando la possibilità di riproposizione dello stesso ex novo.
Da ricordare, infine, che l’amministratore revocato giudizialmente non può essere rinominato dall’assemblea che dovrebbe, pertanto, affidarsi a diversa persona (fisica o giuridica).
Inoltre, stante l’istituzione del registro di nomina e revoca dell'amministratore (sul quale evidentemente si annotano i dati anagrafici e le date di nomina e revoca dell'amministratore), sullo stesso andranno annotati anche gli estremi del provvedimento giudiziale di revoca.




(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 15 maggio 2015

La gestione del contratto di locazione dopo il pignoramento immobiliare (fonte www.fanpage.it)


(Riportiamo questo importante articolo dal sito www.fanpage.it)

La Cassazione del 29.4.2015 n. 8695 ha stabilito che gli art. 65 e 560 cpc attribuiscono al solo custode la legittimazione a richiedere tanto il pagamento dei canoni locazione, quanto ogni altra azione che scaturisce dai poteri di amministrazione e gestione del bene pignorato. Quando è nominato custode il proprietario (locatore), la gestione del contratto di locazione (stipulato prima o dopo il pignoramento) non appartiene al locatore (in quanto proprietario esecutato), ma al locatore (in quanto nominato custode); e le azioni (per il pagamento dei canoni) devono essere esercitate dal custode. E se il proprietario locatore non specifica questa sua qualità, la domanda va dichiarata inammissibile

Effettuato un pignoramento immobiliare, può capitare che il creditore scopra che l'immobile sia locato. La locazione può essere stata stipulata tanto dopo il pignoramento, quanto prima del pignoramento. Per valutare l'anteriorità (o meno) della locazione rispetto al pignoramento immobiliare, si dovrebbero confrontare le date della stipula della locazione (eventualmente della registrazione ella stessa per avere una data certa) e la data della trascrizione del pignoramento immobiliare.

In queste situazioni sorgono immediatamente alcuni problemi: a) la locazione è opponibile (o meno) al creditore ? b) chi ha il diritto di richiedere il pagamento dei canoni di locazione e chi è legittimato ad esercitare le azioni derivanti dalla locazione (es. disdetta, fratto per morosità ecc.) ?

La prima questione da affrontare è se dopo il pignoramento immobiliare il proprietario può locare l'immobile. Sul punto si scontrano due ricostruzioni,

– a) la locazione non è espressamente vietata (o considerata) dagli articoli 2911 – 2917 c.c., quindi è possibile che il proprietario dopo il pignoramento dell'immobile stipuli un contratto di locazione, anche perché (nella peggiore delle ipotesi) tale locazione sarebbe efficace tra le parti e sarebbe pienamente operativa nell'ipotesi in cui la procedura esecutiva si estinguesse senza vendita del bene (evitando di danneggiare ulteriormente il proprietario pignorato);

– b) la stipula di una locazione da parte del proprietario pignorato è espressamente vietata dall'art. 560 cpc e non è neppure seguibile la ricostruzione della mera efficacia tra le parti della locazione, in quanto si verrebbero a creare degli effetti distorsivi, infatti, ove il proprietario fosse nominato anche custode sarebbe legittimato a chiedere al conduttore il pagamento dei canoni di locazione (o l'indennità di locazione) sia con la qualifica di proprietario sia con la qualifica di custode; risulta evidente che in questo modo si crea, senza alcun valido fondamento logico-giuridico, nei confronti dell'occupante del bene un doppio titolo di pagamento a favore del medesimo soggetto (ma con vesti diverse), senza considerare che in questo modo si incentiva la stipula di locazioni senza autorizzazione del G.E.; inoltre, la possibilità che la locazione (post pignoramento) sia valida è in contrasto con un altro dato, per effetto dello spossessamento, conseguente al pignoramento e dell'effetto estensivo previsto dall'art. 2912 c.c., il debitore esecutato perde vuoi il diritto di gestire e amministrare (se non in quanto custode) il bene pignorato, vuoi il diritto di far propri i relativi frutti civili.

Per valutare l'anteriorità (o meno) della locazione rispetto al pignoramento immobiliare, si dovrebbero confrontare le date della stipula della locazione (eventualmente della registrazione ella stessa per avere una data certa) e la data della trascrizione del pignoramento immobiliare.

Imposta il problema, occorre valutare come gestire una locazione (stipulata prima o dopo) il pignoramento immobiliare.

La risposta può essere trovata analizzando alcuni articoli [in particolare il potere di amministrazione, conferito al custode dall'art. 65 cpc, il divieto di dare in locazione l'immobile pignorato se non con l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione (art. 560 cpc), nonchè l'interesse del creditore procedente, che potrebbe essere seriamente compromesso sia dalla locazione del bene pignorato (donde le cautele apprestate dall'art. 560 cpc) sia dall'esercizio (o dal mancato esercizio) da parte del debitore delle azioni che da esse discendono], convergono, tutti, nell'attribuire al solo custode la legittimazione sostanziale a richiedere tanto il pagamento dei canoni, quanto ogni altra azione che scaturisce dai poteri di amministrazione e gestione del bene.

