martedì 31 marzo 2015

Ordinanza del Tribunale di Macerata su liquidazione compenso del CTU

Fresca d'inchiostro ed assolutamente inedita l'ordinanza emessa in data di ieri 25 marzo 2015 dal Tribunale Civile di Macerata, Est. Alessandra Canullo, in tema di liquidazione del compenso al consulente tecnico d'ufficio che non abbia effettuato il deposito telematico dell'elaborato peritale commessogli.
Nella fattispecie si verteva in tema di chiarimenti dopo il deposito della consulenza tecnica d'ufficio sul dismorfismo lamentato dall'attrice, rappresentato da due mammelle naturalmente differenti, che l'avevano purtroppo angosciata dal punto di vista psicologico inducendola all'intervento chirurgico, con cui la paziente cercava di raggiungere una condizione di approssimata similitudine o addirittura annullare l'asimmetria.
Nella fattispecie l'ausiliare del giudice, incurante dell'entrata in vigore del deposito telematico degli atti processuali sulla piattaforma PCT (e della conseguente obbligatorietà per i CTU di iscriversi al REGINDE, redigere l'elaborato con un normale pc dotato di un programma per elaborazione testi che consenta la generazione di documenti informatici PDF-nativi, non immagine creata con l'uso di uno scanner) aveva eseguito il deposito con la tradizionale modalità cartacea.
Il principio affermato si applica anche ai processi, come quello in disamina, antecedenti al 30 giugno 2014.
La legge richiamata nel provvedimento è il c.d. Decreto Crescita, stando alle definizioni alle quali ci ha abituati il nostro immaginifico nomoteta, la cui smisurata fantasia non cessa di creare norme a mo' di pezze di Arlecchino.
La legge del 17 dicembre 2012, n. 221, ha convertito il decreto legge n. 179 del 18 ottobre 2012.
Buona lettura!

Fonte: PCT - CTU che esegue il DEPOSITO cartaceo - Liquidazione del COMPENSO subordinata al DEPOSITO TELEMATICO (Trib. Macerata, ord. 25.3.15, Giud. Alessandra CANULLO) 
(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 27 marzo 2015

Patrimoni: Si può rinunciare ai beni inutili (ma non vale in condominio) Fonte Sole 24Ore

Patrimoni. In uno studio del Notariato come lasciare proprietà onerose che impongono tasse e responsabilità civili
Si può rinunciare ai beni inutili

Capita talvolta che essere titolari di un diritto di proprietà (o di una quota di comproprietà) sia “fastidioso”: si pensi al caso in cui un soggetto erediti un fabbricato fatiscente oppure un appezzamento di terreno sperduto in un territorio montano, che siano invendibili (perché non vi sia nessuno disposto a comprarli, anche per un prezzo simbolico) e di cui il proprietario non sappia che farsene. Immobili “fastidiosi” perché producono non solo tassazione in capo al rispettivo proprietario, ma anche la sua responsabilità civile nel caso in cui da essi derivi un danno a terzi (come nel caso dell’albero che cade sulla proprietà altrui o del fabbricato che, a causa di un crollo, investe un passante, eccetera). Ebbene, anche se, a prima vista, l’affermazione sembra strana, alla proprietà (o alla quota di comproprietà) “fastidiosa” in effetti si può rinunciare: una confortante assicurazione in tal senso giunge da un recente studio del Consiglio nazionale del Notariato (lo studio n. 216-2014/C del 21 marzo 2014), elaborato a fronte della circostanza che, in quest’epoca di crisi, non pochi sono i notai che sono stati investiti dai clienti della questione di come liberarsi da proprietà non volute. Infatti, in altre epoche, nelle quali le tasse locali erano di minore impatto (si veda il servizio pubblicato il 23 marzo sui 25 miliardi di gettito delle tasse locali 2014: l’importo più alto di sempre) e dove il tenore di vita non sollecitava riflessioni del genere, il problema della proprietà “fastidiosa” si poneva raramente. Oggi, invece, che molti devono tagliare le spese inutili, avere a che fare con proprietà immobiliari di nessuna utilità e, anzi, produttive di costi, sollecita non poche persone a considerare di dismettere queste situazioni. Ebbene, cosa succede in caso di rinuncia al diritto di proprietà ? Il diritto di proprietà rinunciato diviene di titolarità dello Stato (articolo 827 del Codice civile) mentre la rinuncia alla quota di comproprietà provoca un’espansione del diritto di comproprietà degli altri comproprietari, in quanto si deve ragionare nel senso che la quota di comproprietà è da concepire come un diritto sull’intero bene, “compresso” dalla presenza degli altri comproprietari, cosicchè, venendo meno taluno di essi, la quota degli comproprietari “che resistono” si accresce automaticamente. Costoro, se a loro volta non gradiscono l’altrui rinuncia, non possono certo impedirla, ma possono pur sempre rinunciare, a loro volta, alla rispettiva loro quota di comproprietà, e ciò fino a che il bene già oggetto di comproprietà non divenga di proprietà di un unico comproprietario. Questi può, alfine, rinunciare al suo diritto (che era un diritto di comproprietà, via via evoluto in un diritto di proprietà esclusiva a causa delle altrui rinunce) con l’effetto, anche qui, che del bene in questione diviene proprietario lo Stato.
Tra l’altro, con specifico riferimento alla rinuncia alla quota di comproprietà, occorre sottolineare che essa può configurarsi in due diverse modalità:
la cosiddetta rinuncia “abdicativa”, la quale, semplicemente, provoca – come già sopra osservato – la dismissione del diritto in capo al rinunciante e l’espansione automatica della quota in capo agli altri comproprietari “superstiti” (ad esempio, se un dato immobile sia di titolarità di quattro persone, in ragione di un quarto ciascuna, la rinuncia di taluna di esse provoca che i tre comproprietari residui vedono espandersi la loro quota dalla precedente caratura di un quarto alla nuova caratura di un terzo);
la cosiddetta rinuncia “liberatoria”, la quale, rispetto alla precedente, produce un singolare effetto, vale a dire essa provoca (lo afferma l’articolo 1104 del Codice civile) la liberazione del comproprietario rinunciante dalle spese derivanti dalla contitolarità del bene comune (ad esempio, le spese sostenute per la sua manutenzione), e ciò non solo per le spese che si produrranno in futuro, ma anche per le spese che si siano già prodotte in passato.
In altri termini, a seguito della rinuncia “abdicativa” il comproprietario rinunciante non è tenuto a corrispondere le spese concernenti la cosa comune relative al tempo successivo alla rinunzia (in quanto egli non risulterà più essere proprietario della cosa comune), ma rimane comunque tenuto all’adempimento di tutte le obbligazioni inerenti la cosa sorte fino al giorno della rinunzia. Nella rinunzia “liberatoria”, invece, all’effetto abdicativo si accompagna, per espressa previsione del legislatore, un effetto estintivo delle obbligazioni del comproprietario relative alla cosa comune. In questo caso, dunque, il comproprietario, rinunziando alla propria quota, non solo dismette il diritto di cui è titolare, ma anche si libera da tutte le obbligazioni inerenti la cosa comune, non solo (come è ovvio) per il futuro, ma anche per quelle già sorte in passato. È bene, peraltro, precisare che quanto fin qui affermato per la rinuncia alla quota di comproprietà non si applica alla situazioni di condominio: dato che il condominio è una situazione “necessitata” (dalla compresenza di parti dell’edificio di uso esclusivo e parti di uso comune), l’articolo 1118 del Codice civile vieta inderogabilmente la rinuncia del condòmino alla comproprietà delle parti comuni, con ciò dunque impedendo che un condòmino, con una tal rinuncia, possa liberarsi delle spese condominiali.

