mercoledì 28 dicembre 2016

Termovalvole, senza proroga milioni fuori legge (da Il Sole 24Ore)

Riportiamo dal Sole 24Ore un efficace aggiornamento in merito alla scadenza di fine anno circa i contabilizzatori di calore (in coda trovate il link al sito del quotidiano):
In tanti non ce l’hanno fatta: di fatto, tre mesi a bocce ferme per approvare la spesa per l’installazione dei contabilizzatori di calore nei condomìni erano troppo pochi, come è apparso subito evidente, considerando che il Dlgs 146/2016 è stato pubblicato a ridosso delle vacanze. Il Governo, ignorando i tempi e i modi di valutazione e varo di una delibera condominiale, con conseguente individuazione della ditta appaltatrice, ha reso impossibile l’osservanza del termine del 31 dicembre.
Ora la questione, che potrebbe trovare una soluzione provvisoria nel consueto decreto legge «milleproroghe» di fine anno, è stata di nuovo messa sul tavolo da Confedilizia, dato che ufficialmente il Governo è cambiato. A dire il vero il ministro competente è sempre lo stesso, quello dello Sviluppo, che è rimasto al suo posto ma che sinora non ha mai fatto promesse ufficiali.
La questione non è di facilissima risoluzione: le norme che impongono i contabilizzatori sono l’attuazione obbligatoria di una direttiva europea 2012/27/Ue, i cui termini erano peraltro già scaduti. Ma ciò che ha messo in allarme centinaia di migliaia di condomìni con impianto centralizzato (per non parlare degli edifici «polifunzionali» di un unico proprietario) non è stata la spesa quanto le sanzioni in caso di inadempienza, da 500 a 2.500 euro, che nel Dm 146 sono state spostate dal condominio al singolo condòmino.
Da anni si parla di questo obbligo e la cosa paradossale è che i condòmini più solerti ad adempiere si sono poi trovati a dover rifare i lavori grazie alle giravolte normative e al sovrapporsi delle leggi regionali.
Una proroga sarebbe quindi una questione di buon senso e di equità e potrebbe essere orientata solo all’entrata in vigore delle sanzioni, così come era stato fatto in Lombardia in circostanze analoghe: la legge regionale 5/2013 le ha sospese sino al 2017.
Va fatta, però, un’osservazione più generale, che riguarda l’effettiva possibilità di esercitare i controlli sull’installazione. Controlli che spettano principalmente alle Arpa (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente). Si tratta di istituzioni che, benché dotate dei più ampi poteri, anche di polizia giudiziaria, non possono certo dedicare centinaia di migliaia di ore/uomo a delle verifiche a tappeto. Inoltre, una sanzione irrogata a chi, nei termini,abbia già deliberato i lavori, stanziato i fondi e scelta l’impresa, e si trovi nell’impossibilità di adempiere a causa dei ritardi dell’impresa stessa, andrebbe impugnata al Tar con buone probabilità di vittoria.
Ma di fronte al rischio di nuovi contenziosi e di nuove, inutili sanzioni nei confronti di chi cerca solo di rispettare una tempistica irreale la proroga appare come la soluzione più semplice.
http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2016-12-26/termovalvole-senza-proroga-milioni-fuori-legge--235249.shtml?uuid=ADNbogKC

giovedì 13 ottobre 2016

Parabola e violazione del decoro architettonico. Tutto dipende dalla interpretazione delle norme regolamentari. (Fonte www.condominioweb.com)

Spesso le controversie condominiali si decidono anche in base all'interpretazione che i giudici danno ai regolamenti di condominio, specie nei casi in cui si discute di tutela del decoro architettonico.
Il caso preso in esame dalla sentenza della Corte di cassazione n. 20248 del 7 ottobre 2016 offre un esempio di come possano risultare decisivi, da un lato, la lettura delle norme regolamentari fornita dai giudici e, dall'altro, la formulazione dei motivi di contestazione delle parti, soprattutto innanzi alla suprema Corte.
Il caso - Il condominio (formato da villette bifamiliari a schiera) cita in giudizio il proprietario di un'unità abitativa facente parte del complesso immobiliare per ottenere la rimozione di una pensilina ed una antenna satellitare installate sulla facciata, in quanto lesive del decoro architettonico e realizzate in violazione dell'art. 5 del regolamento di condominio e di quanto deliberato in assemblea.
La domanda veniva accolta dal Tribunale, ma la sentenza veniva ribaltata dalla Corte d'appello.
Secondo i giudici territoriali, anzitutto, nel caso come quello in esame di villette a schiera non troverebbe applicazione la disciplina del condominio degli edificio ex art. 1117 c.c., riguardante invece solo gli edifici divisi orizzontalmente per piani.
A ciò si aggiunga che, i muri perimetrali (su cui erano stati installati la pensilina e l'antenna) non sono assimilabili ai muri maestri, avendo solo la funzione di delimitare le varie porzioni e di sorreggere la copertura, anch'essa di proprietà esclusiva o in comune tra le due unità affiancate.
Essi, pertanto, secondo la Corte d'appello sarebbero di proprietà esclusiva, anche se l'art. 2 del regolamento li include tra i beni comuni ex art. 1117 c.c.
Sempre secondo i giudici d'appello, la previsione contenute nell'atto di assegnazione circa gli obblighi da osservare nella tinteggiatura delle facciate o nelle altre attività ivi previste tendono, quali obligationes propter rem, a garantire la conservazione della uniformità dell'aspetto estetico del complesso immobiliare, analogamente a quanto fa l'artt. 1122 c.c. concernente il divieto di opere pregiudizievoli per le parti comuni.
In tale ottica andrebbe letto allora l'art. 5 del regolamento condominiale in tema di autorizzazione assembleare per le modificazioni ed innovazioni, sicché dovrebbe escludersi l'illiceità di ogni intervento, anche minimo eseguito dal singolo sulle pareti esterne della propria villetta per il solo fatto di non essere stato autorizzato dall'assemblea dei condomini.
Nel caso in esame, conclude la Corte d'appello, né la tettoia né l'antenna satellitare rappresentano un pregiudizio per il decoro architettonico del complesso edilizio.
La decisione di merito si base dunque su due punti - la non applicabilità dell'art. 1117 c.c.alle villette a schiera e l'interpretazione “elastica” del regolamento di condominio - che effettivamente suscitano qualche perplessità. Ad esempio, una sentenza di un anno fa della stessa Corte (n. 18344 del 18 settembre 2015) dice che anche le villette a schiera possono rientrare nella nozione di condominio.
Ed infatti, il condominio ha proposto ricorso in cassazione per ottenere la riforma della sentenza,a suo dire errata. Ma lo ha fatto formulando dei motivi di ricorso che non hanno permesso alla Corte di Cassazione di intervenire come (forse) avrebbe voluto.
Lo si evince leggendo la pronuncia in commento.
Con riferimento all'interpretazione dell'art. 5 del regolamento, per la Cassazione si tratta effettivamente di un'interpretazione “elastica” basata sull'art. 1122 c.c. Interpretazione che però la Corte non può fare altro che confermare, in quanto concernente tipici apprezzamenti di fatto non sindacabili dagli Ermellini.
Infatti, le valutazioni sulla alterazione del decoro architettonico (sussistente non solo per quelle innovazioni che alterano le linee architettoniche, ma anche per quelle che comunque si riflettano negativamente sull'aspetto armonico dell'edificio) spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità ove (come nel caso di specie) non presenti vizi di motivazione.
“Il condominio”– sottolineano i giudici di legittimità – “avrebbe dovuto allora impugnare l'interpretazione data al contenuto dell'art. 5 del regolamento di condominio con uno specifico motivo di ricorso sotto il profilo della violazione delle norme di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e seguenti c.c.) oppure di illogicità della motivazione”.
Invece, la parte ricorrente non ha denunziato né la violazione degli artt. 1362 e seguenti, né precisi vizi logici della sentenza. Pertanto - conclude la Corte – “pur volendo ritenersi fondata la censura con cui si sostiene la applicabilità della nozione di condominio in senso proprio anche al caso, come quello in esame, di costruzioni orizzontalmente” (c.d. ville a schiera, cfr. sentenza n. 18344 del 18 settembre 2015),
la mancanza di motivi sull'attività di interpretazione della norma regolamentare o di specifiche censure alla logica del percorso argomentativo utilizzato per sorreggere la seconda ratio, non avrebbe potuto comunque comportare la cassazione della sentenza, essendo divenuta definitiva la relativa motivazione”.

