giovedì 30 luglio 2015

Condizionatore rumoroso? Va risarcito il danno esistenziale e il danno alla salute ma per quest'ultimo serve documentazione medica Fonte:(www.StudioCataldi.it)

Anche un semplice condizionatore può produrre rumori che superano la normale tollerabilità (V. art. 844 codice civile), specialmente quando resta in funzione anche nelle ore notturne.

Ma se si intende richiedere anche il risarcimento del danno alla salute è necessario produrre della documentazione medica oppure una consulenza tecnica di parte da cui risulti una lesione di carattere psicofisico riconducibile ai rumori.

È quanto emerge da una sentenza della Corte di Cassazione (la numero 10173/2015 qui sotto allegata) secondo cui il condomino che ha subito immissioni di rumori molesti può ottenere sia il risarcimento del danno esistenziale sia il risarcimento del danno biologico, ma quest'ultimo deve essere documentato.

Nel caso di specie due condomini, esasperati per il propagarsi nel loro appartamento di rumori provenienti da un impianto di climatizzazione installato da alcuni vicini, avevano chiesto giudizialmente il risarcimento dei danni subiti e la condanna dei proprietari dell'impianto ad eseguire opere per ridurne la rumorosità.

In primo grado il giudice di pace aveva accolto in parte la domanda condannando i proprietari del climatizzatore al risarcimento del danno esistenziale liquidato nella somma di € 1100 per ciascuna parte.
Con la stessa sentenza aveva condannato i proprietari dell'impianto ad eseguire le opere necessarie per ridurre le immissioni

In appello i danneggiati avevano lamentato che il primo giudice non aveva riconosciuto loro il risarcimento del danno alla salute e che non era stata ammessa la consulenza tecnica d'ufficio da loro richiesta per dimostrare la lesione di carattere psico-fisico.

Secondo la Cassazione però, per poter ammettere una consulenza tecnica d'ufficio è necessario che vi sia almeno un principio di prova del danno che si intende dimostrare (e nella specie sarebbe bastata della documentazione medica o una consulenza di parte). In mancanza di tale documentazione, una CTU avrebbe assunto un carattere meramente esplorativo e come tale inammissibile.




(www.StudioCataldi.it) 

lunedì 27 luglio 2015

Il nuovo articolo 2929 bis c.c. e l'azione revocatoria Fonte: www.StudioCataldi.it

Con il Decreto Legge n. 83 del 27 giugno 2015, che ha ad oggetto l'introduzione di misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria, nel codice civile è stato inserito l'art. 2929 bis, rubricato “Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito”, il quale, nei fatti, introduce nel nostro ordinamento una sorta di “revocatoria di legge” e può essere applicato alle procedure avviate dopo l'entrata in vigore del decreto.

La previsione dell'art. 2929 bis c.c.
Il nuovo articolo prevede che i beni immobili e i beni mobili registrati possono essere oggetto di esecuzione forzata anche se sottoposti a vincolo di indisponibilità o se oggetto di alienazione a titolo gratuito, sempre che il vincolo o l'alienazione siano successivi all'insorgere del credito e purché il pignoramento venga effettuato entro un anno dalla trascrizione del vincolo o dell'alienazione.
In caso di alienazione a titolo gratuito, l'espropriazione potrà essere effettuata anche direttamente nei confronti del terzo acquirente.
In sostanza, con il nuovo strumento il creditore non dovrà più attendere l'emanazione di una sentenza dichiarativa di inefficacia dell'atto compiuto in suo danno dal debitore, la cui mala fede diviene presunta.

Atti di disposizione oggetto della previsione
Il vincolo di indisponibilità cui si riferisce l'art. 2929 bis c.c. può essere apposto attraverso, ad esempio, la costituzione di un fondo patrimoniale, la costituzione del trust, la costituzione di un patrimonio societario separato.
La nuova disposizione fa poi riferimento all'alienazione a titolo gratuito, ovverosia a quella avvenuta attraverso atti di donazione.

Applicabilità della nuova previsione
La previsione introdotta dal D.L. n. 83/2015 si applica, oltre che ai creditori che promuovano l'esecuzione forzata, anche ai creditori anteriori che intervengano nell'esecuzione forzata promossa da altri entro un anno dalla trascrizione del vincolo o dell'alienazione.