mercoledì 25 marzo 2015

Le conseguenze sulla violazione dei requisiti previsti per la “formazione professionale” degli amministratori condominiali (Fonte www.condominioweb.com)

E' noto che l'articolo 71 bis delle Disp. Att. Cod. Civ. elenca i requisiti per poter ricoprire l'incarico di amministratore di condominio. Alcuni requisiti trattano l'onorabilità (a, b, c , d, e), altri gli aspetti formativi (f, g).
La dottrina ha ritenuto che il mancato possesso anche di uno solo dei requisiti enunciati dalla norma importi la nullità tout court del rapporto instaurato. In altri termini, il professionista privo di alcuno di tali “qualità” può subire un'azione giudiziale, da chiunque vi abbia interesse, volta a provocare la dichiarazione di nullità della nomina e/o della conferma, con obbligo di restituzione del compenso ricevuto.
La tesi, in termini assoluti, non convince: appare eccessivamente severa. Proviamo a metterla in discussione.
La parte finale del disposto in commento (art. 71 disp. att. Cc.) contiene una sanzione nel caso di perdita dei requisiti di onorabilità: vale a dire la cessazione dell'incarico, “In tale evenienza ciascun condomino può convocare senza formalità l'assemblea per la nomina del nuovo amministratore”.
Nulla viene, invece, riferito in punto di violazione dei requisiti previsti in termini di “formazione professionale”. Potrà significare qualcosa? Forse, approfondiamo.
Secondo gli articoli 1418, 1419 e 1339 c.c. il contratto è nullo quando è contrario a una norma imperativa.
La violazione di una norma imperativa non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto, giacché l'articolo 1418, comma I, c,c., con l'inciso “salvo che la legge disponga diversamente”, esclude tale sanzione ove sia predisposto un meccanismo idoneo a realizzare ugualmente gli effetti voluti della norma (sul principio appena esposto, cfr, Cass. Civ. 03/5372; 87/6691).
Si è poi in presenza di una norma (imperativa) non formalmente perfetta, quando essa è priva della sanzione dell'invalidità (Cass. Civ. 21 agosto 1972, n. 2697).
In tema di nullità del contratto prevista dall'art. 1418 c.c. . la natura imperativa della norma violata deve essere quindi individuata in base all'interesse pubblico tutelato (Cass. Civ., 11256/2003).
“La dibattuta questione circa gli effetti della violazione di una norma imperativa in cui non sia espressamente comminata la sanzione della nullità del vincolo: è normale l'effetto dirimente, ma sempre quando la volontà della legge non possa indirizzare a conseguenze diverse”.(cfr, relazione nr 649 al Codice civile del 1942 all'articolo 1418 comma 1 c.c.).
Orbene, sappiamo – ed è l'unico punto fermo che possiamo trarre dalla fattispecie – che il Legislatore non ha inteso equiparare gli effetti della mancata presenza dei requisiti di onorabilità con quelli della formazione.
Sotto altro e diverso aspetto, non appare ragionevole e proporzionale equiparare, in quanto agli effetti e/o al disvalore da ascrivere alle singole violazioni in tema di requisiti “formazione”, la circostanza del mancato possesso di un diploma di scuola media superiore e/o dell'omesso possesso del certificato di formazione per l'esercizio della professione con la ipotesi della mancata certificazione dell'aggiornamento professionale.
In effetti, la prima delle posizione - con i dovuti accorgimenti - è comparabile a quella dell'esercizio di una professione ordinistica senza essere iscritto all'albo, da cui discende, per l'appunto, la sanzione della nullità del rapporto instaurato con il cliente (tra le tante, cfr, Cas. Civ. 00/5873; 06/17028).
Per contro, la verificazione della seconda fattispecie potrebbe importare al più una violazione di una norma deontologica (come avviene con le professioni ordinistiche) e/o, se vogliamo, del precetto di cui all'articolo 1176, comma II codice civile, a mente del quale: “Nell'adempimento delle obbligazione inerenti all'esercizio di un'attività professionale, al diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata” (da relazionare, chiaramente, in ragione dell'art. 71 bis disp. att. C.c).
In quest'ultimo caso, la delibera di nomina e/o conferma di un amministratore di condomini sprovvisto di certificato di aggiornamento professionale sarebbe sempre invalida, ma in ragione di un vizio di annullabilità; impugnabile ai sensi dell'art. 1136 c.c. entro trenta gironi dall'adozione per i soli dissenzienti o astenuti, ovvero dalla comunicazione per gli assenti. Il rapporto di mandato tra condominio e amministratore, di contro, rimarrebbe valido, così scongiurandosi l'ipotesi di restituzione del compenso professionale.
In conclusione e secondo l'opinabile parere di chi scrive, la carenza di alcuno dei requisiti di onorabilità di cui all'art. 76 bis dosp. Att. C.c. all'atto della nomina dell'amministratore importa necessariamente la nullità dell'incarico. Allo stesso modo è possibile, in via estensiva, trarre le stesse conseguenze in caso di nomina di un amministratore privo della formazione iniziale e/o dell'esperienza professionale richiesta dalla legge. Viceversa, la nomina assembleare di un amministratore carente del solo requisito dell'aggiornamento professionale consterebbe della mera annullabilità della delibera.
D'altronde, lo stesso Sottosegretario alla Giustizia, in una trascorsa intervista giornalistica (del 03.03.15), ha diversificato, non a caso, i rimedi da esperire avverso le statuizioni di nomina e/o conferma degli amministratori di condomino in tema di violazione della “formazione professionale” tra quello di cui all'articolo 1136 e quello di cui agli 1418 e ss c.c.; almeno ciò significherà qualcosa…




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martedì 24 marzo 2015

Anche per la revoca la mediazione è obbligatoria (dal Sole 24Ore)

Il procedimento di mediazione deve essere esperito prima di avviare l’azione giudiziale per la revoca dell’amministratore di condominio.
Lo ha stabilito un’ordinanza del Tribunale di Padova riunito in Camera di consiglio il 3 dicembre 2014. Si tratta della prima pronuncia nota che affronta la questione interpretativa derivante dalla lettura combinata di quanto disposto dall’articolo 5 del Dlgs 28/2010 in materia di mediazione e l’articolo 71-quater delle disposizioni di attuazione del Codice civile come introdotto dalla legge 220/2012 di riforma del condominio.