Fonte http://www.condominioweb.com/ecco-quando-e-possibile-installare-una-parabola-sulla-facciata.13105#ixzz4MyWAGH9M
www.condominioweb.com 

martedì 13 settembre 2016

Cani e gatti, condomini aperti. Sentenza del Tribunale di Cagliari (Fonte: Italia Oggi Sette)

Una sentenza del tribunale di Cagliari chiarisce la portata della legge n. 220/2012
"Cani e gatti, condomini aperti
Nulli i divieti contenuti nei regolamenti, anche originari"

Animali domestici sempre ammessi in condominio. Deve infatti ritenersi nullo l’eventuale divieto contenuto nel regolamento condominiale e questo non solo quando quest’ultimo sia stato approvato a maggioranza in assemblea, ma anche laddove si tratti di un regolamento originario, di natura cosiddetta contrattuale.
Questa la decisione contenuta in una recente sentenza del tribunale di Cagliari, depositata in cancelleria lo scorso 22 luglio 2016. Le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice sardo in merito alla portata applicativa del nuovo art. 1138 del codice civile, siccome modificato dalla legge n. 220/2012, appaiono infatti nuove se confrontate con quanto ritenuto dalla maggior parte dei commentatori della riforma del condominio.
Il caso concreto. Nella specie un condomino proprietario di un cane di piccola taglia si era rivolto al tribunale di Cagliari per impugnare il regolamento, chiedendo che venisse accertata la nullità della disposizione contenente il divieto di tenere animali domestici nel condominio. La domanda traeva spunto dalla modifica dell’art. 1138 c.c. a opera della legge di riforma del condominio, a mente della quale le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici. L’amministratore, nel costituirsi in giudizio nell’interesse del condominio, aveva però allegato la natura contrattuale del regolamento, essendo stato lo stesso predisposto dall’originario costruttore dell’edificio condominiale e richiamato nei singoli atti di acquisto delle unità immobiliari di proprietà esclusiva, con conseguente infondatezza della domanda. Il tribunale ha tuttavia accolto il ricorso presentato dal condomino ex art. 702-bis c.p.c., ritenendo che la disposizione impugnata fosse da ritenersi invalida per violazione di legge, anzi addirittura nulla per contrasto con la norma contenente principi di ordine pubblico.
Il divieto di tenere animali in condominio. Prima della riforma del 2012 si riteneva generalmente che un divieto siffatto potesse essere contenuto soltanto in un regolamento cosiddetto contrattuale, ossia originariamente predisposto dal costruttore dell’edificio e accettato nei vari atti di acquisto o, comunque, accettato espressamente da tutti i comproprietari, in quanto una tale limitazione delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei singoli condomini non avrebbe potuto essere introdotta dalla semplice maggioranza di essi. Su questa posizione si era attestata anche la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, evidenziando la conseguente invalidità di simili divieti contenuti in regolamenti cosiddetti assembleari, ossia approvati dai condomini a maggioranza nel corso delle periodiche riunioni condominiali. Si evidenziava, in ogni caso, come una questione del tutto diversa fosse quella della responsabilità del padrone per gli eventuali danni procurati dall’animale nei confronti degli altri condomini, vuoi per il disturbo della quiete che per questioni igieniche.
Il nuovo art. 1138, ultimo comma, del codice civile. Come detto, con la legge n. 220/2012 di riforma del condominio è stato introdotto un nuovo ultimo comma all’art. 1138 c.c. il quale, come parimenti evidenziato, prevede che il regolamento non possa vietare di tenere animali domestici nelle unità immobiliari di proprietà esclusiva. Per tutta una serie di motivi, però, la maggior parte dei commentatori ha fino a oggi ritenuto che questa novità (valutata in realtà come conferma dello status quo) valesse soltanto per i regolamenti cosiddetti assembleari e non sovvertisse il principio cui era pervenuta la giurisprudenza in precedenza richiamata, vale a dire l’impossibilità di imporre a maggioranza validi divieti che comportassero una limitazione delle facoltà comprese nel diritto di proprietà. La conclusione di cui sopra è stata sostenuta sia alla luce di un’interpretazione sistematica della norma (l’art. 1138 c.c. si occupa di disciplinare il regolamento approvato in assemblea) sia in ragione del tradizionale principio di diritto appena richiamato (nella maggior parte dei casi la riforma del 2012 ha infatti tradotto in disposizioni di legge le conclusioni alle quali era pervenuta la più recente giurisprudenza di legittimità). Non è mancato, però, chi ha al contrario evidenziato la valorizzazione operata oggigiorno a livello normativo interno e comunitario del rapporto uomo-animale, inferendo da ciò la necessità di interpretare la novella legislativa in maniera più ampia ed evoluta.
La decisione del tribunale di Cagliari. Ed è proprio quest’ultimo lo spirito che sembra avere mosso il giudice sardo all’innovativa interpretazione dell’ultimo comma del novellato art. 1138 c.c.
Il tribunale, infatti, nell’accogliere il ricorso introduttivo del condomino proprietario dell’animale domestico, ha ritenuto che l’impugnata disposizione regolamentare fosse affetta da «nullità sopravvenuta», conseguente all’introduzione della menzionata novità normativa, essendo quest’ultima «applicabile ( ) a tutte le disposizioni con essa contrastanti, indipendentemente dalla natura dell’atto che le contiene, regolamento contrattuale ovvero assembleare, e indipendentemente dal momento dell’introduzione di quest’ultimo, prima o dopo la novella del 2012». Sempre secondo il giudice di primo grado, detto divieto è da considerarsi addirittura nullo, in quanto contrario ai principi di ordine pubblico «ravvisabili, per un verso, nell’essersi indirettamente consolidata, nel diritto vivente e a livello di legislazione nazionale, la necessità di valorizzare il rapporto uomo-animale e, per altro verso, nell’affermazione di quest’ultimo principio anche a livello europeo».
E, invero, non mancano nel panorama normativo interno e comunitario le disposizioni che in questi ultimi anni hanno migliorato la tutela giuridica degli animali. La legge quadro n. 281/91 in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo aveva per esempio condannato gli atti di crudeltà, i maltrattamenti e l’abbandono degli animali, mentre la più recente legge n. 189/2004 ha introdotto i reati di uccisione e maltrattamento degli animali di cui agli artt. 544-bis e ss. del codice penale. Successivamente le modifiche al Codice della strada e il relativo decreto ministeriale di attuazione n. 217/2012 hanno disposto l’obbligo di fermarsi a soccorrere l’animale eventualmente ferito in caso di incidente. A livello europeo si possono invece ricordare la Convenzione per la protezione degli animali da compagnia di Strasburgo del 1987 e l’art. 13 del Trattato Ue, il quale stabilisce che l’Unione e gli stati membri devono tenere conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti.
Secondo il giudice sardo, quindi, la norma introdotta all’ultimo comma dell’art. 1138 c.c. sarebbe espressione di principi già operanti nel diritto vivente, frutto dell’evoluzione del comune sentire in ordine al rapporto uomo-animale e da considerarsi compresi nei più generali diritti inviolabili di cui all’art. 2 della Costituzione. Per questo motivo la nuova disposizione deve essere interpretata come espressione di principi di ordine pubblico, con conseguente applicabilità a tutte le tipologie di regolamento condominiale, a prescindere quindi dall’approvazione all’unanimità o a maggioranza del relativo divieto, e anche a quelli precedenti l’entrata in vigore della legge n. 220/2012.
In particolare, il tribunale di Cagliari, prendendo ulteriormente posizione sulla contraria opinione per la quale la predetta disposizione riguarderebbe i soli regolamenti cosiddetti assembleari, ha evidenziato come, seppure sia innegabile che i commi dell’art. 1138 c.c. che precedono quello aggiunto dal legislatore della riforma riguardino soltanto quest’ultima tipologia di atto, sia la rubrica della norma sia il predetto ultimo comma parlino, genericamente, di «regolamento», consentendo quindi di ritenere che il citato articolo del codice civile sia, per così dire, un contenitore atto a recepire disposizioni su entrambe le possibili forme di regolamento. Viene inoltre fatto notare come le conseguenze della violazione di tale divieto siano specificamente previste dall’art. 155 disp. att. c.c., a mente del quale «cessano di avere effetto le disposizioni del regolamento di condominio che siano contrarie alle norme richiamate nell’ultimo comma dell’art. 1138 del codice» (seppure detta norma si riferisse a quello che era l’ultimo comma della disposizione in esame prima della riforma del 2012, essendo probabile che il legislatore non abbia aggiornato il riferimento per un difetto di coordinamento sistematico del testo di legge). Secondo il tribunale di Cagliari, a ogni modo, questa sarebbe la miglior prova della tesi della nullità della disposizione regolamentare contenente siffatto divieto, «costituendo l’inefficacia mera conseguenza di un’invalidità e non invalidità essa stessa». 