Se il custode e il proprietario del bene pignorato coincidono, il proprietario-locatore di un immobile pignorato, che ne sia stato nominato custode, è legittimato a promuovere le azioni scaturenti dal contratto di locazione avente ad oggetto l'immobile stesso solo nella sua qualità di custode e non in quella di proprietario locatore, essendo il bene a lui sottratto per tutelare le ragioni del terzo creditore; con la conseguenza che, se nell'atto introduttivo del giudizio il proprietario locatore non abbia speso la suddetta qualità, la domanda va dichiarata inammissibile.

La soluzione del problema non muta se la locazione è stipulata dopo il pignoramento, infatti, la locazione di un bene sottoposto a pignoramento senza l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, in violazione dell'art. 560 cpc, non comporta l'invalidità del contratto ma solo la sua inopponibilità ai creditori ed all'assegnatario, la gestione del contratto non pertiene al locatore-proprietario esecutato, ma al locatore-custode e le azioni che da esso scaturiscono – nella specie per il pagamento dei canoni – devono essere esercitate, anche in caso di locazione non autorizzata, dal custode.

Il dato rilevante è quello della titolarità dei poteri di gestione e amministrazione dei beni pignorati e, correlativamente, della titolarità delle azioni che discendono da quel potere, che non è correlata ad un titolo convenzionale o unilaterale (la proprietà del bene e/o il contratto di locazione), bensì ad una relazione con il bene pignorato, qualificata come "custodia" in forza dell'investitura del giudice.

giovedì 14 maggio 2015

Assemblea. L’amministratore può mettersi al riparo dalle contestazioni che mettono in forse le delibere Convocazione in «sicurezza» (fonte: Il sole24Ore)

Articolo da Il Sole 24 Ore
Posta raccomandataposta elettronica certifica tafax, o consegna a mano, sono questi i mezzi che l’amministratore deve utilizzare per l’invio della convocazione di assemblea (articolo 66, comma 3, delle Disposizioni di attuazione del Codice civile dopo la legge 220/2012), pena l’invalidità delle delibere assunte per vizio di omessa convocazione. Tra l’altro, gli stessi mezzi, con le stesse accortezze, si possono utilizzare per l’invio del verbale di assemblea. 
La convocazione deve essere scritta e personale, non essendo sufficiente l’affissione dell’avviso nella portineria o in bacheca o nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati neanche quando è obbligatoria come per la convocazione avente ad oggetto le modificazioni delle destinazioni di uso, per la quale è, comunque, previsto l’invio mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici (articolo 1117 – ter, comma 2).
La spedizione della convocazione mediante posta raccomandata con ricevuta di ritorno permette di raggiungere la prova dell’avvenuto invio, mediante l’esibizione della distinta di spedizione della raccomandata, contenente l’avviso di convocazione, «integrata dalla presunzione che le raccomandate consegnate alla posta arrivano a destinazione e dal successivo comportamento del destinatario» (Cassazione, sentenza 2148/1987).
L’inserimento dell’avviso di convocazione nella cassetta della posta delle lettere del condomino è alla base della «ragionevole presunzione» della conoscenza dell’avviso, posto che si verifichi la fattispecie dell’articolo 1335 del Codice civile, cioè un’attività materiale idonea a portare l’atto nella sua sfera di conoscibilità del condòmino.
Per la giurisprudenza di legittimità «è irrilevante che un condomino, respingendo la raccomandata pervenutagli nei termini, si sia posto in condizione di non poter conoscere la data di convocazione» (Cassazione, sentenza 196/1970), in quanto ai fini della validità dell’assemblea «è sufficiente che l’invito all’assemblea, indipendentemente dalla sua effettiva conoscenza, sia stato regolarmente fatto ad ogni condomino» (Cassazione, sentenza 6863/1982).
È ovvio che quando un condòmino agisca per far valere l’invalidità della delibera assembleare, adducendo la sua mancata convocazione, incombe sul condominio l’onere di provare che tutti i condòmini siano stati tempestivamente avvisati della convocazione (Corte d’appello di Roma, sentenza 967/2010), così come nel caso di convocazione spedita in busta raccomandata e il destinatario contesti il contenuto della busta medesima: in tal caso è onere del mittente provarlo (Cassazione, sentenza 4482/2015).
È quindi consigliabile che l’amministratore utilizzi, invece della busta, un “plico” vale a dire il foglio su cui viene redatto l’avviso di convocazione all’assemblea, ripiegato e chiuso sui lati con l’indirizzo del destinatario, il mittente e l’affrancatura posti sulla parte esterna del foglio. In tal modo, il destinatario del plico contenente l’avviso di convocazione non ha possibilità, esibendo il plico stesso che ha ricevuto, di contestarne il contenuto.
La convocazione può essere consegnata anche a mano ma deve essere debitamente affrancata, annullata in un ufficio postale e, al momento del suo ritiro, che può essere fatto anche presso la portineria dello stabile, il condomino deve sottoscrivere una distinta valida come prova dell’avvenuta consegna.
Ammesso anche l’uso del fax come metodo di invio dell’avviso di convocazione anche se è opportuno, oltre che custodire la ricevuta, richiedere al destinatario di comunicare l’avvenuta ricezione del documento.
Valore probatorio, indiscusso, è invece riconosciuto all’invio della convocazione mediante l’uso della PEC, che fornisce la “certificazione” dell’invio e della ricezione della mail.
Escluso l’invio mediante la semplice mail, poiché solo alla posta certificata la legge riconosce il valore della tradizionale raccomandata (Tribunale di Genova, sentenza 3350/2014). 