I rapporti con l'azione revocatoria
Prima dell'introduzione dell'art. 2929 bis nel codice civile, l'unico strumento che tutelava i creditori lesi da atti posti in essere dai debitori al fine di sottrarre beni in loro possesso dall'esecuzione forzata e inficiare, quindi, gli elementi di garanzia patrimoniale era l'azione revocatoria.
In sostanza, con l'azione revocatoria il creditore poteva solo agire in giudizio per far valere i propri diritti e ottenere la dichiarazione di inefficacia nei suoi confronti degli atti di disposizione patrimoniale posti in essere in suo danno.
Ciò in presenza di un pregiudizio arrecato da un atto dispositivo del debitore alle ragioni del creditore, della consapevolezza da parte del debitore di ledere gli interessi del creditore e, in caso di pregiudizio posto in essere attraverso un atto a titolo oneroso, della conoscenza del pregiudizio da parte del terzo.
Oggi invece, pur permanendo in capo al creditore la possibilità di ricorrere all'azione revocatoria, essa non è più indispensabile nel primo anno dalla trascrizione del vincolo o dell'alienazione e l'emanazione di una sentenza dichiarativa di inefficacia dell'atto dispositivo non costituisce più l'unico strumento per consentire la tutela delle ragioni creditorie.
Solo decorso tale termine, il vecchio strumento rimarrà l'unico del quale i creditori potranno avvalersi.

Le conseguenze pratiche del nuovo art. 2929 bis c.c.
Le conseguenze pratiche che il nuovo art. 2929 bis del codice civile porta con sé sono di certo degne di particolare nota.
Al di là dell'evidente incremento di tutela che comporta in favore delle garanzie patrimoniali dei creditori, la nuova disposizione incide negativamente sul diritto di difesa del debitore, il quale potrà tutelarsi dall'espropriazione solo attraverso l'opposizione all'esecuzione.
Ciò determina, a differenza di quanto avviene in caso di esperimento dell'azione revocatoria, che le spese processuali per l'accertamento della buona fede del debitore dovranno essere anticipate da quest'ultimo e, soprattutto, il rischio che l'immobile eventualmente oggetto di disposizione venga venduto all'asta o debba essere abbandonato dal debitore già nelle more del giudizio di opposizione.


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giovedì 23 luglio 2015

Tetto di proprietà esclusiva? Per le spese va considerato come un lastrico - interpretazione dal sito www.condominioweb.com)

La questione del tetto esclusivo è spinosa e di non facile definizione.
Sul sito condominioweb.com si espone un'interpretazione…..
Il caso in questione riguarda un tetto assegnato ad un condomino in proprietà esclusiva negli atti di provenienza.

"…… raramente si sente dire che il tetto è di proprietà esclusiva; solitamente siamo abituati a sentir parlare di lastrico solare di uso o proprietà esclusiva.
E qui arriviamo alla prima, necessaria, precisazione: l'art. 1126 c.c. riguardi i lastrici in uso esclusivo; è stata la giurisprudenza ad estenderne l'applicazione, in via analogica, anche ai lastrici in proprietà esclusiva.
Ciò detto passiamo alla definizione di tetto e di lastrico, in modo da comprendere la differenza terminologica.
Il tetto è la copertura dell'edificio che si compone di due falde inclinate che si congiungono (così detto colmo del tetto).
Per lastrico solare, come afferma la Cassazione, "deve intendersi la superficie terminale dell'edificio che abbia la funzione di copertura - tetto delle sottostanti unità immobiliari, comprensivo di ogni suo elemento, sia pure accessorio, come la pavimentazione" (Cass. 13 dicembre 2013 n. 27942).
Il lastrico ha una superficie piana o comunque inclinata in misura non superiore al 5% rispetto ad un'ideale linea retta e questa particolare conformazione si presta, più del tetto, a più intense utilizzazioni per l'apposizione di macchine d'impianti, antenne, ecc.
La funzione prima, tuttavia, è la medesima: coprire l'edificio completandolo.
Tale analogia di funzione si riflette, secondo la Corte di Cassazione, anche sulla ripartizione delle spese nell'ipotesi in cui il tetto sia parte di proprietà esclusiva di uno dei condòmini.
In tal senso gli ermellini, correva l'anno 1985, hanno avuto modo di affermare che "allorquando il tetto di un edificio in condominio è di proprietà esclusiva di uno dei partecipanti alla comunione, le spese di manutenzione del tetto stesso vanno ripartite tra tutti i condomini con i criteri di cui all'art. 1126 c.c., come stabilito per i lastrici solari di uso esclusivo, salvo il caso in cui le dette spese siano poste a carico del proprietario esclusivo del tetto in base a una specifica ed espressa pattuizione, non potendosi altrimenti presumere che quest'ultimo per il solo fatto di essersi riservata la proprietà esclusiva, abbia inteso assicurare la copertura ai proprietari delle unità immobiliari sottostanti, con esonero dei medesimi da ogni concorso nelle spese di manutenzione del tetto" (Cass. 30 gennaio 1985 n. 532).
Il condominio/proprietario del tetto, quindi potrà rispondere così al suo amministratore chiedendo l'applicazione dei criteri di ripartizione previsti dall'art. 1126 c.c. e quindi sopportando un terzo della spesa, mentre i restanti due terzi dovranno andare a carico dei condòmini cui il lastrico funge da copertura, secondo i millesimi di proprietà.