La norma generale che disciplina la mediazione obbligatoria preventiva, se da un canto genericamente la prevede anche per la materia condominiale (articolo 5, comma 1-bis, Dlgs 28/2010), dall’altro pone quale limite specifico quello dei procedimenti in Camera di consiglio (articolo 5, comma 4, lettera f del Dlgs 28/2010). Per cui la mediazione obbligatoria, pur nelle materie indicate, non si applica in virtù della specialità del procedimento camerale. Ciò significa che sulla base della disciplina generale il procedimento di revoca dell’amministratore resterebbe escluso dalla mediazione intesa quale condizione di procedibilità ope legis.
Tuttavia, con la riforma del condominio è stato introdotto l’articolo 71-quater il quale nel disciplinare con norma speciale (e successiva) la mediazione stragiudiziale per il condominio ha specificatol’ambito delle controversie in materia individuandone per relationem i riferimenti legislativi.
Rientrano quindi nel novero delle controversie condominiali ai fini della obbligatorietà della mediazione preventiva quelle derivanti dalla violazione o dalla errata applicazione delle disposizioni del capo II del titolo VII del libro III oltre che anche gli articoli 61-72 delle disposizione attuative del Codice civile.
Pertanto, oltre alle questioni che attengono al condominio in senso stretto (ad esempio, liti relative alle parti comuni) sono da ricomprendersi altresì per espresso dettato legislativo quelle relative alla responsabilità dell’amministratore, all’impugnazione delle delibere assembleari, alla riscossione dei contributi condominiali, alla modifica delle tabelle condominiali, all’infrazione dei regolamenti condominiali, come anche alla revoca dell’amministratore.
E il collegio del Tribunale patavino, nel dare una lettura combinata degli articoli 71-quater e 64 delle disposizioni attuative del Codice civile, ha ritenuto che la controversia relativa alla revoca dell’amministratore rientri tra quelle soggette all’obbligo della mediazione, assegnando alle parti il termine di 15 giorni per l’inizio del relativo procedimento previsto a pena di improcedibilità della domanda giudiziale.
Una decisione che appare coerente e condivisibile, in quanto correttamente assegna un rilievo di specialità alla citata previsione introdotta dalla legge di riforma del condominio che scardina la disposizione generale in materia di mediazione e ciò in considerazione della particolare natura dei rapporti condominiali che ben si prestano all’utilizzo di percorsi negoziali di carattere coesistenziale.

lunedì 23 marzo 2015

Valore probatorio della CTU (da www.condominioweb.com)

Nell'ambito di un giudizio civile qual è il valore probatorio che si può attribuire al lavoro del consulente del giudice?
La questione non è di poco conto, in quanto non è raro che i giudici nominino un proprio consulente tecnico ed è altrettanto ricorrente la “tentazione” delle parti di fare affidamento sul lavoro dell'esperto.
Le cose, tuttavia, non sempre possono andare così anche se alle volte non possono andare diversamente. Una sentenza resa dalla Corte di Cassazione nel mese di febbraio 2015 (sent. n. 2761 del 12 febbraio 2015) troviamo la motivazione di quest'affermazione che sembra un gioco di parole.
Rifacendosi ad una pronuncia resa nel 2011 dalle Sezioni Unite, la Terza Sezione Civile ha ricordato che “pur non essendo la consulenza tecnica d'ufficio qualificabile come mezzo di prova in senso proprio e non potendo essere utilizzata per sgravare le parti dai loro oneri probatori, è consentito affidare al consulente non solo l'incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (cosiddetta consulenza deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (cosiddetta consulenza percipiente), quando si tratta di fatti che la parte ha dedotto e posto a fondamento della sua domanda ed il cui accertamento richiede specifiche cognizioni tecniche (si veda tra le altre, Cass. 13 marzo 2009, n. 6155)”.
Come dire: di base il ruolo del consulente è quello di valutare per il giudice il materiale prodotto dalle parti. Esempio: Tizio impugna il rendiconto condominiale lamentando erroneità nel piano di ripartizione nonché l'inserimento nel medesimo di spese non inerenti la gestione del condominio.
Nell'avanzare queste doglianze Tizio non può limitarsi a dedurle senza indicarle precisamente sperando che il giudice nomini un CTU che svolga questo lavoro. Tizio deve comunque mettere in evidenza i propri assunti, al CTU spetterà, al massimo, il compito di valutare per conto del giudice le rimostranze dell'impugnante. Insomma in casi normali il lavoro del consulente serve, sostanzialmente, a supportare il giudice rispetto ad argomenti tecnici dei quali il magistrato non ha specifica competenza.
La stessa sentenza tuttavia va oltre e dice che non sempre ciò è possibile e può accadere che il ruolo della CTU si espanda. Ciò è possibile allorquando “la complessità della ricostruzione della situazione in cui l'illecito si sia consumato e la diversità delle possibili opzioni tecniche in base alle quali individuare gli elementi decisivi al fine d'identificare e quantificare le conseguenze pregiudizievoli dell'illecito possono giustificare l'affidamento al ctu dei compiti di accertamento, (v. Sez.Un. n.30175/2011 in motivazione)” (Cass. 12 febbraio 2015 n. 2761).
Insomma alle volte, si pensi alle cause aventi ad oggetto gravi difetti degli immobili, il lavoro del consulente diviene fondamentale per giungere ad una ricostruzione chiara dello stato dei fatti, in termini tecnici di assunzione di responsabilità.
Resta sempre ferma l'utilità di affidarsi ad un consulente tecnico di parte che spesso svolge un ruolo di valido ausilio per il consulente d'ufficio e per il legale.




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mercoledì 18 marzo 2015

Cassazione: basta una delibera condominiale senza maggioranza qualificata per chiudere un'area di accesso con dei cancelli Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione con sentenza numero 3509 del 23 febbraio 2015 si riferisce a un contenzioso condominiale insorto in relazione a una delibera assembleare che aveva deciso di chiudere l'area di accesso al fabbricato con dei cancelli, al fine di impedire l'ingresso a terzi estranei e regolamentare al meglio il transito pedonale e veicolare.

Con la sentenza in commento la Corte in prima analisi ha voluto chiarire la distinzione tra innovazioni e modificazioni d'uso delle parti comuni, ricordando che per innovazioni devono intendersi "quelle modifiche che, determinando l’alterazione dell’entità materiale o il mutamento della destinazione originaria, comportano che le parti comuni" e che per innovazione vietata ex articolo 1120 del codice civile deve intendersi "quella modificazione materiale che ne alteri l’entità sostanziale o ne muti la destinazione originaria, mentre le modificazioni che mirino a potenziare o a rendere più comodo il godimento della cosa comune e ne lascino immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini, non possono definirsi innovazioni." 

Per queste ragioni l'installazione di cancelli all'ingresso del condominio, uno per il transito pedonale e uno per il passaggio veicolarenon rientra nel novero delle innovazioni ex articolo 1120 c.c., non comportando il mutamento della destinazione delle parti comuni.

Anzi, fa notare la Suprema Corte, tali opere consentono un uso migliorativo, della cosa comune "impedendo a terzi estranei l’indiscriminato accesso al condominio."