venerdì 22 luglio 2016

Cassazione: stressare il vicino di casa può diventare stalking condominiale Fonte: StudioCataldi.it


Esasperare il vicino di casa è reato. Scatta, infatti, il delitto di stalking, quando il comportamento di un condomino diventa talmente esasperante da cagionare il perdurante e grave stato d'ansia e il cambiamento delle abitudini di vita idonei a configurare gli atti persecutori ex art. 612-bis c.p.
Ad affermarlo è la Cassazione, con la sentenza n. 26878/2016, ritenendo provata la credibilità e l'esasperazione del querelante e sgombrando il campo da qualsiasi dubbio in ordine alla presenza di "intenti calunniatori o contrasti economici". Alla base di una serie di ripetute querele vi era "una reale esasperazione" derivante dalle condotte del condomino indagato che avevano portato il vicino ad assumere tranquillanti, ad assentarsi dal lavoro, mettendo così in atto quel cambiamento delle abitudini di vita rivelatore dello stato di ansia idoneo a configurare il reato di stalking.
Per cui confermata la condanna della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti del vicino per il delitto di cui all'art. 612 bis c.p. in danno di vicini di casa.
La Cassazione consacra così l'estensione del delitto di stalking all'ambito condominiale (inaugurato con Cass. n. 20895/2011 e ribadito, tra le altre, con Cass. n. 3993372013; con Cass. n. 45648/2013).





(www.StudioCataldi.it) 

lunedì 18 luglio 2016

Lastrico solare ad uso esclusivo: le Sezioni Unite intervengono su responsabilità e ripartizione delle spese Cassazione Civile, SS.UU., sentenza 10/05/2016 n° 9449 (Fonte Altalex.com)