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martedì 21 luglio 2015

La mancata registrazione del contratto di locazione ne determina la nullità (Fonte www.condominioweb.com)

Una recente sentenza chiarisce che la mancata registrazione di un contratto di locazione determina la nullità del contratto stipulato precisando che, il pagamento della sanzione e degli interessi maturati per l'illecito tributario, non sana il rapporto contrattuale nullo.
I locatori di un immobile intimano lo sfratto per morosità al conduttore, il conduttore si oppone allo sfratto adducendo di aver contestato svariati vizi ai proprietari dell'immobile nonché la mancata registrazione del contratto di locazione, avvenuta dopo un anno dalla sua stipula.
La sentenza del Tribunale di Roma, ignorando le eccezioni sollevate dal conduttore, dichiara risolto il contratto di locazione per inadempimento condannando quest'ultimo al pagamento di una somma pari all'importo dei canoni non versati oltre a quelli maturati dalla domanda di rilascio.
Il conduttore impugna tale pronuncia dinanzi alla Corte di Appello sostenendo che:
- con lettera raccomandata aveva comunicato ai locatori l'avvenuta risoluzione del contratto per inadempienze scaturenti dalla mancata eliminazione dei vizi dell'immobile locato,
- e ribadendo che l'omessa registrazione del contratto da parte dei locatori aveva determinato come effetto la nullità del rapporto contrattuale.
La quarta sezione della Corte di Appello di Roma ritiene fondata l'eccezione sollevata dall'appellante e cioè quella relativa alla nullità del contratto di locazione a fronte della sua mancata registrazione in virtù di quanto a tal proposito sancito dall'art. 1, comma 346, della legge n. 311/2004.
Osservano i giudici di secondo grado che mentre la nullità, in virtù del principio sancito dall'art. 1423 del codice civile, è per sua natura insanabile, un ragionamento diverso può effettuarsi per quanto concerne il mero illecito tributario che può essere sanato tramite il semplice pagamento della sanzione e dei relativi interessi, senza che ciò contribuisca in alcun modo a ripristinare un rapporto contrattuale ormai irrimediabilmente viziato da nullità assoluta, a tal proposito la sentenza evidenzia che “ il principio di indifferenza fra ambito negoziale ed ambito fiscale implica, piuttosto, che la sanatoria dell'illecito tributario non si estende di per sé alla disciplina contrattuale, in applicazione della quale si è nella fattispecie già integrata una nullità assoluta ai sensi dell'art. 1418 c.c.”
In tal modo, quindi, la corte romana evidenzia quindi che la nullità della locazione inizialmente non registrata non può in alcun modo considerarsi sanata in seguito alla tardiva registrazione del contratto, non potendo estendersi ai profili civilistici la sanatoria fiscale seguente al successivo adempimento dell'obbligo tributario inizialmente eluso.
La sentenza della Corte di appello in commento si conclude, quindi, con la dichiarazione della nullità del contratto di locazione e con il rigetto delle contrapposte domande di risoluzione unitamente alle domande di condanna al pagamento di: corrispettivi, indebiti e risarcimenti danni.
Gli effetti che scaturiscono dalla mancata registrazione di un contratto di locazione sono al centro di una serie di interventi legislativi che si sono succeduti nel corso degli anni.
Per analizzare tale disciplina occorre partire dall'esame del primo comma dell'art. 13 della legge n. 431/1998 che ha sancito la nullità di ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato. Tale precetto quindi si fonda sull'obbligo di registrazione del contratto di locazione, ma la giurisprudenza di legittimità ha provveduto a depotenziare la portata di tale norma provvedendo ad individuare lo scopo da questa perseguito e cioè quello di scongiurare che le parti possano stabilire un canone di locazione superiore rispetto a quello previsto dal contratto registrato (Cass. 27.10.2003 n. 16089, riguardo a tale questione la Cassazione con ordinanza n. 37 del 3 gennaio 2014 ha rimesso alla Sezioni Unite la decisione della questione della nullità del contratto di locazione non registrato).
Oltre a tale norma, la nullità del contratto di locazione non registrato risulta essere disciplinata dall'art. 1, comma 346 della legge n. 311/2004, norma alla quale fa riferimento come già detto la sentenza appena commentata, che espressamente statuisce che “ I contratti di locazione, o che comunque costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati”. La nullità del contratto non registrato prevista dalla norma appena menzionata, quindi, rientra fra quei casi di nullità previsti dalla legge ai quali fa riferimento l'ultimo comma dell'art. 1418 c.c..
Più recentemente, inoltre, la questione della nullità seguente alla mancata registrazione dei contratti di locazione è stata disciplinata dal decreto legislativo n. 23/2011, che introduce la cosiddetta cedolare secca sugli affitti, ed all'art. 3 commi 8 e 9 fa riferimento al trattamento sanzionatorio delle locazioni non registrate, ma l'intervento della Corte Costituzionale che con sentenza n. 50/2014 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tali norme sotto il profilo del difetto di delega crea nuove incertezze; infatti, malgrado la censura della Corte Costituzionale la legge n. 80 del 2014 ha fatto salvi i rapporti giuridici sorti fino al 31.12.2015 sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi dell'art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 23/2011.
Non può ignorarsi, a parere di chi scrive, la dubbia compatibilità di tale disposizione ripristinatoria rispetto alla disciplina dichiarata incostituzionale alla quale si è appena fatto riferimento, pertanto in materia di nullità scaturente dalla mancata registrazione del contratto di locazione occorre attendere le prossime mosse del legislatore per avere una visione più chiara della questione.