Tale decisione dunque, spiega la Corte di Cassazione, rientra tra i poteri deliberativi dell'assemblea condominiale, riguardando l'uso della cosa comune e, ai fini della validità della delibera, non è richiesta nemmeno la "maggioranza qualificata ovvero l’unanimità dei consensi", poichè trattasi, nel caso de quo,  di regolamentazione dell’uso ordinario della cosa comune consistente nel non consentire a terzi estranei al condominio l’indiscriminato accesso alle aree condominiali delimitate dai cancelli."




(www.StudioCataldi.it) 

lunedì 16 marzo 2015

Sezioni Unite. Compravendite immobiliari: legittima la proposta accettata che obbliga a un contratto intermedio È valido il «preliminare del preliminare» (da Il Sole 24Ore)

Il “preliminare del preliminare” è legittimo. Questa è la nuova posizione della Cassazione sul contratto preliminare con cui i contraenti si obbligano alla stipula di un successivo e ulteriore contratto preliminare. Una sentenza (la n. 4628 del 6 marzo) importante, perché è delle Sezioni Unite e rappresenta un’inversione della precedente giurisprudenza della Cassazione, che in passato aveva concluso per la nullità del contratto.
La pronuncia è rilevante anche perché il “preliminare del preliminare” è una fattispecie assai frequente nella contrattazione immobiliare. Fino a ieri, questa prassi doveva fare i conti con l’imbarazzo provocato dalle sentenze n. 8038/2009 e 19557/2009, nelle quali la Cassazione aveva appunto proclamato la nullità del “preliminare del preliminare”. La svolta che si ha con la sentenza n. 4628/2015 è dunque assai opportuna e di notevole impatto applicativo. Infatti, nella contrattazione immobiliare, spessissimo accade che si sia in presenza di una articolazione in tre fasi:
l’invio di una proposta e la sua conseguente accettazione (il che, per lo più, accade quando l’affare è intermediato da un’agenzia immobiliare), il che comporta la conclusione di un primo contratto (qualificabile, di solito, come contratto preliminare);
la stipula di un contratto preliminare “vero e proprio”, ciò che spesso accade quando, dopo essersi scambiate proposta e accettazione, le parti contraenti si trovano presso uno studio notarile per riprodurre (di solito, con l’aggiunta di clausole più particolareggiate), in un contratto firmato simultaneamente, il contratto che, nei suoi punti essenziali, avevano già stipulato mediante l’accettazione della proposta;
la stipula del contratto definitivo (il rogito notarile).
Nell’uso corrente, le tre fasi sono percepite come utili e forse imprescindibili (e pertanto giuridicamente giustificate).
Il primo step è infatti quello che si compie al fine di “bloccare” l’affare nei suoi aspetti cruciali (identificazione dell’immobile, prezzo e tempistiche di pagamento e di rogito), senza tanto curarsi dei dettagli, perché c’è in campo l’idea che sia poi da percorrere un secondo “passaggio”, nel quale appunto l’accordo viene “raffinato” scendendo più nel dettaglio. Anche perché spesso (essendoci “di mezzo” un’agenzia immobiliare) la prima fase si svolge mediante una contrattazione “a distanza” (cioè con l’accettazione di una proposta da parte del soggetto cui la proposta contrattuale era stata diretta) e, talora, senza che le parti contraenti si siano nemmeno mai incontrate; mentre il secondo step rappresenta, nella maggior parte dei casi, la prima occasione nella quale i contraenti si mettono attorno a un tavolo e cioè il primo reale contatto tra i contraenti.
In questo contesto, la Cassazione (sentenza n. 8038/2009) riteneva invece che, nel corso di una trattativa per la compravendita di un immobile, qualora «la proposta irrevocabile di acquisto, seguita dall’accettazione del venditore, preveda che le parti debbano poi concludere un contratto preliminare, prima della conclusione di tale atto, hanno dato vita ad un contratto qualificabile come preliminare del preliminare, del quale deve essere dichiarata la nullità non essendo ravvisabile una causa meritevole di tutela». In altri termini, una nullità discendente da una ritenuta “inutilità” del preliminare del preliminare.
Ora invece la svolta, in quanto la Cassazione riconosce che il “preliminare del preliminare” può avere una sua propria dignità e non deve essere necessariamente relegato al rango di una superfetazione priva di alcun senso pratico: la Suprema corte detta infatti, ai giudici di merito, un principio di diritto secondo il quale deve essere ritenuto «produttivo di effetti l’accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare».

venerdì 13 marzo 2015

Danno da infiltrazioni in condominio e lavori in appalto: chi risponde? Tribunale Taranto, sez. II, sentenza 04.04.2014 n° 1098 (DA WWW.ALTALEX.IT)