Le Sezioni Unite intervengono sul tema mettendo fine ad una querelle giurisprudenziale relativa sia all’inquadramento della responsabilità, sia alla modalità di ripartizione delle spese.
La questione era già stata affrontata dalle sezioni unite nel 1997: in allora, la sentenza rinveniva la sussistenza di un obbligazione propter rem in capo sia al proprietario del lastrico ad uso esclusivo, sia al condomìnio in quanto tale lastrico fungesse anche da parziale copertura dell’edificio ed i danni lamentati fossero derivati da carenza di manutenzione di tale parte comune.
Si è ritenuta, pertanto, sussistente una responsabilità di natura contrattuale da ripartirsi tra i soggetti coinvolti in base all’art. 1126 secondo il seguente principio di diritto : “poiché il lastrico solare dell’edificio svolge la funzione di copertura del fabbricato anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito ad uso esclusivo ad uno dei condòmini, all’obbligo di provvedere alla sua riparazione o alla sua ricostruzione sono tenuti tutti i condòmini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto di uso esclusivo. Pertanto, dei danni cagionati all’appartamento sottostante per le infiltrazioni d’acqua provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c.".
In seguito si è sviluppata però una giurisprudenza di segno opposto, tendente a ravvisare una responsabilità extracontrattuale concorrente tra il proprietario ad uso esclusivo del lastrico e condominio ex art. 2051, cioè per danni da cosa in custodia.
Rilevata l’esistenza di un contrasto perdurante da circa 20 anni, la Seconda Sezione civile della suprema corte ha rimesso la questione alle sezioni unite con la ordinanza interlocutoria n. 13526 del 2014.
Le sezioni unite, in riscontro, hanno adottato un indirizzo mediano tra i due precedenti
In particolare, precisato che il principio di diritto enunciato non troverà applicazione laddove si riesca a dimostrare che il danno ha avuto origine non già dalla mancata manutenzione della cosa comune, ma ad altre condotte ascrivibili in via esclusiva al proprietario del lastrico in uso esclusivo, hanno:
  • confermato la natura extracontrattuale della responsabilità gravante sul condòmino titolare del diritto d’uso esclusivo ex art 2051 c.c.;
  • dichiarato la responsabilità concorrente del condomìnio in base alla norma di norma di cui all’art 1130 nell’ipotesi in cui l’amministratore ometta di attivare gli obblighi conservativi delle cose comuni su di lui gravanti ai sensi dell’art. 1130, primo comma, n. 4, cod. civ., ovvero nel caso in cui l’assemblea non adotti le determinazioni di sua competenza in materia di opere di manutenzione straordinaria, ai sensi dell’art. 1135, primo comma, n. 4, cod. civ.;
  • il parametro di divisione delle spese resta quello di cui all’art. 1126c.c.
Corollari diretti di questa impostazione sono principalmente due:
  • l’applicazione tutte le disposizioni che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, prime fra tutte quelle relative alla prescrizione ( quinquennale) e all’imputazione della responsabilità, dovendosi escludere che l’acquirente di una porzione condominiale possa essere ritenuto gravato degli obblighi risarcitori sorti in conseguenza di un fatto dannoso verificatosi prima dell’acquisto, dovendo quindi dei detti danni rispondere il proprietario della unità immobiliare al momento del fatto;
  • applicazione dell’art. 2055 cod. civ., ben potendo il danneggiato agire nei confronti del singolo condomino, sia pure nei limiti della quota imputabile al condominio. In tal senso, del resto, si è già affermato che "il risarcimento dei danni da cosa in custodia di proprietà condominiale soggiace alla regola della responsabilità solidale ex art. 2055, primo comma, cod. civ., norma che opera un rafforzamento del credito, evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota” 
Questa nuovo approdo, si espone a qualche criticità nella pratica: sebbene non vengano espressamente richiamate, è lecito ritenere che troveranno applicazione anche le regole in materia di ripartizione dell’onere della prova in materia extracontrattuale, con l'effetto di gravare il danneggiato di un onere molto più pesante e scivoloso di quello esistente in base al precedente orientamento, quanto meno con riferimento al nesso causale.
Ciò stante è verosimile credere che il proprietario del lastrico in via esclusiva, preso atto che sarà molto più complesso dimostrare la sua responsabilità, potrebbe essere molto meno portato ad assumere un atteggiamento collaborativo o proattivo rispetto alla custodia del bene.
Il motivo per cui il danneggiato proprietario debba essere equiparato ad un comune terzo in questa vicenda resta, parimenti, poco chiaro: in ossequio al dovere di solidarietà sociale e buona fede, l’appartenenza alla medesima comunione condominiale, legittimerebbe il riconoscimento dell’esistenza di una posizione di tutela qualificata gli interessi del comunista danneggiato, che, pertanto, dovrebbe essere agevolato nella tutela dei suoi interessi, anziché processualmente equiparato al quidam de populo.
Fonte Altalex: http://www.altalex.com/documents/news/2016/05/12/lastrico-solare-ad-uso-esclusivo-sezioni-unite-intervengono-su-responsabilita-e-ripartizione-spese?utm_source=nl_altalex&utm_medium=referral&utm_content=altalex&utm_campaign=newsletter&TK=NL&iduser=1052833

giovedì 7 luglio 2016

Corso Base abilitante all'attività di Amministratore Condominiale organizzato dal Collegio dei Geometri di Novara



Il Collegio Provinciale dei Geometri e Geometri Laureati di Novara organizza il Corso Base abilitante all'attività di Amministratore Condominiale.

La durata del percorso formativo è di 76 ore, compresa la valutazione finale prevista da normativa, con lezioni settimanali nei giorni 6- 13 - 20 - 27 Settembre, 4 - 11 - 18 - 25 Ottobre, 3 - 10 Novembre 2016.

L’entrata in vigore della Legge n. 220/2012 e del D.M. 140/2014 ha definitivamente normato la figura dell’Amministratore Condominiale, dettagliando il percorso formativo per poter affrontare seriamente questa attività e per potersi aggiornare efficacemente negli anni.

Il ruolo professionale e sociale svolto dall’Amministratore Condominiale richiede una molteplicità di conoscenze che comprendono vari ambiti di competenza.

Il programma è stato strutturato per formare efficacemente, con l’aiuto di professionisti esperti del settore (geometri, avvocati, ingegneri, commercialisti, periti industriali che giornalmente si confrontano gli argomenti trattati nelle lezioni), ai poliedrici aspetti della professione, preparando il futuro amministratore condominiale a fornire risposte di qualità ed a soddisfare le necessità dei propri clienti.

Il corso abilitante tratta in modo pratico e puntuale il ruolo dell’amministratore, il regolamento e le tabelle millesimali, la contabilità del condominio, i risvolti legali, la gestione dei conflitti, la sicurezza negli edifici, gli aspetti urbanistici ed edilizi.