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lunedì 20 luglio 2015

Mediazione, termini perentori (fonte: Italia Oggi Sette)


Sentenza del tribunale di Firenze.
L'invio delle parti è una forma di potere discrezionale
Non si può sgarrare sull'introduzione del procedimento

In materia di mediazione delegata, il termine per l'introduzione del procedimento (ex comma 2, art. 5 dlgs 28/2010) è perentorio. I giudici della III sez. civ. del Tribunale di Firenze con sentenza dello scorso 9 giugno, evidenziano che l'invio delle parti in mediazione (c.d. mediazione delegata o disposta dal giudice) rappresenta una forma di potere discrezionale da parte dell'ufficio che può essere esercitato «valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti “sempreché non sia stata tenuta l'udienza di precisazione delle conclusioni. Ove la mediazione venga disposta, il suo esperimento è condizione di procedibilità della domanda giudiziale” (art. 5, II comma, dlgs citato)». Pertanto, il mancato esperimento della mediazione vizia irrimediabilmente il processo, impedendo l'emanazione di sentenza di merito. Il tribunale ha osservato come tale disciplina, finalizzata a favorire la conciliazione della lite con l'intervento di soggetto terzo imparziale, non ponga problemi di natura costituzionale e non appare neppure lesiva dei precetti di cui alla normativa sovranazionale sul diritto di azione e di accesso alla giustizia (si veda Carta di Nizza, Cedu). Tale termine per l'introduzione è, poi, perentorio e ciò può desumersi, anche in via interpretativa tutte le volte che, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, lo stesso debba essere rigorosamente osservato (in questo senso Cass. 14624/00, 4530/04). Osserva il giudice, a mo' di esempio che, infatti «non si dubita, che, il termine per proporre opposizione a decreto ingiuntivo di cui all'art. 641 c.p.c.» sia perentorio «sia perché tale procedimento presenta taluni caratteri del procedimento impugnatorio, la cui proposizione è secondo i principi generali sempre scandita da rigorosi termini processuali, sia perché la mancata osservanza di tale termine comporta esecutorietà del decreto ex art. 647 c.p.c.».

giovedì 16 luglio 2015

A chi appartiene l'intercapedine? (FONTE www.condominioweb.com)