martedì 12 maggio 2015

Ripartizione degli oneri condominiali: il condomino del pianterreno e le spese per l'ascensore (www.studiocataldi.it)

Con la sentenza n. 8823 del 30 aprile 2015, la II sezione civile della Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare ancora una volta i criteri di ripartizione degli oneri condominiali: in ipotesi di ricostruzione e manutenzione di scale ed ascensore la norma di riconoscimento è costituita dall'art. 1124 c.c., che impone una suddivisione delle spese per il 50% in ragione dei millesimi generali e per il 50% in ragione del piano, salvo che sussista un diverso accordo di ripartizione di natura negoziale approvato all'unanimità dai condomini.

Sulla base di tale assunto, la Corte ha ritenuto di accogliere il ricorso del proprietario di una porzione immobiliare situata al piano terra di un condominio a sei piani, di cui solo i primi cinque raggiungibili per mezzo dell'ascensore. 

In particolare, il condomino, risultato soccombente in entrambi i gradi di giudizio, lamentava, in primo luogo, l'invalidità della tabella relativa alle spese dell'ascensore, poiché la stessa considerava erroneamente il suo appartamento come sito al primo piano anziché al pianterreno - con conseguente attribuzione millesimale eccedente a quella dovuta - e includeva nel computo anche l'ultimo piano non servito dall'ascensore, in secondo luogo, l'illegittimità del criterio di ripartizione approvato dall'assemblea, che stabiliva l'onere contributivo per il 40% in proporzione all'altezza e per il 60% in proporzione alla proprietà in contrasto con il combinato disposto degli artt. 1123 e 1124 c.c. 

Cassando con rinvio la sentenza impugnata, la Suprema Corte rilevava come il giudice di seconde cure avesse omesso di chiarire se la deroga al criterio legale fosse stata approvata all'unanimità, invero, "il suddetto accordo unanime occorreva, in quanto non è conforme al disposto dell'art. 1224 cc. né la suddivisione al 40/60% (anziché al 50/50%) della spesa secondo i valori e le altezze, né l'inclusione della proprietà individuale al piano terra nel riparto secondo l'altezza dato che il ricorrente è bensì servito dall'ascensore, non però per il suo appartamento, ma per i locali condominiali al sesto piano, che possono essere raggiunti in ascensore fino al quinto piano; ed è in questo presupposto che la sua partecipazione alla spesa avrebbe dovuto essere calcolata".
(autore: Avv. Laura Bazzan)

lunedì 11 maggio 2015

Condominio: Cassazione, tutti i condomini concorrono alle spese delle terrazze a livello. Anche se sono di uso esclusivo (StudioCataldi.it)

Al pari del lastrico solare anche per le terrazze a livello, attribuite in uso esclusivo, tutti i condomini devono concorrere al pagamento delle spese necessarie per la riparazione o la ricostruzione, in ragione dell’utilità che gli altri alloggi sottostanti possono trarre dalla terrazza stessa. 
A precisarlo è la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 18164 del 25 agosto 2014, è tornata ad occuparsi della ripartizione delle spese in materia condominiale, ribadendo principi già affermati dalla costante giurisprudenza (tra cui Cass. n. 3672/1997) e rigettando il ricorso di un condomino condannato in appello a partecipare al risarcimento dei danni e alle spese per i lavori da eseguire ai sensi dell’art. 1126 c.c., a causa delle infiltrazioni d’acqua provenienti dal soprastante terrazzo a livello di pertinenza e proprietà esclusiva del condomino convenuto.
Condividendo le statuizioni della Corte d’Appello, i giudici di legittimità hanno chiarito, che, poiché il lastrico solare dell’edificio, e dunque la terrazza a livello allo stesso equiparata, “svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all’obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietariosuperficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo”. Così come, degli eventuali danni cagionati agli appartamenti sottostanti (come, nel caso di specie, per le infiltrazioni d’acqua), a causa della cattiva manutenzione, “rispondono tutti gli obbligati, inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c.”. 
Né, può rilevare, secondo la Cassazione, ai fini della ripartizione delle spese, il fatto che gli eventuali danni possano essere stati provocati “da difetti in ipotesi ricollegabili alle caratteristiche costruttive”. 
Infatti, l’obbligo dei condomini cui il lastrico solare serve di copertura di concorrere nella ripartizione delle spese, trova fondamento, ha affermato la Suprema Corte, “non già nel diritto di proprietà del lastrico medesimo, ma nel principio in base al quale i condomini sono tenuti a contribuire alle spese in ragione dell’utilitas che la cosa da riparare o da ricostruire è destinata a dare ai singoli appartamenti sottostanti”.