Al termine del Corso, superata la valutazione finale, sarà rilasciato ATTESTATO ABILITANTE ALLO SVOLGIMENTO DELL’ATTIVITA’ DI AMMINISTRATORE CONDOMINIALE AI SENSI DELLA LEGGE N. 220/2012 E DEL D.M. N. 140/2014

Per informazioni ed iscrizioni contattare la Segreteria del Collegio Provinciale dei Geometri e Geometri Laureati di Novara.Tel. 0321 628225 - Fax. 0321 36064segreteria@geometri.novara.itcollegio.novara@geopec.it



mercoledì 6 luglio 2016

Come cacciare l'inquilino moroso. Ecco la procedura corretta. (Fonte www.condominioweb.com )

In tema di locazione, fra le armi a disposizione del proprietario contro l'inquilino che non vuole andare via, se sono venute meno le condizioni per la sua permanenza all'interno della casa, non c'è mai la denuncia penale ma solamente il procedimento di sfratto o l'azione di occupazione senza titolo.
Questo è il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione Penale con la sentenza n. 16932 del 22 aprile 2016 in merito all'occupazione di un immobile oltre il tempo concesso dal proprietario.
Preliminarmente. È importante evidenziare che per liberare l'immobile dai conduttori morosi o soggetti privi di titolo, l'unica alternativa è incardinare una causa civile, ovvero una procedura esecutiva di sfratto.
Per tale azione, giova ricordare devono sussistere 2 presupposti fondamentali: che sia stato stipulato e registrato un contratto di locazione (se il contratto non è registrato, si deve procedere con la causa ordinaria di occupazione senza titolo a cui si aggiungerà l'ulteriore esecuzione forzata); che il conduttore dell'immobile non ha pagato il canone. In questo caso, il soggetto cui sia stato intimato lo sfratto per morosità può evitare la pronunzia della convalida pagando i canoni pregressi prima dell'udienza di comparizione.


I fatti di causa. Mevia (proprietaria di un immobile), conveniva in giudizio dinanzi al competente Giudice di Pace, Tizio e Caia, contestando loro il reato di cui all'art. 633 c.p. (Invasione di terreni o edifici), in quanto senza alcun titolo e contro la volontà della proprietaria, arbitrariamente lo occupavano.
Tuttavia gli imputati venivano assolti, in quanto, a parere del giudice, la condotta posta in essere non era caratterizzata dal requisito della arbitrarietà: la proprietaria aveva consentito il possesso dell'immobile da parte degli imputati, sia pure al fine di liberarlo dalle suppellettili dei genitori di Tizio, che in precedenza, e fino alla loro morte, avevano legittimamente occupato quell'appartamento con un regolare contratto di locazione. Avverso tale pronuncia, la ricorrente proponeva ricorso presso la Corte di Cassazione.
Il problema della vicenda: l'occupazione dell'immobile contro la volontà del proprietario. La locazione, in diritto, costituisce il contratto con il quale una parte (detta locatore) si obbliga a permettere a un altro soggetto (conduttore o locatario) l'utilizzo di una cosa per un dato tempo in cambio di un determinato corrispettivo (la cosiddetta "pigione" o "canone"). Nel caso di morte del locatore, dal punto di vista strettamente civilistico, gli eredi, anche se non hanno alcun obbligo, possono subentrare al deceduto nei rapporti giuridici, in corso alla data della morte. Il decesso, quindi, non comporta una risoluzione anticipata del contratto, in quanto lo stesso rimane valido, alle medesime condizioni.
Per quanto riguarda, invece, il caso in cui muore il conduttore, l'articolo 6 della Legge 392/1978 dispone che gli eredi conviventi abituali hanno diritto a continuare ad occupare l'immobile; gli eredi non conviventi abituali, invece, non possono avanzare alcun diritto o pretesa in merito alla locazione e lo stesso possessore (locatore) può rescindere il contratto come stabilito dal comma 6, dell'articolo 3, della Legge 392/1978.
Premesso ciò, nella fattispecie in esame, alla morte dei conduttori (genitori di Tizio), la proprietaria aveva autorizzato Tizio e Caia (conviventi non abituali) al possesso dell'appartamento, al fine di liberare l'appartamento dai suppellettili (mobilio). Sicché, in questo caso, non vi era una fattispecie penale (invasione arbitraria dall'esterno in un immobile altrui) in quanto vi era stata la volontà della locatrice, anche se di breve periodo, all'occupazione dell'immobile.
L'interpretazione della Corte di Cassazione. Conformemente ai principi esposti dalla giurisprudenza di legittimità, la Corte ha avuto modo di precisare che la condotta tipica del reato di invasione di terreni o edifici consiste nell'introduzione dall'esterno in un fondo o in un immobile altrui di cui non si abbia il possesso o la detenzione, di talché l'invasione non ricorre laddove il soggetto, entrato legittimamente in possesso del bene, prosegua nell'occupazione contro la sopraggiunta volontà dell'avente diritto. (In senso conforme Corte di Cassazione Penale Sentenza n. 51754 del 03/12/2013; Cass. n. 43393 del 2003 e n. 2337 del 2006).
Difatti, risulta accertato che nel caso di specie deve escludersi la sussistenza del requisito dell'invasione, nell'irrilevanza della sopravvenuta manifestazione di volontà contraria, espressa dalla proprietaria. La giurisprudenza citata conferma la tesi del giudice di pace, trattandosi di fattispecie caratterizzata da un preliminare consenso al possesso dell'immobile (la consegna delle chiavi).
Le conclusioni. Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, conformemente al ragionamento esposto dal Giudice di Pace, la Corte di Cassazione, ha rigettato il ricorso. Quindi, alla proprietaria non rimane che incardinare una causa civile.

Fonte http://www.condominioweb.com/inquilino-moroso-ecco-la-regolare-procedura-di-sfratto.12660#ixzz47tcJ6GiZ
www.condominioweb.com 

martedì 5 luglio 2016

Se il CTU deposita in ritardo la perizia commette reato Fonte: StudioCataldi.it


Se il Ctu consegna la perizia in ritardo scatta la condanna per il reato di omissione d'atti d'ufficio. A stabilirlo è la quarta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 26589/2016 depositata il 27 giugno scorso, pronunciandosi sulla condanna inflitta dal giudice di merito nei confronti di un consulente tecnico dichiarato colpevole del reato di cui all'art. 328 c.p. con condanna a 4 mesi di reclusione (previa concessione delle attenuanti con il beneficio della sospensione condizionale della pena) per non aver consegnato nel termine assegnato la relazione di consulenza tecnica affidatagli dal giudice civile.
Secondo la tesi difensiva del perito, la corte territoriale avrebbe errato ritenendo "volontario e consapevole" il ritardo nonostante il dedotto deposito di un cd contenente i dati catalogati e nonostante il dedotto ritardo nella ricezione della documentazione bancaria richiesta, non tenendo conto inoltre delle giustificazioni da lui addotte sull'erronea annotazione della data dell'udienza.
Ma gli Ermellini concordano con i "rilievi effettuati dal giudice di secondo grado".
Il Ctu, infatti, nominato in un giudizio civile di opposizione a decreto ingiuntivo, aveva accettato l'incarico in data 9 dicembre 2005, riservandosi di depositare relazione scritta entro 120 giorni, aveva chiesto proroga di 90 giorni per il ritardo degli estratti conti bancari di giorni, ottenendola di 30 e, nonostante ciò, ben due udienze venivano rinviate per l'omesso deposito della perizia. Alla fine, dopo un anno e 7 mesi dal conferimento dell'incarico non solo non c'era traccia della stessa, ma il Ctu non aveva neanche provveduto a comunicare ai consulenti tecnici di parte la data di inizio delle operazioni peritali (come previsto peraltro nel verbale di conferimento dell'incarico) "senza rassegnare plausibili giustificazioni nonostante la notifica del sollecito ad adempiere da parte del giudice". Per di più, il Ctu nominato al suo posto non aveva rappresentato alcuna difficoltà a svolgere la perizia depositandola nei termini previsti e l'asserito deposito di un cd contenente i dati catalogati era dato rimasto privo di riscontro.
Per cui, ha concluso la S.C., non si tratta come ravvisato dal giudice di primo grado "di una mera, seppur grave negligenza (e quindi di mera violazione dell'art. 25 della legge 281/1985) bensì di un rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo in violazione dell'art. 328 c.p.".
Non ricorrono, dunque, "le condizioni per un proscioglimento ai sensi dell'art. 129 comma 2 c.p.p.". Tuttavia, l'esperto si salva per l'intervenuta prescrizione del reato.