(ARTICOLO DA WWW.ALTALEX.IT)
Il Tribunale di Taranto ha affrontato una complicata fattispecie caratterizzata dall'intrecciarsi di titoli di responsabilità in ordine al medesimo danno.
Era avvenuto che alcuni condomini avessero agito in giudizio al fine di ottenere la condanna al risarcimento del danno derivante da alcune infiltrazioni provenienti dal terrazzo posto all'ultimo piano dell'edificio condominiale.
Nel far ciò i condomini avevano individuato come legittimati passivi della domanda risarcitoria il proprietario dell'ultimo piano, titolare di un diritto di uso esclusivo del terrazzo, il condominio e l'impresa appaltatrice che aveva realizzato alcuni lavori di rifacimento del pavimento del terrazzo (oltre che l'impermeabilizzazione dello stesso).
Il condominio, da parte sua, vistosi convenuto in giudizio aveva chiamato in causa il direttore dei lavori, sostenendo la responsabilità di quest'ultimo in ordine alla errata realizzazione dei lavori.
Ebbene, rileva che, in punto di fatto, a seguito dell'espletamento di una CTU in corso di causa era stato accertato – oltre all'ammontare del valore delle opere necessarie al ripristino – che le cause delle infiltrazioni erano riconducibili ad una serie di ragioni, fra cui l'errata esecuzione di alcune lavorazioni relative all'impermeabilizzazione, e, al contempo, al fatto che la pavimentazione versava in uno stato di incuria tale da consentire al fenomeno delle infiltrazioni stesse.
La CTU aveva inoltre evidenziato come non fosse possibile individuare come causa unica delle infiltrazioni il posizionamento di una piscina da parte del proprietario dell'ultimo piano: piscina che, in ogni caso, era poi stata rimossa.
Ecco allora che il giudicante si è trovato innanzi ad una situazione in cui per il medesimo danno veniva in rilievo la responsabilità di più soggetti: responsabilità, peraltro, non omogenee sotto il profilo del titolo.
Oltre a ciò, il giudicante si è dovuto confrontare con la possibilità che della chiamata in causa del terzo (ossia il direttore dei lavori) potessero giovarsi anche gli attori, in forza del principio dell'estensione della domanda attorea al terzo chiamato.
Ebbene, nell'indagare tali questioni, il Giudice ha innanzitutto qualificato la responsabilità del proprietario titolare di un uso esclusivo del terrazzo e del condominio. Per entrambi, secondo il giudicante, il titolo di responsabilità sarebbe da ravvisarsi nell'art. 2051 c.c., in forza del quale “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.
Ha ritenuto infatti il Giudice che sia il Condominio sia il condomino titolare di un diritto d'uso esclusivo del terrazzo, in quanto custodi del bene, avrebbero dovuto prestare la massima diligenza nel manutenere il terrazzo in uno stato idoneo ad evitare il prodursi del danno dedotto in giudizio.
Peraltro, il Giudice ha precisato come la responsabilità del Condominio non potesse essere esclusa per il fatto che la terrazza era in uso esclusivo del condomino proprietario dell’attico. E questo in ragione del fatto che il terrazzo svolgendo una funzione di copertura dell’edificio fa sì che il condominio ne conservi la custodia, al fine di prevenire il verificarsi di rischi di infiltrazioni nei piani sottostanti.
Così individuata la responsabilità di tali due soggetti, il Giudice ha poi fatto applicazione dell'art. 1126 c.c. al fine di suddividerne, nei rapporti interni, l'entità. La disposizione richiamata, come noto, prevede che “Quando l'uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l'uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico; gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell'edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.” E così nella pronuncia in esame è stato ritenuto che, nei rapporti interni, condomino e condominio dovessero rispondere nelle seguenti proporzioni: 1/3 il condomino titolare del diritto d'uso esclusivo, 2/3 il condominio.
Come detto, però, anche altri soggetti erano coinvolti nella controversia.
In particolare, gli attori avevano convenuto in giudizio l'appaltatore che aveva eseguito, fra l'altro, le opere di impermeabilizzazione del terrazzo.
Il condominio, da parte sua, aveva poi evocato in giudizio il direttore dei lavori.
A quest'ultimo riguardo giova innanzitutto evidenziare come il giudicante abbia fatto applicazione dei principi giurisprudenziali emersi al riguardo, ritenendo automaticamente estesa anche a beneficio degli attori la domanda proposta dal convenuto nei confronti del terzo chiamato.
Detto ciò, rileva come, sulla base della CTU svolta in corso di causa, il Giudice abbia ritenuto sussistente una responsabilità dell'appaltatore e, di conseguenza, del direttore dei lavori (il quale non aveva ben vigilato sull'operato dell'appaltatore).
Il Giudice ha poi ritenuto che la responsabilità dell'appaltatore fosse ascrivibile alle ipotesi di cui all'art. 1669 c.c., così superando ogni questione inerente la prescrizione e la decadenza della domanda principale.
Posta tale responsabilità dell'appaltatore e del direttore dei lavori, il Giudice ha quindi modulato la responsabilità fra i due “gruppi”: da un lato quella del condominio e del condomino, dall'altra quella del direttore lavori e dell'appaltatore.
Nel far ciò, anziché dividere la responsabilità in parti uguali fra i due gruppi, il Giudice ha enfatizzato la circostanza che i lavori, per quanto mal eseguiti e, dunque, per quanto concausa nel verificarsi dell'evento dannoso, si erano comunque svolti a distanza di cinque anni dalla contestazione.
Di conseguenza, nel ragionamento del giudicante, la maggior parte della responsabilità era da attribuirsi all'incuria posta in essere dal condominio e dal condomino, mentre la compartecipazione all'evento dannoso da parte del direttore dei lavori e dell'appaltatore era da individuarsi in una porzione minore.
E così, facendo applicazione dell'art. 2055 c.c., il Giudice ha ritenuto che “La responsabilità dell’impresa appaltatrice e del professionista può essere fissata in parti uguali ex art. 2055, II co., c.c., tuttavia, va limitato il loro apporto causale sulle infiltrazioni ad un terzo del totale, se si considera il notevole lasso di tempo che i custodi convenuti ex art. 2051 lasciavano passare senza fare opera di manutenzione sulla terrazza a livello. Tra il condominio ed il titolare dell’uso esclusivo della terrazza, come sopra si è detto, va invece applicata la proporzione ex art. 1126 c.c.”.
La statuizione finale è stata dunque nel senso di accertare la responsabilità concorrente dei convenuti e del terzo chiamato, precisandosi che la responsabilità era così ripartita: appaltatrice e direttore dei lavori, nella misura di 1/3 del totale (1/2 nei rapporti interni); di 2/3 invece a carico del Condominio e del condomino titolare di diritto esclusivo ( nei rapporti interni 2/3 per il primo ed 1/3 per l’altro ex art. 1126 c.c.)

giovedì 12 marzo 2015

Il professionista si paga prima (articolo da Il Sole 24Ore del 11/3/2015)

Crisi di impresa. Se scatta il fallimento, prededucibile il compenso per le attività svolte in precedenza
Il professionista si paga prima
Conta l’interesse della massa sotto il profilo cronologico e funzionale

In un periodo di profonda crisi congiunturale come quello attuale, è frequente che le società si rivolgano a professionisti per l’avvio del concordato preventivo o di altre procedure concorsuali e per l’espletamento delle diverse pratiche richieste dalla legge.
In tale ipotesi, è bene però tener presente che, se poi la società dovesse fallire, nella maggior parte dei casi il compenso spettante al professionista per l’espletamento delle procedure concorsuali rappresenta un credito prededucibile .
Secondo quanto precisato da ultimo dalla Corte di cassazione, infatti, i crediti sorti a seguito delle attività rese da un professionista per l’attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano di concordato preventivo rientrano tra quelli da soddisfare in prededuzione, in deroga al principio generale della par condicio creditorum. Il presupposto per la prededucibilità dei crediti, infatti, va ricercato nella effettiva utilità dell’obbligazione contratta per la massa dei creditori, e non solo nella semplice inerenza del debito contratto con la procedura fallimentare (Cassazione, ordinanza n. 1765/2015).
In realtà, l’ultima pronuncia della Corte è conforme ad un orientamento maggioritario di legittimità ormai consolidato, volto ad estendere l’ambito applicativo della prededucibilità dei crediti vantati dai professionisti per attività svolte in occasione e in funzione della procedura concorsuale.
Già in un’altra occasione, infatti, la stessa Cassazione, ritenendo prededucibili i crediti spettanti ad un professionista per l’attività di consulenza e assistenza prestata ai fini della ristrutturazione della società ha precisato che, in caso di fallimento, la prededuzione è riconosciuta non solo ai crediti sorti in occasione e durante la procedura concorsuale, ma anche a quelli sorti anteriormente, purché vi sia una connessione funzionale tra tali crediti e la stessa procedura concorsuale. Ciò vale anche con presentazione della domanda di concordato preventivo.
Tale connessione funzionale necessaria ai fini della prededucibilità sembra però non essere stata riconosciuta dagli stessi giudici di legittimità per i crediti relativi alla difesa giudiziale dell'imprenditore. In tal caso, infatti, non sarebbe dimostrato il nesso funzionale con la procedura concorsuale (Corte di cassazione, sentenza n. 5098/2014).
In via generale, dunque, in deroga al principio generale della par condicio creditorum, in caso di successivo fallimento sono comunque prededucibili i crediti relativi ad attività professionali svolte per l’ammissione alla precedente procedura concorsuale minore. La prededuzione dei crediti, infatti, è applicabile non soltanto alle obbligazioni sorte nell’ambito della procedura concorsuale vera e propria, ma anche a quelle che sono connesse ad essa in via generale e che sono state contratte nell’interesse di tutti i creditori (Cassazione, sentenze n. 8958/2014 e 9489/2013).
Sempre a parere della Corte, poi, oltre alle ipotesi in cui il credito si riferisca ad obbligazioni contratte direttamente dagli organi preposti ai fini dell’avvio e della esecuzione delle procedure concorsuali, sono prededucibili anche i crediti sorti a seguito di una scelta propria del debitore purché essi siano inerenti e finalizzati alla procedura concorsuale.
Il collegamento occasionale o funzionale posto dall’articolo della 111 Legge fallimentare (secondo cui sono prededucibili i crediti così qualificati da una disposizione di legge e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali) deve, infatti, intendersi riferito al nesso – non solo cronologico («in occasione»), né esclusivamente teleologico («in funzione») – tra l’insorgere del credito e gli obiettivi della procedura, ma anche nel senso che il pagamento di quel credito, ancorché avente natura concorsuale, rientra negli interessi della massa, e dunque risponde allo scopo della procedura, in quanto inerisce alla gestione fallimentare. Si tratta, dunque, di due criteri (quello cronologico e quello teleologico), autonomi e alternativi tra loro (Corte di cassazione, sentenze nn. 5705/2013 e 3402/2012). 