(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 8 maggio 2015

La tutela si estende alle parti private: possibilità più ampie per l'amministratore (da Il Sole 24 Ore)


Articolo da Il Sole 24 Ore:
L’amministratore interviene anche a difesa delle parti private: la Corte di cassazione (sentenza 8512/2015) ha dato un importante chiarimento in materia di articolo 1669 del Codice civile («Rovina e difetti di cose immobili»), precisando che in tale contesto l’amministratore può agire «a tutela indifferenziata dell’edifico nella sua unitarietà», senza distinzione fra parti comuni e parti private.
Con sentenza depositata nel 1999 la Corte d’Appello di Trento confermava la sentenza del Tribunale che aveva condannato l’impresa costruttrice (venditore-costruttore) a risarcire i danni causati al condominio per «rovina di edificio» (quindi in sostanza per lavori male eseguiti) in base all’articolo 1669 del Codice civile.
Contro tale decisione ha proposto ricorso l’impresa, sostenendo fra le altre cose che l’amministratore avrebbe avuto legittimazione (processuale) ad agire solo per quanto riguarda le parti comuni (appunto condominiali) dell’edificio, e non anche per quelle di proprietà esclusiva dei singoli condomini.
La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso, ha osservato invece come la distinzione prospettata dalla società ricorrente non rileva: questo in quanto è risultato nel corso del giudizio che le infiltrazioni riguardavano le parti dei balconi da considerare bene condominiale, «in quanto funzionali all’estetica dell’edificio», rilevando inoltre come fosse emerso che «ai fini della eliminazione dei gravi difetti concernenti le parti comuni dell’edificio, si rendeva necessario intervenire anche sulle parti di proprietà esclusiva».
La Cassazione, infine, nel consueto intento di non fornire una risposta relativa al solo caso specifico sottoposto alla loro attenzione, ma anche di indicare un principio di diritto al quale attenersi in eventuali casi analoghi, ha specificato che si è progressivamente ampliata, nel corso degli ultimi anni, l’interpretazione dell’articolo 1130, n. 4, del Codice civile, che prevede il potere-dovere dell’amministratore di compiere atti conservativi a tutela delle parti comuni dell’edificio, «fino ad affermare la legittimazione dell’amministratore del condominio a promuovere l’azione di cui all’articolo 1669 del Codice civile a tutela indifferenziata dell’edificio nella sua unitarietà». E tale legittimazione si può anche esercitare, sempre secondo la Corte, in un contesto nel quale i pregiudizi derivino da vizi afferenti le parti comuni dell’immobile, ancorché interessanti di riflesso anche quelli costituenti proprietà esclusiva dei condomini.
In sostanza, qualora un amministratore intenda proporre una azione contro il costruttore per «rovina di edifico» in base all’articolo 1669, non si può limitarne il mandato alle sole parti comuni ma va comunque considerato esteso anche a quelle private.

giovedì 7 maggio 2015

I rapporti tra amministratore di condominio e condomini: l’inizio e la fine di un “amore”. L’analisi dei requisiti per la nomina, la revoca e le dimissioni. Dubbi interpretativi e approfondimenti. (www.StudioCataldi.it)