(www.StudioCataldi.it) 

martedì 28 giugno 2016

Nuovo proprietario e spese condominiali arretrate Fonte: www.StudioCataldi.it

Quando si acquista un appartamento che fa parte di un condominio il timore di molti è quello di trovarsi onerati del pagamento delle spese condominiali che il vecchio proprietario abbia eventualmente lasciato in arretrato. Si tratta di un timore fondato, anche se solo in parte.
L'articolo 63 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile, infatti, al comma quattro stabilisce che chi subentra nei diritti di un condomino risponde del pagamento dei contributi solidalmente con questo. L'obbligo però è limitato nel tempo e resta circoscritto ai contributi relativi all'anno in corso e a quelli relativi all'anno precedente (laddove per anno deve intendersi quello di esercizio condominiale e non quello solare).
Si tratta di una norma evidentemente posta a tutela del condominio e della necessità di questo di poter provvedere alla gestione con i fondi dei quali abbia bisogno.
Trattasi, peraltro, di norma speciale che, in quanto tale, prevale su quella prevista in generale per la comunione dall'articolo 1104 del codice civile.
In ogni caso, occorre precisare che se l'acquirente al quale sia richiesto il pagamento degli oneri condominiali ai sensi dell'articolo 63 delle disposizioni per l'attuazione del codice civile adempia l'obbligazione solidale, egli può comunquerichiedere al precedente proprietario il rimborso. La legge, infatti, stabilisce una responsabilità solidale dell'acquirente e del venditore nei confronti del condominio ma non è idonea di per se a trasferire il debito nel rapporto tra le parti.
A tal proposito è interessante sottolineare che, come sancito dalla Corte di cassazione con la sentenza numero 8782 del 10 aprile 2013 e dalla stessa ricordato con l'ordinanza numero 702 del 16 gennaio 2015, nella valutazione dei limiti della solidarietà è importante la determinazione del momento in cui matura l'obbligo di contribuzione alle spese condominiali.
In particolare occorre fare una distinzione netta tra le spese necessarie per la manutenzione ordinaria e quelle invece previste per lavori straordinari dai quali derivino un'innovazione e un onere rilevante per i condomini.
Nel primo caso, infatti, indipendentemente da quando l'assemblea condominiale ha deliberato l'intervento, l'obbligo del pagamento dei contributi sorge quando i relativi lavori sono eseguiti o i relativi servizi vengono prestati.
Nel secondo caso, invece, per evidenti ragioni bisogna far riferimento alla data in cui i lavori sono stati deliberati.
In tal senso la Cassazione si è pronunciata, ad esempio, con la sentenza numero 24654 del 3 dicembre 2010, chiarendo che "in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni sulle parti comuni, qualora venditore e compratore non si siano diversamente accordati in ordine alla ripartizione delle relative spese, è tenuto a sopportarne i costi chi era proprietario dell'immobile al momento della delibera assembleare che abbia disposto l'esecuzione dei detti interventi, avendo tale delibera valore costitutivo della relativa obbligazione. Di conseguenza, ove le spese in questione siano state deliberate antecedentemente alla stipulazione del contratto di vendita, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che le opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, e l'acquirente ha diritto di rivalersi, nei confronti del medesimo, di quanto pagato al condominio per tali spese, in forza del principio di solidarietà passiva di cui all'art. 63 disp. att. c.c.".
Tale principio è stato più recentemente ribadito anche dal Tribunale di Milano che, nella sentenza numero 27 del 12 gennaio 2016, ha aggiunto che "la delibera giuridicamente rilevante al fine di individuare il soggetto tenuto a sopportare gli oneri di un intervento straordinario, tuttavia, è solo quella con la quale tali interventi siano effettivamente approvati in via definitiva, con la previsione della commissione del relativo appalto e la individuazione dell'inerente piano di riparto dei corrispondenti oneri, non assumendo rilievo l'adozione di una precedente delibera assembleare meramente preparatoria o interlocutoria, che non sia propriamente impegnativa per il condominio e che non assuma, perciò, carattere vincolante e definitivo per l'approvazione dei predetti interventi".


(www.StudioCataldi.it) 

martedì 21 giugno 2016

Tetti, muri perimetrali e valutazione della condominialità: la domanda non è scontata…… (da condominioweb.com)