La Corte di Cassazione attraverso una recente pronuncia stabilisce i criteri da seguire per stabilire a chi appartiene l'intercapedine che suddivide due unità immobiliari, rilevando che occorre far riferimento in primo luogo ai titoli di acquisto ed in assenza di tale riferimento occorre verificare, per stabilire a chi appartiene la proprietà, chi trae vantaggio dalla realizzazione di tale vano.
Il fatto. Il proprietario di una unità immobiliare collocato al primo piano di un edificio cita in giudizio il proprietario del piano superiore sostenendo che quest'ultimo aveva trasformato il tetto di copertura in terrazzo praticabile creando servitù di veduta e di luce ed aveva anche collocato tubi di scarico che attraversavano il doppio soffitto di sua proprietà chiedendo, quindi, l'eliminazione di tali turbative.
In primo grado il Tribunale di Agrigento rigettava le richieste di parte attrice.
In secondo grado, invece, la sentenza della Corte di Appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la convenuta a rimuovere i tubi di scarico collocati abusivamente nell'intercapedine di parte attrice.
I giudici di secondo grado, infatti, rilevano che l'appellata ( convenuta nel giudizio di primo grado) per mantenere i tubi di scarico nel vano tecnico ( intercapedine) di proprietà dell'attrice, avrebbe dovuto dimostrare di essere proprietaria dell'intercapedine ovvero di essere titolare di un'apposita servitù: circostanze, queste, che non erano state provate. Pertanto anche la sentenza di secondo grado ribadisce che il vano tecnico in questione apparteneva all'appartamento di proprietà dell'appellata ( parte attrice nel giudizio di primo grado), ed era stato ricavato da una controsoffittatura dell'appartamento al primo piano ove erano state collocate abusivamente i tubi di scarico dell'appartamento del piano superiore che, quindi, andavano eliminati.
Rilevavano, inoltre, i giudici d'appello che i titoli di acquisto prodotti dalle parti non erano di alcun aiuto in quanto gli stessi non facevano alcun riferimento all'intercapedine in questione, né tantomeno era stato eccepito l'usucapione o l'esistenza di una servitù che avrebbero potuto legittimare il mantenimento dei tubi di scarico dell'appartamento del piano superiore nel vano tecnico oggetto di disputa.
La sentenza della Corte di Cassazione. La sentenza della Corte di Cassazione per definire la vicenda giunta al suo esame, effettua una serie di considerazioni partendo dalla definizione del concetto di pertinenza ( ex art. 817 c.c.) per stabilire, infine, a chi appartenesse nel caso di specie l'intercapedine in questione.
I giudici di legittimità, infatti, puntualizzano che la pertinenza “consiste in una cosa accessoria asservita funzionalmente ed in maniera durevole all'utilità o ad ornamento di un'altra cosa principale ed è caratterizzata da due elementi uno soggettivo e l'altro oggettivo”. Dal punto di vista soggettivo è necessario che la pertinenza sia asservita, per volontà del proprietario della cosa principale, in un rapporto funzionale con quest'ultima ovvero a servizio o ad ornamento della stessa.
Dal punto di vista oggettivo, rilevano i giudici di Piazza Cavour, è necessario inoltre che la pertinenza sia posta in modo durevole a servizio della cosa principale in modo da consentirne un migliore utilizzo.
Chiarito tale aspetto era necessario per stabilire a chi appartenesse l'intercapedine in questione ed in che rapporto si collocava tale vano tecnico rispetto all'appartamento al primo piano ( ricordiamo di proprietà di parte attrice).
Per fornire una risposta a tale quesito, quindi, considerato che i titoli di proprietà prodotti dalle parti non facevano alcun riferimento a tale vano tecnico, occorreva valutare la situazione oggettiva, peraltro opportunamente accertata ad opera della consulenza tecnica d'ufficio già espletata durante lo svolgimento del giudizio di merito, la quale aveva constatato che l'intercapedine in questione aveva la funzione di isolare e proteggere l'appartamento collocato al primo piano.
Pertanto una volta valutato tale aspetto i giudici di legittimità non hanno potuto far altro che constatare che l'intercapedine di questione (risultato di una controsoffittatura dell'altezza di m.1,30) aveva la funzione di isolare l'appartamento al primo piano e che, pertanto, tale vano tecnico apparteneva al proprietario dell'unità al primo piano che trae il maggior beneficio dalla sua realizzazione.
E' chiaro, quindi, che nel caso di specie per accertare la relazione funzionale fra intercapedine ed appartamento al primo piano, è stato necessario valutare oggettivamente le caratteristiche della cosa accessoria: in modo da prendere atto del rapporto che sussiste fra cosa accessoria ( intercapedine) asservita, per le sue caratteristiche, funzionalmente ed in modo durevole alla cosa principale ( appartamento al primo piano) ed a conclusione di tale valutazione è stato possibile dedurre a chi appartiene la proprietà del vano tecnico.

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martedì 14 luglio 2015

Immobile viziato da cattivo isolamento acustico. La svalutazione va provata Fonte www.condominioweb.com