da Studiocataldi.it
La materia condominiale è stata oggetto di recente riforma dalla Legge 11 dicembre 2012 n. 220, entrata in vigore il 18 giugno 2013, che ha modificato il capo del codice civile dedicato al condominio negli edifici (artt. 1117 e ss.).
Le modifiche hanno riguardato diversi aspetti della disciplina condominiale e, in particolare, l’amministrazione dello stabile, per il quale si registrano ulteriori interventi regolamentari.
Cerchiamo brevemente di inquadrare la figura dell’amministratore di condominio e la natura giuridica dell’incarico.
Per come si evince dall’art. 1130 c.c., l’amministratore è l’organo di gestione e rappresentanza del condominio; la sua figura è riconducibile a quella del mandatario con rappresentanza, per come evincibile anche dal disposto dell’art. 1129 c.c. il quale, per tutto quanto non espressamente disciplinato rimanda, appunto, alle norme sul mandato (artt. 1703-1741).
In altri termini, l’amministratore di condominio è quella figura (mandatario) che, in virtù di contratto, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici nell'interesse di un altro soggetto (mandante).
Nel previgente regime, nel silenzio della legge, tutti potevano ricoprire siffatto incarico, considerato che non erano richiesti particolari requisiti, fatta salva la capacità d’agire. Con l’attuale disciplina e, in particolare, con la formulazione dell’art. 71bis disp. att. c.c., sono stati stabiliti i requisiti minimi per poter rivestire detto incarico:
Possono svolgere l'incarico di amministratore di condominio coloro: a) che hanno il godimento dei diritti civili; b) che non sono stati condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni; c) che non sono stati sottoposti a misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione; d) che non sono interdetti o inabilitati; e) il cui nome non risulta annotato nell'elenco dei protesti cambiari; f) che hanno conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado; g) che hanno frequentato un corso di formazione iniziale e svolgono attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.
I requisiti di cui alle lettere f) e g) del primo comma non sono necessari qualora l'amministratore sia nominato tra i condomini dello stabile.
Possono svolgere l'incarico di amministratore di condominio anche società di cui al titolo v del libro v del codice. In tal caso, i requisiti devono essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condominii a favore dei quali la società presta i servizi…”.
E’ chiaro che con la riforma il legislatore abbia voluto dare un taglio più specialistico a questa figura e, in particolare, per coloro i quali gestiscono più di un condominio, come gli amministratori professionali. Al contrario, per coloro che svolgono detto compito in via occasionale, si fa esplicito riferimento al solo caso in cui ad amministrare il condominio sia nominato uno dei partecipanti, questi non avrà bisogno di una particolare istruzione scolastica né di una specifica formazione.
Qualora viene meno anche uno solo dei requisiti (essenzialmente morali) di cui alle lettere da a) ad e), l’amministratore cessa dall’incarico e ciascun condomino, senza formalità particolari, può convocare l’assemblea per la nomina del nuovo amministratore. Si ritiene, tuttavia, che fino alla nomina del nuovo amministratore, il precedente, se pur cessato di diritto dalla carica, in virtù dell’istituto della prorogatio imperii sia comunque tenuto ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni ma, comunque, senza diritto ad ulteriori compensi.
La riforma ha cercato di disciplinare ogni singolo aspetto della vita in condominio, partendo proprio dal suo amministratore, per il quale sono previsti obblighi sempre più stringenti, probabilmente a cagione della peculiarità della figura che, spesso, non gode di eccessive simpatie: “Una ricerca presentata a Made Expo da Accelera, su incarico di Manager Immobiliari, su un campione di 300 famiglie in tutta Italia, il 53,7% “tutto sommato” apprezzano la figura dell’amministratore, il 51,7% lo ritiene “abbastanza” trasparente. Ma quando gli si chiede se lo consiglierebbe a parenti ed amici ben il 44,9% dice no. E per il 76,9% il suo compenso è sconosciuto (Fr. Ma.Gr.)” (Fonte: Guida al Diritto, Il Sole 24 Ore).

Come accennato, chi vuole intraprendere detta carriera, sia in forma individuale che societaria - nel qual caso i requisiti dovranno essere posseduti dai soci illimitatamente responsabili, dagli amministratori e dai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministrazione dei condominii a favore dei quali la società presta i servizi - deve partecipare ad un corso di formazione iniziale della durata di almeno 72 ore e, successivamente, con cadenza annuale, frequentare corsi di aggiornamento di almeno 15 ore (art. 5 DM 140/2014).

La formazione iniziale è obbligatoria per (quasi) tutti gli amministratori, ne sono esentati colori i quali hanno svolto tale attività, per almeno un anno, nel periodo compreso tra il 18 giugno 2010 e il 18 giugno 2013, mentre i corsi di aggiornamento sono indispensabili per la generalità degli stessi.

Con una nota diffusa sul sito del Ministero della giustizia, in data 14 ottobre 2014, si è ufficialmente dato inizio ai predetti corsi, con la necessità dell’invio al Ministero - a mezzo pec - dell’indicazione dei dati relativi ai corsi di formazione e, nello specifico: la data di inizio; le modalità di svolgimento; il nominativo dei formatori e dei responsabili scientifici.

Ma passiamo alle modalità di nomina dell’amministratore.

Ricordiamo dapprima che la nomina dell’amministratore è vincolante quando i condomini sono più di otto (i condomini proprietari di più immobili nel medesimo stabile, ai fini del calcolo, vengono considerati sempre come una sola unità) e, in caso di inerzia dell’assemblea, la nomina può essere fatta dall’autorità giudiziaria su ricorso di uno o più condomini ovvero dell’amministratore dimissionario.

Chiaramente, essendo l’atto di nomina un atto privatistico (se pur condizionato da preminenti interessi sociali nel caso i condomini siano più di otto, così si giustifica l’intervento dell’autorità giudiziaria nei casi di inattività dell’assemblea), rimane nella facoltà dei condomini incaricare un amministratore quand’anche non si raggiunga il numero di condomini necessario a far scattare l’obbligo della nomina.

Nell’ipotesi di nomina obbligatoria dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1136 c. IV c.p.c., è necessaria la maggioranza dei condomini intervenuti in assemblea che rappresenti almeno la metà dei millesimi degli appartenenti al condominio (500).

