lunedì 31 agosto 2015

Si può attraversare il fondo del vicino con una tubatura per raggiungere l’acquedotto pubblico? Fonte: (www.StudioCataldi.it)

L'importanza dell'acqua rende talvolta necessario il passaggio su terreno altrui di strumenti per consentire di trasportare questa risorsa sino al proprio fondo.
Per tali ragioni è il legislatore a prevedere all'art. 1033 del codice civile che "Il proprietario è tenuto a dare passaggio per i suoi fondi alle acque di ogni specie che si vogliono condurre da parte di chi ha, anche solo temporaneamente, il diritto di utilizzarle per i bisogni della vita o per gli usi agrario industriali".

Si tratta di una tipologia di servitù di passaggio che rientra nel novero delle servitù c.d. coattive che comprendono tra le più comuni la servitù di acquedotto, la servitù di passaggio per raggiungere il fondo intercluso e la servitù di elettrodotto.

La coattività deriva, però, dai requisiti predisposti dalla legge quindi dalla necessità dell'utilizzo per i bisogni della vita o per usi agrario industriali, nonché dalla dimostrazione, da parte di chi vuol passare le acque sul fondo altrui, di poter "disporre dell'acqua durante il tempo per cui chiede il passaggio, che la medesima è sufficiente per l'uso al quale si vuol destinare, che il passaggio richiesto è il più conveniente e il meno pregiudizievole al fondo servente, avuto riguardo alle condizioni dei fondi vicini, al pendio e alle altre condizioni per la condotta, per il corso e lo sbocco delle acque" (art. 1037 c.c.).
Sono esenti da questa servitù le case, i cortili, i giardini e le aie ad esse attinenti.

Per la costituzione di questo tipo di servitù non è necessaria la presenza di una situazione di interclusione assoluta non altrimenti eliminabile (richiesta al solo per superare l'esonero previsto per le case, le aie, i giardini e i cortili ad esse attinenti), ma è "sufficiente che sussistano tutte le condizioni previste dall'art. 1037 c.c." (Cass. civ., sez. II, 24 maggio 2004, n. 9926).

Siccome la legge coarta la volontà del privato, l'instaurazione della servitù di acquedotto coattivo è subordinata alla sussistenza di una necessaria utilitas che non sia solo iniziale, ma anche continua e, laddove "per il venir meno di quest'ultima condizionel'utilitas svanisca definitivamente, la servitù, ne sia stata o meno determinata preventivamente la durata, non può permanere e se ne verifica l'automatica estinzione" (Cass. civ., sez II, 26 ottobre 1981, n. 5595).

Il proprietario del fondo soggetto alla servitù può tuttavia impedire la costruzione e consentire il passaggio dell'acqua tramite i propri acquedotti già esistenti (art. 1034 c.c.): ciò potrà avvenire solo se non è causa di pregiudizio per la condotta di passaggio richiesta e, in tal caso, sarà dovuta un'indennità al proprietario del fondo da determinarsi avuto riguardo all'acqua che s'introduce, al valore dell'acquedotto, alle opere che si rendono necessarie per il nuovo passaggio e alle maggiori spese di manutenzione.
L'indennità è dovuta anche in caso di acquedotti da costruirsi, in tal caso colui che chiede il passaggio dell'acqua dovrà però "pagare il valore, secondo la stima, dei terreni da occupare, senza detrazione delle imposte e degli altri carichi inerenti al fondo, oltre l'indennità per danni, ivi compresi quelli derivanti dalla separazione in due o più parti o da altro deterioramento del fondo da intersecare" (art. 1038 c.c.).



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venerdì 28 agosto 2015

Condominio: la scala si può restringere per installare un ascensore per un condomino disabile (Fonte: www.StudioCataldi.it)


Con la sentenza n. 16486/2015 , la II sez. Civile della Corte di Cassazione ha deciso circa il ricorso presentato dal proprietario e dall'usufruttuario di unità immobiliari site in un condominio. I ricorrenti avevano contestato il contenuto e la validità di una delibera dell'assemblea condominiale che aveva statuito circa "la costruzione di un ascensore nel vano scale, mediante taglio e riduzione della larghezza della scala condominiale" per agevolare un condomino disabile. 
Per i ricorrenti, la costruzione dell'ascensore, considerata innovazione di cosa comune, necessitava di essere decisa con una maggioranza qualificata pari a 666,6 millesimi e dunque non poteva essere approvata con il voto favorevole di tanti condomini rappresentanti 608,33 millesimi e con il loro dissenso come in realtà avvenuto.
I ricorrenti avevano lamentato inoltre che, a seguito dell'intervento di costruzione dell'ascensore, la larghezza minima della scala sarebbe stata pari a 72 centimetri, rendendo di fatto l'opera inservibile non permettendo il passaggio di almeno due persone e mettendo a rischio, in caso di pericolo o evacuazione forzata dell'edificio, il deflusso delle persone e l'accesso dei soccorritori.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha richiamato il corretto giudizio di merito espresso dalla Corte di Appello, evidenziando come in tema di condominio degli edifici, il concetto di inservibilità della cosa comune "non può consistere nel semplice disagio subito rispetto alla sua normale utilizzazione - coessenziale al concetto di innovazione - ma è costituito dalla concreta inutilizzabilità della res communis secondo la sua naturale fruibilità".