Ai fini dell'azione di garanzia per i vizi della cosa vendita (art. 1490 c.c.), il minor valore dell'appartamento viziato da imperfetto isolamento acustico va dimostrato e calcolato in modo specifico, mentre la quantificazione in via equitativa è possibile solo se mancano elementi per una valutazione analitica.
Sono questi alcuni dei principi che emergono dall'interessante sentenza della Corte d'appello di Brescia n. 32 dell'8 gennaio 2015, che affronta il tema del deprezzamento dell'immobile viziato e della quantificazione dello stesso nell'azione promossa contro il venditore ex art. 1490 c.c.
Il fatto – L'acquirente di un immobile contestava la presenza di vizi del fabbricato, accertati tramite ATP, consistenti nell'imperfetto isolamento con conseguente superamento dei limiti di tollerabilità delle immissioni rumorose, in violazione del DPCM 5 dicembre 1997. Esperiva quindi domanda per ottenere la restituzione di una parte del prezzo, oltre al risarcimento del danno alla salute.
Tralasciando le problematiche affrontate in sentenza, inerenti alla successione delle leggi nel tempo, il tribunale condannava il costruttore-venditore al risarcimento dei danni per il deprezzamento dell'immobile viziato in base alle determinazioni stabilite dal CTU in sede di accertamento tecnico preventivo. Il costruttore proponeva appello contestando, tra l'altro, il criterio di conteggio del minor valore dell'edificio.
Il consulente tecnico, in particolare, aveva accertato che:
  • una parte dei vizi poteva essere ripristinata con una spesa di circa 16mila euro (comprensivi del costo dell'albergo per il proprietario durante i lavori e della perdita di superficie calpestabile per l'ispessimento delle pareti);
  • un'altra parte non era ripristinabile e riguardava la rumorosità da calpestio relativa a una cameretta. 
    La soluzione della Corte d'appello – Il ragionamento dei giudici territoriali parte dal prezzo di acquisto (207.000 euro), lo confronta con il valore commerciale stimato dal CTU, riferito al momento dell'acquisto (232.000 euro), e sottrae il costo dei lavori (16.000 euro): siccome il risultato è superiore a quanto pagato dall'acquirente, ciò esclude il diritto a un indennizzo per i vizi eliminabili.
La questione principale tuttavia riguarda il fatto che il Tribunale aveva condannato il costruttore a rimborsare la differenza tra il prezzo pagato e il valore effettivo dell'immobile come rideterminato dal CTU, che l'aveva ridotto del 25% rispetto al valore commerciale richiamando un precedente in termini del Tribunale di Torino.
Tale impostazione, secondo la Corte d'appello, è errata, perché “il consulente doveva valutare la perdita di valore dell'appartamento in questione, non già quella subita da un imprecisato immobile torinese la cui elezione a parametro di riferimento non trova alcuna giustificazione”. In secondo luogo, siccome solo una stanza è “viziata”, “anche ammettendo di trovare una motivazione (in realtà del tutto assente) a conforto dell'opinione espressa dalla sentenza sulla misura del minor valore del 25%, detta decurtazione dovrebbe essere riferita alla sola cameretta”.
La sentenza in commento ritiene più corretta una valutazione in via equitativa del danno. Ipotizzando di applicare la decurtazione del 25% alla superficie della cameretta, il minor valore sarebbe di soli 10.800 euro e l'importo da restituire di poco più di 2000 euro, considerato che l'alloggio era già stato acquistato con uno sconto di oltre 8.000 euro rispetto al valore commerciale stimato. Tuttavia, anche questa modalità di calcolo non è stata ritenuta applicabile nel caso specifico, anche perché nel frattempo l'appartamento in questione era stato venduto a terzi e, quindi, sarebbe stata possibile una valutazione analitica del valore di cui, però, la ricorrente non ha fornito elementi di prova. Per questi motivi, la corte d'appello ha riformato la sentenza di primo grado respingendo tutte le richieste dell'acquirente.


Fonte http://www.condominioweb.com/immobile-non-insonorizzato-svalutazione.11969#ixzz3frSQ1hKv
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venerdì 3 luglio 2015

Servitù di passaggio: come si costituisce e quali sono i diritti e i doveri che ne derivano Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Ottima guida da StudioCataldi.it


1. Nozioni introduttive sulle servitù


Le servitù prediali (dal latino «praedium», fondo, terreno) rappresentano secondo l'art. 1027 c.c. il «peso imposto sopra un fondo per l'utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario».

Il rapporto di servitù tra fondi vicini o limitrofi si incentra sull'utilitas, attuale o futura, che il fondo dominante ottiene sul fondo servente (il quale subisce la limitazione). Pertanto è palese la correlazione esistente tra servitù e fondo, tale che l'alienazione della servitù potrà avvenire solo congiuntamente a quella del fondo.

Le servitù possono essere volontarie, costituite con atto inter vivos (contratto o testamento), oppure coattive, imposte dal legislatore per consentire al proprietario del fondo dominante un'utilizzazione efficiente dello stesso.

2. La servitù di passaggio coattiva: cos'è, come e quando si costituisce


Tra le servitù coattive particolarmente importante è la servitù di passaggio che rileva in situazioni di fondo intercluso, circondato da fondi altrui e pertanto privo di uscita sulla via pubblica.
Il legislatore prevede che il proprietario di un fondo abbia diritto ad ottenere la costituzione della servitù di passaggio, la quale «in mancanza di contratto, è costituita con sentenza. 
Può anche essere costituita con atto dell'autorità amministrativa nei casi specialmente determinati dalla legge» (1032 c.c.)

L'art. 1051 c.c. riconosce al proprietario del fondo intercluso il diritto di ottenere, senza eccessivo dispendio o disagio, il passaggio sul fondo vicino per consentirgli la coltivazione o l'uso conveniente del proprio fondo.
Tuttavia, secondo il principio del minimo mezzo, il passaggio non deve essere eccessivamente pregiudizievole per il fondo servente: la costituzione della servitù dovrà avvenire in quella parte del fondo per cui l'accesso alla via pubblica è più breve o comunque provoca minor danno, se preferibile anche attraverso un sottopassaggio.