La nuova formulazione dell’art. 1136 c.c., che ha ridotto il quorum necessario alla regolare costituzione dell’assemblea, pur lasciando inalterato quello per la validità delle deliberazioni, non ha risolto i dubbi interpretativi emersi ante riforma in relazione alle maggioranze necessarie per la nomina dell’amministratore in seconda convocazione; da un lato, infatti, si sosteneva che nelle materie indicate dall’art. 1136 c. IV c.c., tra le quali la nomina dell'amministratore, per le deliberazioni assunte in seconda convocazione il richiamo alle maggioranze stabilite dall’art. 1136 c. II c.c. non valeva ad estendere il quorum costitutivo dell'assemblea in prima convocazione (Cass. 09/02/1980, n. 901; Cass. 26/04/1994, n. 3952), dall’altro, in particolare la dottrina, condivisa da parte della giurisprudenza (Cass. 04/05/1994, n. 4269), sosteneva che, dal combinato disposto dagli artt. 1129, 1136 e 1138 c.c., non sarebbe stata possibile una investitura con maggioranze diverse da quelle indicate dall’art. 1136 c. II e IV c.c.

Come detto, la modifica del 2012 non ha risolto detti dubbi interpretativi, tuttavia, anche in virtù della ratio della riforma che, per semplificare la vita in condominio ha inteso abbassare i quorum costitutivi, appare preferibile la tesi che ritiene applicabile in seconda convocazione il (nuovo) disposto dell’art. 1136 c. III c.c., e tanto anche per non ostacolare le attività condominiali con maggioranze troppo elevate.

Viceversa, quando i condomini sono meno di otto e, quindi, in ipotesi di nomina facoltativa (si pensi ad esempio al condominio minimo con soli due partecipanti), sembrerebbero non necessarie per la validità della nomina le anzidette maggioranze qualificate, dovendosi piuttosto fare riferimento a quelle per la comunione (artt. 1105 e segg.) e, pertanto, la maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote.

Nel caso in cui, per i più svariati motivi, l’assemblea non riesca a nominare un amministratore la nomina è fatta dall’autorità giudiziaria (art. 1129 c. I c.c.), con ricorso - anche di un solo condomino - secondo le modalità di cui all’art. 59 disp. att. c.c.: "La domanda per la nomina dell'amministratore …. , se non è proposta in corso di giudizio, si propone con ricorso al presidente del tribunale: nel caso di nomina dell'amministratore, al presidente del tribunale del luogo in cui si trovano gli immobili o si trova la parte più rilevante di essi. Il presidente del tribunale provvede con decreto, sentita l'altra parte. Contro tale provvedimento si può proporre reclamo al presidente della corte d'appello nel termine di dieci giorni dalla notificazione".

L’amministratore dura in carica 1 anno - da intendersi quale anno solare (365 giorni) - con rinnovo tacito del suo mandato di eguale durata (1 + 1) se l’assemblea non decide di revocarlo.

Detta norma ha risolto i dubbi interpretativi sollevati dalla precedente formulazione dell’art. 1129 c.c. - laddove si dibatteva se la nomina e la conferma dell’amministratore fossero assoggettate alle stesse maggioranze (la Cassazione si era espressa in senso affermativo avendo effetti giuridici identici: Cass. 4/04/1994 n. 4269) -, infatti, decorsa la doppia annualità, l’amministratore cessa ex lege dall’incarico ed è tenuto a convocare l’assemblea del condomini per la nomina del nuovo amministratore che, ovviamente, può essere lo stesso.

Nelle more, e fino alla nomina del nuovo amministratore, l’uscente protrae le sue funzioni in virtù dell’istituto della prorogatio visto prima, questa volta con diritto al regolare compenso. A tal proposito giova ricordare che l’amministratore conserva i suoi poteri anche nel caso la delibera di nomina o revoca sia stata impugnata davanti all’autorità giudiziaria ovvero se decaduto per scadenza del mandato (Cass. 14/05/2014 n. 10607).

L’art. 1129 c.c., all’undicesimo comma, stabilisce come e perché l’amministratore può essere revocato.

1) Innanzitutto per volontà dell’assemblea in qualsiasi momento con le maggioranze previste per la sua nomina. E’ il caso in cui viene meno il “gradimento” da parte dei condomini;

2) su ricorso all’autorità giudiziaria (tribunale), da parte di ciascun condomino, allorquando non comunica all’assemblea i provvedimenti dell’autorità amministrativa o citazioni che esulano dalle sue attribuzioni (art. 1131 c.c.) ovvero in caso di omessa rendicontazione o gravi irregolarità;

3) sempre dall’autorità giudiziaria, su ricorso di ciascun condomino, ma solo dopo convocazione dell’assemblea con esito negativo (una sorta di condizione di procedibilità), in caso siano emerse gravi irregolarità fiscali imputate all’amministratore o per la mancata apertura ed utilizzazione del conto intestato al condominio. Nel qual caso, l’accoglimento della domanda, abilita il ricorrente alla rivalsa delle spese legali nei confronti del condominio che, a sua volta, avrà titolo per rifarsi nei confronti dell'amministratore revocato.