I giudici richiamano, inoltre, il principio di solidarietà condominiale, che deve trovare applicazione nel giudizio circa la possibilità che l'installazione di un ascensore possa recare pregiudizio all'uso o al godimento delle parti comuni da parte dei singoli condomini: la coesistenza di più unita immobiliari in un unico fabbricato rende necessario un contemperamento degli interessi per consentire una pacifica convivenza, tra i quali deve includersi anche "quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere architettoniche, oggetto, peraltro, di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati".

Proprio sulla base di questi principi, rileva la Corte, nel caso di specie il provvedimento assembleare del condominio, riguardante l'installazione dell'ascensore, aveva tenuto conto delle esigenze di diversi condomini con disturbi alla deambulazione impossibilitati ad usare le scale, così come verificato da c.t.u. esperita in corso di causa, la quale aveva altre sì dimostrato la possibilità che le scale potessero venire efficacemente utilizzate senza problemi dai soccorritori, sia trasportando una sedia a rotelle che una barella, senza danni per l'infermo.
Pertanto, la Corte ha rigettato il ricorso liquidando le spese.



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martedì 25 agosto 2015

Videosorveglianza nel condominio: quando è obbligatorio esporre un cartello per avvisare della presenza delle telecamere? (Fonte:www.StudioCataldi.it)

Domanda: “Se si installa un sistema di videosorveglianza nel condominio è obbligatorio esporre un cartello per avvisare della presenza delle telecamere?”

Risposta: Prima di rispondere alla domanda del lettore, è opportuno ricordare che la materia della videosorveglianza nei condomini è stata per la prima volta espressamente affrontata dalla riforma del condominiodel 2012, che ha introdotto l’apposito articolo 1122-ter nel codice civile.
Sulla base di tale norma, l’installazione delle videocamere può oggi essere deliberata dalla maggioranza dei partecipanti all’assemblea nella quale essa è in discussione, che rappresentino almeno la metà dei millesimi.
Secondo quanto chiarito dal Garante della privacy, la necessità di esporre un cartello per avvisare della presenza delle telecamere sorge solo nel caso in cui le riprese siano effettuate dal condominio per controllare le parti comuni e non nel caso in cui esse siano effettuate dai singoli condomini per scopi personali.
Solo nel primo caso, infatti, le immagini sono soggette alla diffusione e alla comunicazione a terzi e rischiano di violare la privacy dei soggetti ripresi.
Bisognerà, quindi, apporre degli appositi cartelli che segnalino la presenza delle videocamere e il loro eventuale collegamento con le forze dell’ordine.
Occorre precisare che, oltre all’obbligo di segnalare le videocamere, la normativa a tutela della privacy impone anche di conservare le immagini registrate per un periodo limitato, tendenzialmente di 24/48 ore, salvo specifiche esigenze; di indirizzare le riprese esclusivamente verso le aree comuni, senza comprendervi i luoghi circostanti, e di permetterne l’accesso solo alle persone autorizzate.
Come sopra accennato, la videocamera utilizzata da un condomino per scopi personali (che pure necessita di apposita autorizzazione assembleare per essere installata) non è sottoposta alla normativa a tutela della privacy. In ogni caso è opportuno specificare che, a tal fine, il sistema di sorveglianza deve essere posizionato in modo da riprendere esclusivamente lo spazio privato e non le parti comuni e che si applicano comunque le disposizioni in tema di responsabilità civile e sulla sicurezza dei dati personali.
Tutto quanto detto vale anche per i moderni videocitofoni che rilevano immagini, pienamente assimilabili alle videocamere.


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venerdì 7 agosto 2015

Agevolazioni prima casa: basta la residenza di uno dei due coniugi per averne diritto Fonte:www.StudioCataldi.it