Quando è possibile affermare che, ad esempio, i tetti, i muri perimetrali o altre parti dell'edificio possono essere considerati beni condominiali?
In che modo e a chi spetta la valutazione della condominialità di una parte/impianto dell'edificio?
E a queste domande, in sostanza, che ha risposto – nel solco del proprio unanime orientamento – la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7704 resa il 19 aprile 2016.
Entriamo nel dettaglio della questione.
Com'è noto l'art. 1117 c.c. elenca i beni comuni. La norma contiene la specificazione che fa salva ogni differente indicazione del titolo: in parole diverse ciò che è parte comune per la legge, potrebbe essere di uno solo o di pochi in ragione di una disposizione contenuta negli atti d'acquisto o nelregolamento condominiale contrattuale.
Quanto al valore dell'elencazione contenuta nell'art. 1117 c.c. è opinione unanimemente condivisa quella che veda in essa una mera esemplificazione delle parti da ritenersi comuni (cfr. ex multis Cass. 29 gennaio 2015, n. 1680).
In che modo si può dire che una cosa, non menzionata dall'articolo appena citata sia condominiale? Sempre la Cassazione ha specificato che la condominialità di un bene deriva sia dall'attitudine oggettiva del bene al godimento comune, sia dalla concreta destinazione del medesimo al servizio comune (Cass. 13 marzo 2009, n. 6175). Proprio in ragione di queste considerazioni è possibile anche il contrario, ossia che un bene menzionato nell'art. 1117 c.c. non debba essere considerato in condominio in mancanza delle qualità appena citate (cfr. in tal senso Cass. SS.UU. n. 7449/1993).
In questo contesto, ad esempio, la sentenza n. 7704 citata in principio ha ricordato che i muri perimetrali e la copertura, che costituiscono il collegamento strumentale naturale dei beni condominiali, essendo necessari per l'esistenza e l'uso delle singole proprietà, destinati in modo stabile al servizio e al godimento collettivo.
Chi valuta la ricorrenza di tali requisiti e di conseguenza – in mancanza di indicazioni nel titolo – la condominialità o meno di un bene?
La sentenza n. 7704 ribadisce che spetta esclusivamente al giudice di merito accertare, dopo aver preso in esame la situazione dei luoghi e delle cose se un determinato bene, per la sua struttura e conformazione e per la funzione cui è destinato, rientri tra quelli condominiali oppure sia di proprietà esclusiva ovvero se si tratti di bene comune solo a taluni condomini o, infine, se sia comune al condominio e (solo) ad alcuni dei singoli proprietari esclusivi, non potendosi escludere a priori la ricorrenza di una eventualità siffatta (cfr Cass. 7 maggio 2010 n. 11195)” (Cass. 19 aprile 2016 n. 7704).
Insomma sulla condominialità dei beni decide il giudice investito della controversia. La decisione del giudice di merito è insindacabile in Cassazione se adeguatamente motivata. Come dire: se chi ha giudicato lo ha fatto seguendo i principi fin qui indicati, la Cassazione non potrà far altro che prenderne atto.

Fonte http://www.condominioweb.com/decide-il-giudice-sulla-condominialita-dei-beni.12655#ixzz47oK0L2im
www.condominioweb.com 

venerdì 17 giugno 2016

Corso di aggiornamento annuale per Amministratori condominiali 12 e 20 Luglio 2016 al Collegio Geometri di Lodi

Segnaliamo che il Collegio Provinciale Geometri di Lodi ha organizzato, in collaborazione con Tregeoformazione, il Corso di aggiornamento annuale obbligatorio per Amministratori condominiali, per il 12 e 20 Luglio prossimo.

Il corso tratterà, nella lezione del 12/07, di "CONTABILIZZAZIONE DEL CALORE E RIPARTIZIONE SPESE", mentre nella lezione del 20/07 affronterà “LA CONTABILITA' CONDOMINIALE: COME AFFRONTARE LE PROBLEMATICHE TRIBUTARE E CONTABILI (E NON SOLO) DERIVANTI DALLE NOVITA' NORMATIVE.

Per informazioni contattate il Collegio Geometri di Lodi o l'Associazione Tregeoformazione.

sede@collegio.geometri.lo.it
tregeoformazione@gmail.com



giovedì 16 giugno 2016

Parcheggio aggressivo in condominio: turbativa del possesso? (fonte: diritto.it)



La disposizione dell’art. 1102, comma 2, c.c., secondo la quale il partecipante alla comunione non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso, impedisce al possessore, che abbia utilizzatola cosa comune oltre i limiti della propria quota, non solo l’usucapione ma anche la tutela possessoria del potere di fatto esercitato, fino a quando questo non si riveli incompatibile con l’altrui possesso.




Lo ha affermato la Corte di Cassazione, sez. II Civile, con la sentenza n. 10624 depositata il 23 maggio 2016.

Il caso. 


La ricorrente citava in giudizio la convenuta, dichiarando di essere la proprietaria di un immobile facente parte di un edificio bifamiliare e che, per accedere ai rispettivi garage, occorreva transitare attraverso uno spazio comune ai proprietari delle due unità immobiliari.
In tale spazio comune era stata eretta dalla ricorrente una tettoia sotto la quale la stessa era solita parcheggiare le sue due autovetture.
Sosteneva la ricorrente che la convenuta aveva iniziato a parcheggiare la sua autovettura in modo da impedirle di accedere e di uscire dallo spazio sotto la tettoia.
La ricorrente, pertanto, chiedeva che fosse ordinato alla convenuta di reintegrarla nel possesso dei due posti auto sotto la tettoia, inibendole di parcheggiare l’auto con modalità tali da impedire l’ingresso e l’uscita dalle sue due autovetture.

Il Tribunale di Venezia rigettava il ricorso, ritenendo che non fosse stato provato il possesso esclusivo da parte della convenuta dei posti auto sotto la tettoia.
Avverso la sentenza di primo grado la ricorrente proponeva appello e la Corte d'Appello di Venezia accoglieva il gravame, ordinando alla convenuta di astenersi dal parcheggiare in modo da impedire l'uscita dai posti auto che si trovano nello spazio comune sotto la tettoia. La Corte di Venezia affermava che, pur non potendosi ritenere pienamente provato il possesso esclusivo da parte della ricorrente dei due posti auto sotto la tettoia, era stato invece dimostrato che la convenuta, quando entrambi i posti sotto la tettoia erano occupati, parcheggiava la sua auto sullo spazio scoperto in maniera da impedire la manovra di uscita ai veicoli posti


giovedì 19 maggio 2016

Che cosa succede se non si approva il rendiconto? Fonte www.condominioweb.com

Il rendiconto condominiale è quel documento che l'amministratore deve presentare all'assemblea e che contiene il quadro economico-finanziario del condominio in relazione all'anno di gestione appena trascorso e comunque più in generale alla situazione finanziaria della compagine.
L'amministratore, giova ricordarlo, è tenuto a presentare il rendiconto di gestione entro centottanta giorni dalla chiusura dell'esercizio al quale si riferisce (art. 1130 n. 10 c.c.); la norma fa riferimento al lasso temporale ma non al momento da cui parte il conteggio. Una lettura complessiva degli articoli dedicati al documento contabile lascia intendere che i suddetti centottanta giorni decorrano da quel momento.
È altresì utile rammentare che l'omessa o tardiva presentazione del rendiconto all'assemblea può portare alla revoca giudiziale dell'amministratore per gravi irregolarità nella gestione (Art. 1129, dodicesimo comma n. 1, c.c.).
L'approvazione del rendiconto da parte dell'assemblea– che può comunque essere soggetto a revisione negli anni successivi (art. 1130-bis c.c.) – fa sì che le spese in esso indicate – a livello generale e rispetto ai singoli condòmini – siano fatte proprie dell'assemblea stessa che, in quel modo, ratifica o comunque certifica o prende atto dell'operato dell'amministratore per l'anno precedente. Eccezion fatta per il caso di errori nella ripartizione delle spese, di deliberazioni con maggioranze inferiori a quelle prescritte dalla legge, oppure di eccesso di potere, falsità o incompetenza, il rendiconto non è contestabile. In altre parole: non ci si può rivolgere all'Autorità Giudiziaria per chiedere che dichiari illegittima l'approvazione di una spesa che era nelle prerogative dell'assemblea approvare, se la suddetta approvazione è avvenuta nel rispetto della legge.