Il provvedimento di revoca da parte dell’autorità giudiziaria, rientrando nell’alveo della volontaria giurisdizione, risulta reclamabile avanti la corte d’appello che decide con decreto non ricorribile per cassazione, ad eccezione del capo relativo alle eventuali statuizioni sulle spese di giudizio.

L’art. 1129 c.c. specifica quali possono essere le “gravi irregolarità”, si tratta, tuttavia, di ipotesi non esaustive, ulteriori fattispecie infatti sono state enucleate nel tempo dalla giurisprudenza.

Tra queste la norma richiamata contempla: 1) l’omessa convocazione dell'assemblea per l'approvazione del rendiconto condominiale, il ripetuto rifiuto di convocare l'assemblea per la revoca e per la nomina del nuovo amministratore o negli altri casi previsti dalla legge; 2) la mancata esecuzione di provvedimenti giudiziari e amministrativi, nonché di deliberazioni dell'assemblea; 3) la mancata apertura ed utilizzazione del conto di cui al settimo comma; 4) la gestione secondo modalità che possono generare possibilità di confusione tra il patrimonio del condominio e il patrimonio personale dell'amministratore o di altri condomini; 5) l’aver acconsentito, per un credito insoddisfatto, alla cancellazione delle formalità eseguite nei registri immobiliari a tutela dei diritti del condominio; 6) qualora sia stata promossa azione giudiziaria per la riscossione delle somme dovute al condominio, l’aver omesso di curare diligentemente l'azione e la conseguente esecuzione coattiva; 7)l’inottemperanza agli obblighi di cui all’articolo 1130, numeri 6), 7) e 9); 8) l’omessa, incompleta o inesatta comunicazione dei dati di cui al secondo comma del presente articolo.

Nei giudizi di revoca giova ricordare che legittimato passivo è solo l’amministratore di condominio, per cui non risulta necessaria alcuna delibera o ratifica da parte dell’assemblea in merito alla costituzione in giudizio dello stesso e che, versando in ipotesi di risoluzione contrattuale, l’onere della prova è a carico del condomino(i) ricorrente.

Il menzionato art. 1129 c.c. dispone, infine, che l'assemblea, in caso di revoca da parte dell'autorità giudiziaria, non può nominare nuovamente l'amministratore revocato.

Per completezza, si rammenta che l’amministratore, all'atto dell'accettazione della nomina e del suo rinnovo, deve specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta.

Deve vieppiù comunicare i propri dati anagrafici e professionali, il codice fiscale, o, se si tratta di società, anche la sede legale e la denominazione, il locale ove si trovano i registri di anagrafe condominiale, dei verbali delle assemblee, di nomina e revoca dell'amministratore e del registro di contabilità, nonché i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta all'amministratore, può prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia da lui firmata.

L'amministratore è obbligato a far transitare le somme ricevute a qualunque titolo dai condomini o da terzi, nonché quelle a qualsiasi titolo erogate per conto del condominio, su uno specifico conto corrente, postale o bancario, intestato al condominio; ciascun condomino, per il tramite dell'amministratore, può chiedere di prendere visione ed estrarre copia, a proprie spese, della rendicontazione periodica.

Alla cessazione dell'incarico l'amministratore è tenuto alla consegna di tutta la documentazione in suo possesso afferente al condominio e ai singoli condomini e ad eseguire le attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni senza diritto ad ulteriori compensi.

Passiamo, infine, al caso delle dimissioni dell’amministratore.

Appare evidente che la nomina ad amministratore di condominio non rappresenta né una investitura divina, potendo essere revocato in qualsiasi momento dall’assemblea ma, neppure, una prigionia (paradossale ritenere che la carica sia irrinunciabile), ben potendo lo stesso dimettersi.

Ciò avviene principalmente nel caso in cui i condomini si disinteressano totalmente alla vita condominiale, non partecipando alle assemblee e, soprattutto, non versando le quote condominiali necessarie alla gestione del condominio.

In proposito un breve inciso.

In simili fattispecie occorrerebbe intervenire tempestivamente riunendo l’assemblea - anche in via straordinaria - al fine di reperire le somme necessarie all’esistenza in vita del condominio e avviare, contestualmente, tutte le procedure per il recupero coattivo del credito nei confronti del condomino moroso; magari fino alle estreme conseguenze, con il pignoramento dell’immobile in caso di persistente morosità.

Tuttavia queste procedure risultano oltre modo dispendiose, sia in termini economici che di tempo, pertanto, si è diffuso l’insano metodo di far fronte alle spese condominiali correnti con fondi personali dell’amministratore.