Articolo da StudioCataldi.it
Il beneficio fiscale sull’acquisto della prima spetta anche nel caso in cui sia soltanto uno dei coniugi ad aver trasferito la residenza nel comune dove è ubicato l’immobile.
Il principio è stato ribadito di recente, dalla sentenza n. 16026/2015 della sezione tributaria della Cassazione, in accoglimento del ricorso di una donna che impugnava la decisione emessa dalla CTR del Piemonte di revoca del beneficio fiscale sull’immobile acquistato insieme al marito.
Nel caso di specie, per il giudice tributario, l’agevolazione era stata goduta indebitamente perché non solo la donna non aveva partecipato alla stipula del rogito notarile ma non aveva neanche trasferito la residenza nel comune dove si trovava il cespite.
La donna ricorreva pertanto in Cassazione, lamentando che la residenza era stata spostata dal marito e che trattandosi di un immobile destinato a residenza familiare, doveva ritenersi sufficiente tale atto, posto in essere da un rappresentante della famiglia, intesa come “entità autonoma” distinta dai coniugi singolarmente.
Per gli Ermellini la donna ha ragione.
Richiamando gli orientamenti precedenti in materia hanno sottolineato, infatti, che, per fruire dei benefici fiscali sull’acquisto della prima casa, il requisito della residenza nel comune in cui si trova l’immobile è riferito alla famiglia, “con la conseguenza che, in caso di comunione legale tra coniugi, quel che rileva è che l'immobile acquistato sia destinato a residenza familiare” non assumendo alcun rilievo la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza in tale comune, e ciò in ogni caso “in cui il bene sia divenuto oggetto della comunione ex art. 177 c.c., quindi sia in caso di acquisto separato che in quello di acquisto congiunto del bene stesso”.
Lo stesso principio era stato affermato, in una vicenda analoga, nel 2013 dalla Cassazione (cfr. n. 16355/2013), mentre con la sentenza n. 14237/2000 era stato chiarito che marito e moglie non sono tenuti ad una comune residenza anagrafica, bensì alla “coabitazione”, la quale costituisce un “elemento adeguato” a soddisfare il requisito della residenza richiesto ai fini tributari.


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martedì 4 agosto 2015

Muro di recinzione (fonte: www.condominioweb.com)

L'art. 841 c.c. afferma che il proprietario di un fondo (urbano o agricolo è indifferente) può chiuderlo in qualunque tempo.
La chiusura del fondo, aggiungiamo noi, dev'essere fatta tenendo presente l'eventuale esistenza di diritti di servitù di passaggio ed in generale di tutto quei diritti reali su cosa altrui che possano andare a confliggere con la chiusura medesima.
In tal senso è chiarissimo il primo comma dell'art. 1067 c.c. a mente del quale “il proprietario del fondo dominante non può fare innovazioni che rendano più gravosa la condizione del fondo servente”.
Si badi: l'esistenza, ad esempio, di una servitù di passaggio non è di per sé sola causa ostativa alla chiusura del fondo in quanto tale opera può essere fatta consentendo comunque il passaggio del titolare della servitù.
Ipotesi di scuola è quella dell'apposizione di un cancello: in tal caso il diritto di servitù è salvaguardato dalla consegna della chiavi e del telecomando per l'apertura a distanza in caso di esistenza di un meccanismo di automazione dell'apertura stessa.
Chiariti questi aspetti, è utile domandarsi quali siano le norme che bisogna rispettare nel caso in cui si decidesse di recingere il proprio fondo.
Partiamo dalla normativa dettata in materia di distanze. Norma di riferimento è l'art. 878 c.c. rubricato muro di cinta, che al primo comma recita:
Il muro di cinta e ogni altro muro isolato che non abbia un'altezza superiore ai tre metri non è considerato per il computo della distanza indicata dall'art. 873.
Esso, quando è posto sul confine, può essere reso comune anche a scopo d'appoggio, purché non preesista al di là un edificio a distanza inferiore ai tre metri.
Prima considerazione: ai fini del computo dell'altezza si deve considerare la struttura muraria e non le eventuali reti in esso inserite.
Se l'altezza supera i tre metri, il muro dev'essere considerato una costruzione e quindi resta assoggettato alla normativa dettata in materia di distanze dall'art. 873 c.c. e da quelle contenute nei regolamenti edilizi locali.
La realizzazione del muro di confine che non superi i tre metri è soggetta alla segnalazione certificata di inizio attività o al permesso di costruire?
Al riguardo, nel luglio del 2014, il Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare che in passato s'era soliti affermare che “la realizzazione di muri di cinta di altezza inferiore a tre metri (articolo 878 del Codice civile) sarebbe in ogni caso assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività di cui all'articolo 22 e, in seguito, al regime della segnalazione certificata di inizio di attività di cui al nuovo articolo 19 della l. n. 241 del 1990(in tal senso: Cons. Stato, IV, 3 maggio 2011, n. 2621); tuttavia, proseguono i Giudici di Palazzo Spada, la situazione non è poi così netta.
A loro modo di vedere, infatti, non basta l'altezza a determinare il titolo abilitativo, ma è necessario guardare alla reale conformazione ed incidenza del manufatto sicché “appare necessario il permesso di costruire nelle ipotesi in cui il singolo intervento determini un'incidenza sull'assetto complessivo del territorio di entità ed impatto tali da produrre un'apprezzabile trasformazione urbanistica o edilizia” (C.d.S. 4 luglio 2014 n. 3408).
Come dire: se si tratti di SCIA o di permesso di costruire lo si deve valutare caso per caso.



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