lunedì 9 marzo 2015

Usucapione di posto auto: la Cassazione ne individua i presupposti Cassazione civile , sez. II, sentenza 16.05.2014 n° 10858

(articolo da www.altalex.it)
Al fine di ottenere, nell’ambito di un condominio, il riconoscimento per usucapione di un diritto reale esclusivo, quale un diritto di servitù di transito e parcheggio, è necessario provare lo ius excludendi nei confronti degli altri condomini e cioè il diritto di escludere gli altri condomini dall'uso dello spazio riservato a parcheggio.
La sentenza in argomento ha per oggetto il riconoscimento per usucapione a favore di una società immobiliare del diritto di servitù di transito e parcheggio esclusivo a carico di determinate aree scoperte del condominio cui fa parte la stessa società.
La Suprema Corte nega tale diritto confermando le precedenti decisioni di merito in quanto il titolo negoziale originario risalente al 1970 non conteneva alcuna indicazione dell'esclusività del parcheggio rispetto a tutti gli altri condomini ed inoltre il comportamento successivo delle parti nonché lo stato dei luoghi, come descritto nella C.T.U., non lasciava individuare un comportamento dei contraenti, successivo al contratto, idoneo a ravvisare l'esclusività del parcheggio su determinate zone. La stessa cartellonistica e la segnaletica orizzontale non denunciavano affatto l'esclusività dei posti macchina, in difetto di un dispositivo meccanico o umano che impedisse il parcheggio agli altri condomini. Lo stesso acquisto per usucapione di un simile diritto non è ravvisabile poiché non risulta provato "lo ius excludendi nei confronti degli altri condomini che poteva essere evidenziato solo da presidi umani o meccanici ben più incisivi delle righe per terra e dei cartelli o dei cortesi inviti del portiere".
Come correttamente sostiene la Suprema Corte l'acquisto per usucapione, in favore della società appellante, del diritto di parcheggio esclusivo è stato negato evidenziando, sulla base della valutazione di elementi in fatto, delle prove testimoniale e dell'esito della C.T.U., che la società stessa non aveva provato il diritto di escludere gli altri condomini dall'uso dello spazio riservato a parcheggio ed, anzi, ha ritenuto sussistente la prova contraria, avendo un teste dichiarato di aver sempre parcheggiato, dal 1986, sui posti auto dell'albergo ed avendo un altro testimone riferito che i vari posti auto erano occupati in maniera indistinta, senza alcun uso esclusivo da parte dei clienti del Condominio.
Tale motivazione, afferma la Suprema Corte, è esente da vizi logici e giuridici, non potendo essi consistere in un difforme apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice di merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvo i casi previsti tassativamente dalla legge in cui è assegnato alla prova un valore legale (Cass. n. 7394/2010; n. 6064/2008).

sabato 7 marzo 2015

Mansarda condominiale: incorporazione arbitraria e poteri dell'amministratore Cassazione civile , sez. II, sentenza 08.01.2015 n° 40

ARTICOLO DA WWW.ALTALEX.IT
La questione proposta all’attenzione della Seconda Sezione della Corte di Cassazione origina dall’incorporazione, arbitraria ed illegittima, da parte di un condomino di un’area comune, sulla quale riteneva di vantare un diritto di uso esclusivo.
Il Condominio citava in giudizio la proprietaria della porzione del quinto piano (con annessa area di solaio adibita a mansarda), alla quale, in sede di acquisto, veniva riconosciuto anche il godimento esclusivo del terrazzo prospicente l’area mansardata, sulla quale, tuttavia, insisteva una servitù di accesso condominiale.
Innanzi al giudice di prime cure, la convenuta asseriva che avendo acquisito una porzione di piano cui era connesso un terrazzo prospicente ad un’area mansardata, avesse al contempo maturato un diritto di esclusività anche relativamente alla suddetta area, ritenendo preminente il suo diritto a godere pienamente del terrazzo panoramico rispetto all’utilità della servitù di accesso.
Nel merito, il Condominio poneva quali richieste a base del proprio atto la reductio in pristinum e la restituzione degli spazi indebitamente sottratti, oltre al risarcimento dei danni, per avere, la resistente, inopinatamente modificato e inglobato nella sua proprietà l’area mansardata. Il Tribunale, all’esito del suo giudizio, accordava le prime due richieste, rigettando quella risarcitoria.
Il giudice di primo grado riscontrava, dunque, un’appropriazione indebita di un’area comune del Condominio, idonea a pregiudicare in modo rilevante e apprezzabile l’utilizzo degli altri partecipanti, anche se la proprietaria aveva lasciato una piccola via di accesso alla mansarda mediante una scaletta “disagevole e pericolosa”.
Tali statuizioni venivano confermate in toto anche dalla Corte di Appello cui la convenuta in prima istanza ricorreva.
Le questioni rilevanti emerse nel giudizio innanzi alla Corte di Cassazione
Chiara la questione nel merito, le doglianze esposte alla Suprema Corte dalla ricorrente, già soccombente nei due precedenti gradi di giudizio, involgono principalmente profili di legittimità.
Gli Ermellini si sono trovati a statuire, sostanzialmente, su due principali argomentazioni che hanno, tra l’altro, rappresentato un motivo di confronto in seno alla giurisprudenza più avvertita:
i poteri rappresentativi e la legitimatio ad processum dell’amministratore di condominio;
i c.d. diritti autodeterminati e il divieto di ius novorum in appello.
I poteri rappresentativi dell’amministratore di condominio
Con riferimento alla prima tematica evocata, si deve premettere che è discussa la natura giuridica del rapporto intercorrente tra l’amministratore di condominio e i condomini.
Sono due gli orientamenti che si sono registrati in merito.
Secondo l’orientamento prevalente, l’amministrazione di condominio configura un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza, in quanto l’amministratore non rappresenta un ente distinto dai condomini ma i condomini stessi.
Un diverso orientamento, invece, sostiene che l’amministratore sia assimilabile ad una longa manus dei condomini e come tale vincolato nelle sue azioni al placet dell’assemblea condominiali.
Seguendo l’opzione ermeneutica maggioritaria, dunque, si pone il problema di individuare in quali ipotesi e sulla scorta di quali ragioni l’amministratore può esercitare la propria potestà rappresentativa in assenza di una preventiva delibera dell’assemblea condominiale e quando, viceversa, è legato alla necessaria autorizzazione del collegio condominiale.
Al riguardo, la disciplina del potere rappresentativo dell’amministratore trova il suo appiglio normativo nel combinato disposto degli artt. 1130 e 1131 c.c.