I motivi di detta pratica risultano facilmente comprensibili, primo tra tutti quello di non “inimicarsi” i condomini che risultano in regola con i pagamenti, sui quali normalmente andrebbero ribaltate e ripartite le quote di pertinenza dei condomini morosi e ciò per far fronte alle spese quotidiane dello stabile (energia elettrica, pulizia, amministrazione, manutenzione, ecc.).

Il più delle volte, quindi, per sopperire alla carenza di liquidità del condominio, l’amministratore provvede personalmente a ripianare le casse condominiali deficitarie, salvo poi esigere la restituzione delle anticipazioni effettuate una volta revocato ovvero dimessosi.

Questo modus operandi potrebbe risultare estremamente incauto e non privo di sorprese, stante le difficoltà che si potrebbero incontrare nel recupero del credito.

La giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto richiede, infatti, la prova rigorosa delle anticipazioni effettuate dall’amministratore.

Appare pleonastico ricordare come le singole partite di spesa devono essere sempre preventivamente approvate dall’assemblea, salvo i casi di urgenza, comunque anch’essi da dimostrare. In mancanza il credito non potrebbe essere considerato esigibile.

Tanto è vero che, l’amministratore di condominio non ha - salvo quanto previsto dagli artt. 1130 e 1135 c.c. in tema di lavori urgenti - un generale potere di spesa, in quanto spetta all’assemblea condominiale il compito generale non solo di approvare il conto consuntivo, ma anche di valutare l’opportunità delle spese sostenute dall'amministratore; ne consegue che, in assenza di una deliberazione dell'assemblea, l'amministratore non può esigere il rimborso delle anticipazioni da lui sostenute (Cass. 27/06/2011 n. 14197).

E’ pur vero che l’approvazione del rendiconto ha valore di riconoscimento di debito, ma ciò solo per le poste passive specificamente indicate. Pertanto, non è sufficiente che il rendiconto di cassa presenti un disavanzo tra uscite ed entrate, atteso che non si può ritenere in via deduttiva che la differenza sia stata versata dall’amministratore utilizzando denaro proprio, ovvero che questi sia comunque creditore del condominio per l'importo corrispondente, atteso che la ricognizione di debito, sebbene possa essere manifestata anche in forma non espressa, richiede pur sempre un atto di volizione su di un oggetto specificamente sottoposto all’esame dell’organo collettivo, chiamato a pronunciarsi su di esso.

Ciò posto l’approvazione del rendiconto dell’amministratore recante un importo di spese superiore a quello dei contributi condominiali pagati dai condomini, può valere come riconoscimento di debito da parte di tutti i condomini in favore dell’amministratore, ma solo limitatamente alle poste a debito dei condomini che siano state indicate nel rendiconto con sufficiente specificità e chiarezza (Cass. 09/05/2011 n. 10153. Si confronti anche: Cass. 28/05/2012 n. 8498Cass. 04/07/2014 n. 15401).

In assenza dei requisiti e delle specificità delineate dalla giurisprudenza di legittimità l’eventuale credito dell’amministratore, rinveniente dalle anticipazioni effettuate in favore del condominio, potrebbe non risultare esigibile.

Come dicevano, le prospettate difficoltà nella gestione del condominio spesso portano gli amministratori più accorti a rassegnare le dimissioni.

Nella previgente disciplina condominiale, ma anche nell’attuale, salvo un vago riferimento (peraltro procedurale) nel novellato art. 1129 c. I c.c., il legislatore non ha disciplinato la suddetta ipotesi di dimissioni, tuttavia, non può ritenersi pensabile che lo stesso sia vincolato “a vita” alle sorti del condominio.

Occorre, infatti, sempre tenere ben presente - come detto - che la figura dell’amministratore è riconducibile a quella del mandatario con rappresentanza, pertanto, per tutto quanto non espressamente regolato dalla speciale disciplina “Del condominio negli edifici”, si deve fare riferimento alle norme generali sul mandato (artt. 1703-1741), ora come allora.

Specie nei casi sopra visti di diffusa morosità dei condomini, nell’impossibilità di gestire normalmente la cosa comune, le dimissioni possono e debbono essere giustificate dalla circostanza per la quale il mandante (condominio) è tenuto a fornire al mandatario (amministratore) i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni (art. 1719).

Nella ricorrenza di questi presupposti l’amministratore dimissionario non deve fare altro che comunicare formalmente al condominio la propria volontà e, quindi, convocare l’assemblea perché provveda alla nomina del nuovo amministratore.

Nell’inerzia dell’assemblea l’amministratore, già nel sistema normativo previgente e, a maggior ragione, in quello attuale (art. 1129 c. I c.c.), può adire l’autorità giudiziaria affinché provveda alla nomina del suo successore.

Tale giudizio - inquadrabile nei procedimenti di volontaria giurisdizione, di natura camerale e non contenziosa - viene definito innanzi al tribunale dove ha sede l’immobile, anche con la refusione delle spese giudiziali (cfr.: Cass. 26/06/2006 n. 14742) sostenute dal ricorrente che, pertanto, dovrebbe essere tenuto indenne da qualsiasi esborso economico.





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