Si potrà costituire una servitù di passaggio anche laddove esista già un passaggio sul fondo altrui, ma sia necessario ampliare l'accesso esistente per consentire al proprietario del fondo dominante il transito di veicoli anche a trazione meccanica, per permettergli di coltivare o usare adeguatamente il fondo.
Sono esenti da questa servitù le case, i cortili, i giardini e le aie ad esse attinenti.

Il codice prevede che il passaggio coattivo sia consentito anche in caso di fondo non intercluso se l'accesso alla via pubblica sia inadatto o insufficiente ai bisogni del fondo e non sia possibile procedere ad un suo ampliamento (art. 1052 c.c.); in tal caso l'autorità giudiziaria gode del potere discrezionale di consentire la servitù solo se la domanda risponda alle esigenze dell'agricoltura o dell'industria oppure, come precisato dalla Corte Costituzionale, in caso la domanda risponda ad esigenze di accessibilità in edifici ad uso abitativo per i portatori di handicap.

3. Indennità dovuta al proprietario del fondo servente


Al proprietario del fondo servente il codice riconosce un'indennità proporzionata al danno cagionato dal passaggio (art. 1053 c.c.) comprendente sia il danno effettivo provocato dalla servitù di passaggio coattiva sia il deprezzamento subìto dal fondo a causa di essa.

Se per l'attuazione del passaggio si rende necessario occupare con opere stabili porzioni del fondo servente o lasciarne incolta una parte, il proprietario che domanda la servitù dovrà pagare anche il valore della zona predetta prima di intraprendere le opere o iniziare il passaggio (art. 1030 c.c.).

L'art. 1054 c.c. riconosce al proprietario del fondo divenuto intercluso, a seguito di alienazione a titolo oneroso o di divisione, il diritto di ottenere coattivamente dall'altro contraente il passaggio senza il pagamento di alcuna indennità.

4. Estinzione della servitù di passaggio


La servitù di passaggio può estinguersi in diversi modi.

Il codice civile, all'art. 1073 c.c., afferma che la servitù si estingue per prescrizione quando non se ne fa uso per vent’anni. Il non uso, protrattosi per il tempo determinato dalla legge, provoca la decadenza del diritto di passaggio sul fondo servente. Per interrompere il decorso del termine prescrizionale è necessario che il titolare del diritto manifesti la volontà di far valere la servitù con atto giudiziale o stragiudiziale.

Se proprietario del fondo servente e proprietario del fondo dominante vengono a coincidere nella stessa persona, la servitù si estingue per confusione.

In caso di servitù volontaria, la costante interpretazione giurisprudenziale ammette che se venga meno l'utilitas che giustificava la servitù, il proprietario del fondo dominante potrà volontariamente scegliere di non esercitarla, in quanto chi può validamente disporre di un diritto ha anche facoltà di rinunciarvi.

Inoltra, se la servitù volontaria sorge da un contratto che sottopone la servitù ad un termine, questa cessa alla scadenza del contratto.

Per la servitù di passaggio coattiva il codice (art. 1055) prevede che, se viene a mancare l'interclusione del fondo che ha originariamente giustificato la costituzione della servitù, il passaggio cessa di essere necessario e potrà essere soppresso in qualunque tempo a seguito di istanza presentata dal proprietario di uno dei due fondi.
Il proprietario del fondo servente dovrà restituire il compenso ricevuto, ma l'autorità giudiziaria potrà disporre una riduzione della somma, avuto riguardo alla durata della servitù e al danno sofferto.

5. La costituzione volontaria della servitù


Le parti potranno convenire la costituzione di una servitù di passaggio anche mediante atto tra vivi avente natura negoziale.
Il codice precisa che i contratti che costituiscono o modificano le servitù prediali debbano a pena di nullità effettuarsi per atto pubblico o scrittura privata (art. 1350, co. 1, n° 4) e che la trascrizione del titolo sarà necessaria in caso di costituzione tramite testamento e, negli altri casi, ai soli fini dell'opponibilità della servitù a terzi.

La Corte di Cassazione ha tuttavia precisato che per la costituzione convenzionale di una servitù di passaggio non è necessario l'uso di formule sacramentali, ma è sufficiente che dalla clausola contrattuale relativa siano determinabili con certezza il fondo dominante, il fondo servente e l'oggetto in cui consiste l'assoggettamento di questo all'utilità dell'altro (Cass. civ., sez. II, 20 maggio 2008, n. 12766).

Sempre a parere della Suprema Corte, in caso di servitù coattiva causata da fondo intercluso, scegliere lo strumento del contratto non modificherà il carattere coattivo della servitù trasformandola in volontaria, quindi sarà ugualmente applicabile la normativa civilistica corrispondente, poiché la forma della costituzione non modifica la sua sostanza o natura.