La prima disposizione, al punto 4, obbliga l’amministratore a “compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio”. Nei limiti di questa attribuzione l’amministratore ha la rappresentanza dei condomini e può liberamente agire in giudizio sia contro i condomini stessi sia contro i terzi. In questo senso, per quanto attiene ai provvedimenti che possono essere adottati dall’amministratore, la giurisprudenza è concorde nell’affermare che “Il potere rappresentativo che compete all’amministratore del condominio ex artt. 1130 e 1131 c.c. e che, sul piano processuale, si riflette nella facoltà di agire in giudizio per la tutela dei diritti sulle parti comuni dell’edificio, comprende tutte le azioni volte a realizzare tale tutela, con esclusione soltanto di quelle azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui si riferiscono, esulando, pertanto, dall’ambito degli atti conservativi” (Corte di Cassazione, 22 marzo 2013, n. 7327).
Tale esegesi implica che l’amministratore può adottare i soli atti materiali e giudiziali, necessari per la salvaguardia dell’integrità dell’immobile, a contenuto meramente esecutivo, restandogli precluse azioni contro i singoli condomini o verso terzi che involgano una questione di titolarità dei diritti vantati su cose e parti dell’edificio.
L’esercizio della potestà rappresentativa in questi ultimi casi è, dunque, subordinata alla previa autorizzazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 1131, comma 1, c.c., adottata con la maggioranza qualificata, come previsto dall’art. 1136 c.c. (Corte di Cassazione, 3 aprile 2003, n. 5147; 6 febbraio 2009, n. 3044).
Nella cennata ottica, volgendo lo sguardo alla dinamica verificatasi nel caso concreto, l’esercizio dell’azione processuale da parte dell’amministratore del condominio avverso la convenuta è stata ritenuta dalla Suprema Corte del tutto idonea e legittima a tutelare gli interessi condominiali, in quanto supportata da una delibera ad hoc adottata dall’assemblea condominiale con le previste maggioranze.

Diritti autodeterminati e richieste petitorie
La seconda, interessante, tematica emersa all’interno del giudizio di che trattasi, afferisce alla possibilità di chiedere, nel corso del giudizio di prime cure o in quello di appello, il riconoscimento di un diritto in assenza dell’allegazione del sottostante titolo al momento della definizione della causa petendi.
Premesso che la causa petendi rappresenta la ragione obiettiva sulla quale si fonda la domanda propedeutica all’instaurazione del giudizio, e si differenzia dal petitum che coincide, invece, con ciò che si chiede al giudicante, la richiesta esperita in un secondo momento comporterebbe, inevitabilmente, una mutatio libelli, sanzionata con il rigetto della stessa.
Tuttavia, l’assunto appena riferito, pur essendo pacificamente condiviso in dottrina e giurisprudenza, non riveste carattere assoluto, facendo eccezione i c.d. diritti autodeterminati, ossia quei diritti “individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, rappresentato dal bene che ne costituisce l'oggetto, sicché nelle azioni ad essi relative, a differenza delle azioni accordate a tutela dei diritti di credito, la causa petendi si identifica con i diritti stessi, mentre il titolo, necessario alla prova del diritto, non ha alcuna funzione di specificazione della domanda” (Corte di Cassazione, 21 novembre 2012, n. 20558).
In questo senso, il criterio discretivo tra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati risiede nella natura unica e irripetibile della situazione sostanziale dedotta, tant’è che mentre per i primi la loro individuazione prescinde dal titolo d’acquisto depositato, per i secondi la causa petendi si concretizza nel riferimento a quella specifica situazione identificata, necessariamente, con l’atto costitutivo.
Pertanto, nelle azioni relative ai diritti autodeterminati, quali i diritti assoluti come la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la causa petendi si identifica con i diritti stessi e con il bene che ne forma oggetto, essendo superflua la dimostrazione degli atti e dei fatti da cui dipende il diritto anelato. “Ne consegue che l'allegazione, nel corso del giudizio di rivendicazione, di un titolo diverso (nella specie, usucapione) rispetto a quello (nella specie, contratto), posto inizialmente a fondamento della domanda, costituisce solo un'integrazione delle difese sul piano probatorio e non determina, quindi, la novità della domanda né la rinuncia alla valutazione del diverso titolo dedotto in precedenza” (Corte di Cassazione, 21 novembre 2012, n. 20558).
A riprova della unitarietà di vedute all’interno della giurisprudenza sulla distinzione tra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati militano, altresì, le argomentazioni addotte dai giudici della Corte nella recente sentenza del 17 novembre 2014, n. 24400, il cui principio di diritto testualmente recita “Nelle azioni relative a diritti autodeterminati, quali la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la causa petendi della domanda si identifica con i diritti stessi e con il bene che ne forma l'oggetto. Pertanto, i fatti o gli atti da cui dipende l'acquisto del diritto vantato, essendo ininfluenti ai fini dell'individuazione della causa petendi, hanno natura processuale di fatti secondari e sono dedotti esclusivamente in funzione probatoria del diritto vantato in giudizio. Con l'ulteriore conseguenza che non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell'attore di un fatto o di un atto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda”.
Riportando le determinazioni testè enunciate nell’alveo del caso di specie, gli Ermellini hanno riconosciuto valide le richieste di accertamento di compiuta usucapione, esperite dalla ricorrente dapprima nella fase conclusiva del giudizio di primo grado ed, in seguito, nell’atto di appello.
Ciò, tuttavia, non ha mutato la sostanza della decisione, poiché, nel merito, la Corte di Cassazione ha richiamato le due precedenti decisioni nelle quali le motivazioni addotte a sostegno della domanda di usucapione non erano state ritenute sufficienti per un suo accoglimento.

mercoledì 4 marzo 2015

Agevolazioni fiscali relative al trasferimento di beni immobili in mediazione (da www.assiom.it)