6. L'acquisto per usucapione della servitù di passaggio


La costituzione della servitù di passaggio può realizzarsi anche mediate usucapione quando la servitù sia apparente (art. 1061 c.c.), cioè quando sul fondo servente sono presenti opere (naturali o artificiali) di natura permanente destinate all'esercizio della servitù, tali da rivelare inequivocabilmente l'esistenza del peso che grava sul fondo nonché delle caratteristiche stabili e non precarie dell'attività a tal fine compiuta.
Tali segni tangibili ed inequivocabili dovranno permanere nel tempo necessario previsto dalla legge affinché possa concretizzarsi l’usucapione.

La Corte di Cassazione ha precisato che la costituzione della servitù per usucapione ha natura volontaria e non coattiva, pertanto per la sua cessazione si dovrà fare riferimento alle cause previste per le servitù volontarie.

7. La servitù di passaggio acquistata per "destinazione del padre di famiglia"


Altra modalità d'acquisto della servitù di passaggio è la cd. destinazione del padre di famiglia.

Ciò avviene quando si prova che due fondi, attualmente divisi, siano stati posseduti dallo stesso proprietario il quale abbia posto o lasciato le cose nello stato dal quale risulta la servitù (art. 1062 c.c.).
È solo al momento della separazione che si palesa la situazione di asservimento e subordinazione esistente tra i due fondi, originariamente non percepibili a causa dell'unicità della proprietà.

Come per l'usucapione, dovrà trattarsi di servitù apparente, con opere visibili e permanenti che manifestino il rapporto pregresso tra i fondi.

Per la costituzione non sarà necessario alcun atto formale e l’intervento del giudice avrà valore di accertamento dello status quo ante dal quale è scaturito il rapporto di servitù, a meno che all’atto della separazione non si sia manifestata una volontà contraria del proprietario dei fondi.


8. Le spese di manutenzione della servitù


Circa il riparto delle spese di manutenzione e riparazione relative alla servitù, il codice civile all'art. 1069 precisa che esse sono normalmente a carico del proprietario del fondo dominante (colui che ne trae principalmente giovamento) il quale dovrà provvedere a sue spese scegliendo il tempo e il modo che rechino minore incomodo al proprietario del fondo servente.

Alle parti è comunque consentito, di comune accordo, di procedere a differenti modalità di gestione e divisione delle spese.
Nel caso in cui le opere giovino anche al fondo servente, la ripartizione dovrà avvenire secondo un criterio proporzionale, fondato sui vantaggi e sui benefici che i due fondi traggono rispettivamente dalle opere di manutenzione.

9. La servitù di passaggio carrabile


La servitù di passo carrabile si distingue dalla normale servitù di passaggio poiché, ampliandone il contenuto, consente l'attraversamento, non solo pedonale, ma anche con l'uso di veicoli.
Quindi l'esistenza di una servitù di passaggio non comporta automaticamente la possibilità di effettuare il passaggio con autoveicoli.

Il codice prevede che la servitù coattiva di passaggio non potrà procurare eccessivo dispendio o disagio al fondo servente. Le stesse precisazioni valgono anche in caso di "ampliamento coattivo" dove si rende necessario ampliare un passaggio già esistente per consentire il transito di veicoli, anche a trazione meccanica.

A meno che non sia diversamente previsto o che non si procede all'ampliamento coattivo, la Corte di Cassazione ha ritenuto che, se il titolo costitutivo non lo prevede in modo chiaro e preciso, si deve ritenere che il beneficiario abbia il potere di passare solamente a piedi.

10. Apposizione di un cancello sulla servitù di passaggio


La Corte di Cassazione ha ritenuto che rientri nel diritto del proprietario del fondo servente la facoltà, prevista dall'art. 841 c.c., di chiudere il fondo con un cancello per preservarlo, impedendo l'accesso ai non aventi diritto, anche se questo suo comportamento possa provocare disagi minimi e trascurabili al proprietario del fondo dominante.

Il cancello non dovrà impedire il pacifico esercizio della servitù di passaggio, consentendo al titolare l'ingresso in maniera comoda e non aggravata.

A graduare il disagio ed a stabilire in concreto le misure più idonee più idonee a contemperare i due diritti, dovrà essere il giudice di merito avendo riguardo al contenuto specifico della servitù, alle precedenti modalità d'esercizio e alla configurazione dei luoghi (v. Cass. nn. 15971/01, 9631/99, 1212/99, 5808/98, 2267/97 e 8536/95) (Cass. 23 settembre 2013 n. 21744)


Fonte: Servitù di passaggio: come si costituisce e quali sono i diritti e i doveri che ne derivano 
(www.StudioCataldi.it)