L’esenzione prevista per il verbale di mediazione riguarda anche l’atto redatto dal Notaio, se quest’ultimo recepisce i contenuti del suddetto verbale. Diversamente, qualora le parti stipulino davanti al notaio un atto di contenuto novativo, non troverà applicazione la disposizione agevolativa di cui all’art. 17, comma 3.
E’ questo, in sintesi, il parere espresso dalla Agenzia delle Entrate sulla istanza di interpello di ASSIOM in merito all’art. 17, comma 3, del d.lgs. 28/2010 che, come noto, prevede che “Il verbale di accordo è esente dall’imposta di registro entro il limite di valore di 50.000 euro, altrimenti l’imposta è dovuta per la parte eccedente”.
Un associato ASSIOM aveva evidenziato come, sul territorio nazionale, alcuni uffici delle entrate ritenessero le agevolazioni applicabili anche all’atto del notaio che recepiva il verbale di mediazione, altri uffici no.
La Ass.i.o.m., pertanto, si è attivata e, in data 09/12/2014, ha inoltrato all’Agenzia delle Entrate una istanza di interpello per avere chiarimenti in merito alla questione.
Il testo dell’interpello e del parere è a vostra disposizione cliccando sul link di seguito riportato e, quindi, ci limitiamo ad evidenziare solo alcuni punti da tenere in considerazione al fine di poter usufruire delle agevolazioni in caso di trasferimento di beni immobili in mediazione.
L’Agenzia delle Entrate, come detto, riconosce le agevolazioni fiscali suddette solo nel caso in cui l’atto redatto dal notaio recepisce i contenuti del verbale di mediazione, poichè davanti al notaio le parti non pongono in essere un regolamento negoziale nuovo o diverso da quello originariamente voluto, contenuto nell’atto di mediazione e sottoscritto in sede di chiusura del procedimento di mediazione.
Qualora, al contrario, le parti stipulino davanti al notaio un atto dal contenuto novativo che non preveda la mera esecuzione degli accordi raggiunti in mediazione ma si tratti, in realtà, di un contratto integrativo dell’accordo raggiunto in mediazione avente quindi un contenuto innovativo rispetto al verbale stesso, limitatamente a detto negozio non troverà applicazione l’agevolazione prevista dalla normativa.
E’ bene, dunque, tenere presente questo aspetto e fare in modo che il verbale che definisce la mediazione sia comprensivo di tutti gli obblighi che le parti intendano prevedere, senza rinviare al notaio per il completamento della loro definizione.
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martedì 3 marzo 2015

Assemblea richiesta anche da un solo condomino (Dal Sole 24Ore di oggi)


La legge di riforma del condominio (220/2012) ha ampliato la possibilità per il singolo condomino di chiedere la convocazione di assemblea. Innanzi tutto bisogna distinguere la richiesta di assemblea dalla convocazione della stessa.
La richiesta di convocazione di assemblea, sia ordinaria che straordinaria, in base all’articolo 66, comma 1 delle disposizioni di attuazione del Codice civile, qualora non vi provveda l’amministratore, è rimasta immutata ed è concessa ad almeno due condòmini che rappresentino un sesto del valore dell’edificio. E la possibilità per i richiedenti di convocare anche l’assemblea scatta, quando, decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, l’amministratore non la convochi.
Tre eccezioni sono poi state introdotte dalla legge di riforma, per cui l’amministratore è tenuto a convocare l’assemblea su richiesta proveniente anche da un solo condomino quando:
• sia interessato all’adozione di deliberazioni riguardanti le innovazioni che mirano a opere e interventi «agevolati» previsti dall’articolo 1120, comma 2, n.1, 2 e 3); la convocazione dovrà effettuarsi entro trenta giorni dalla richiesta (articolo 1120, comma 2, Codice civile);
• siano emerse gravi irregolarità fiscali o l’amministratore non abbia aperto e non abbia utilizzato il conto corrente postale o bancario intestato al condominio. La convocazione dell’assemblea mira a far cessare la violazione e revocare il mandato all’amministratore (articolo 1129, comma 11, Codice civile);

• vuole fare cessare attività che violino e incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni, anche mediante azioni giudiziarie (articolo 1117 quater Codice civile).

Ricevuta la richiesta di assemblea, la convocazione è, in linea di principio, un atto dovuto e riservato dell’amministratore (un’eccezione è prevista dall’articolo 65 delle disposizioni di attuazione del Codice civile il quale attribuisce al curatore speciale, nominato ex articolo 80 Codice procedura civile quando per qualsiasi causa manchi l’amministratore, il potere di convocare l’assemblea su richiesta anche di un solo condòmino che intenda iniziare o proseguire una lite contro i condomini, per avere istruzioni sulla condotta di una lite).
Esiste poi il caso dell’assemblea per istruzioni su una lite in corso (articolo 65 delle disposizioni di attuazione), richiedibile anche da un solo condomino ma che va convocata dal curatore speciale quando per qualsiasi causa manchi l’amministratore).

L’assemblea, tanto ordinaria quanto straordinaria, può, infine, eccezionalmente, essere convocata su iniziativa di ciascun condomino, quando:
• manchi l’amministratore, per esempio perché deceduto, scomparso, o quando i condòmini non sono più di 8 (articolo 66, comma 2 delle disposizioni);
• l’amministratore sia cessato dall’incarico a seguito della perdita dei requisiti indicati nelle lettere a) b) c) d) ed e) dell’articolo 71 bis delle disposizioni di attuazione, richiesti per poter svolgere l’incarico di amministratore di condominio. Attenzione: solo in quest’ultimo caso il singolo condomino ha la speciale possibilità di procedere immediatamente alla convocazione «senza il rispetto di alcuna formalità».




lunedì 2 marzo 2015

Come si calcola l’indennità di espropriazione (DA WWW.LALEGGEPERTUTTI.IT)

Le regole fondamentali da rispettare per verificare la correttezza del calcolo della indennità di esproprio da corrispondere ai proprietari di beni immobili. Soprattutto nel nostro Paese sono spesso causa di discussioni e liti giudiziarie le procedure di espropriazione finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche o, comunque, destinate a finalità pubbliche. La legge stabilisce innanzitutto che l’indennità sia determinata in via provvisoria e comunicata, tramite notificazione, al/ai proprietario/i dei beni oggetto della procedura espropriativa. Questi ultimi possono proporre osservazioni sulla indennità così determinata allo scopo, eventualmente, di chiederne una rideterminazione. Se il soggetto beneficiario della espropriazione accetta la rideterminazione si perviene alla cosiddetta cessione volontaria che prevede la corresponsione al proprietario espropriato dell’indennità fissata, incrementata delle maggiorazioni previste appunto per i casi di cessione volontaria. Se non si perviene a questo accordo ed alla cessione volontaria, il soggetto espropriante deve notificare all’espropriato il cosiddetto atto di determinazione contenente la descrizione della procedura e degli elementi su cui si fonda il calcolo della indennità che provvede a depositare presso la Cassa Depositi e Prestiti. Si avvia, così, la procedura contenziosa per la determinazione della indennità definitiva che prevede la nomina di consulenti tecnici di parte e del consulente d’ufficio ognuno dei quali procede alle proprie valutazioni e stime. Le difficoltà maggiori sorgono proprio in tale fase e per la stima in particolare dell’indennità delle aree edificabili in quanto le uniche certezze sono che il valore del bene deve tenere in conto ogni sorta di vincolo esistente sul bene medesimo al momento della emanazione del decreto di esproprio. L’indennità di esproprio, infine, non può essere superiore al valore dichiarato ai fini dell’Ici immediatamente antecedente alla formale determinazione dell’indennità stessa.

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