Si rammenti che il rendiconto è validamente approvato:
a) in prima convocazione, dalla maggioranza dei presenti (anche per delega) in assemblea che rappresentino almeno la metà del valore dell'edificio;
b) in seconda convocazione, dalla maggioranza dei presenti (anche per delega) in assemblea che rappresentino almeno un terzo del valore dell'edificio (cfr. art. 1136, secondo e terzo comma, c.c.).
L'approvazione del rendiconto e del relativo riparto, è utile ricordarlo, consente la richiesta di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c.
E se l'assemblea, per qualunque motivo, non approva il rendiconto? Il problema principale, in casi del genere, sta nella mancanza di uno strumento di facile soluzione per l'aggressione di determinate situazioni di morosità. I motivi sono quelli esposti appena sopra. Eppure non tutto è perduto.
Si supponga che i condòmini giustamente lo ritengano errato: in tal caso è fondamentale che si richiedano all'amministratore le correzioni ritenute indispensabili, chiedendo la convocazione di una successiva assemblea per ridiscuterlo. In simili circostanze nulla vieterebbe ai condòmini non in linea con il pensiero della maggioranza che ha deliberato in tal senso, di impugnare quella delibera laddove sussistano i presupposti per intravedere un'ipotesi di eccesso di potere del consesso assembleare. In questi casi l'azione di recupero del credito non è impossibile, ma certo molto più difficile dovendosi instaurare un ordinario giudizio civile.

Fonte http://www.condominioweb.com/che-cosa-succede-se-non-si-approva-il-rendiconto.12656#ixzz47oLkLeVA
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lunedì 16 maggio 2016

Il consuntivo deve essere trasparente: pena l'annullamento della delibera condominiale Fonte www.condominioweb.com


Il consuntivo del condominio non può essere paragonato ai complessi bilanci delle società ma prevede comunque requisiti minimi di trasparenza: viene dunque annullata la delibera che approva il consuntivo pur con la maggioranza prescritta se le poste indicate non consentono effettivamente di controllare la gestione dell'amministratore.
Questo è il principio di diritto espresso dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 24446 del 7 dicembre 2015 in merito alla validità del rendiconto consuntivo.
I fatti di causa. Tizio, in qualità di proprietario di un immobile, con citazione impugnava la delibera assembleare, in quanto le voci indicate nel piano dei riparti del rendiconto, apparivano poco fedeli all'andamento gestionale; pertanto, chiedeva l'annullamento della delibera per violazione dell'articolo 1135 c.c. Costituendosi in giudizio, il Condominio convenuto, contestava in toto l'impugnativa del condomino.
Il problema: il rendiconto è poco trasparente. Orbene, preliminarmente, giova ricordare che il nuovo art. 1130-bis c.c. specifica che
"il rendiconto condominiale contiene le voci di entrata e di uscita ed ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve, che devono essere espressi in modo da consentire l'immediata verifica.
Si compone di un registro di contabilità, di un riepilogo finanziario, nonché di una nota sintetica esplicativa della gestione con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti
".
Dall'analisi della norma, riviene un primo principio che è quello secondo il quale il rendiconto deve rappresentare la situazione reale del condominio, intendendosi, con questa espressione, non solo il divieto di inserire nel rendiconto dati falsi, ma anche il divieto di inserire nel rendiconto dati "putativi" o "immaginari" o situazioni non realmente effettuate. Altro principio basilare è quello di redigere un rendiconto con un metodo che faciliti il controllo dei dati presenti in questo documento; sicché, il problema, semmai, è quello di individuare il metodo o il criterio più corretto per raggiungere tali obiettivi: il sistema che permette di raggiungere tutti questi obbiettivi è il c.d. principio di cassa, ossia le spese effettivamente sostenute e le entrate effettivamente riscosse (In tal senso Cass. civ. sez. III, 9 maggio 2011 n. 10153).
Premesso ciò, nella vicenda in esame, il consulente tecnico incaricato dal giudice, sulla scorta della documentazione fornita dalle parti, ha evidenziato che il rendiconto censurato non era rispettoso ed attuatore dei principi di verità e chiarezza; invero, il documento contabile è stato approvato in violazione delle prescrizioni dell'articolo 1135 c.c. perché non offriva una rappresentazione della gestione condominiale né realistica e né veritiera come prevede la legge. Difatti, a parere del CTU, i requisiti minimi di comprensibilità della redazione del consuntivo, devono essere garantiti soprattutto quando ci si discosta dalle comuni tecniche della ragioneria che rappresentato uno specchio fedele dall'effettivo andamento gestionale.
L'interpretazione del Tribunale di Roma
. A tal proposito, il giudice adito, conformemente ai principi esposti, ha avuto modo di precisare che nel caso in cui il resoconto contabile presenti risultanze che, quanto a pertinenti profili di chiarezza e intellegibilità, non appaiono idonei a rendere una realistica e veritiera rappresentanza dell'amministrazione dell'ente condominiale, il pertinente elaborato assembleare, quand'anche sorretto da un quorum approvativo, deve ritenersi affetto da invalidità (nella specie, annullabilità).Ne consegue che, laddove l'assemblea approvasse un documento contabile carente dei detti caratteri, la delibera si porrebbe in sostanziale violazione delle prescrizioni dell'art. 1135 c.c., il quale, nel delineare le competenze dell'assemblea, implicitamente presuppone che le delibere, attraverso cui l'azione di amministrazione trova esplicazione, costituiscano uno specchio fedele dell'effettivo andamento gestionale. (In senso conforme si è espresso anche il Tribunale di Roma con la sentenza n. 104 del 7 gennaio 2016)
Le conclusioni. Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, Il Tribunale aditopreso atto delle conclusioni del CTU, peraltro non contestate dal convenuto condominio, ha ritenuto invalidi i bilanci consuntivi approvati; per l'effetto, l'impugnativa del condomino è stata accolta con conseguente annullamento della delibera.


Fonte http://www.condominioweb.com/il-consuntivo-del-condominio-prevede-requisiti-minimi-di-trasparenza.12650#ixzz47oL45JLW
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giovedì 12 maggio 2016

Il fondamento tecnico del “diritto di condominio”: la relazione di accessorietà. Quando cose, impianti e servizi possono definirsi comuni Fonte: (www.StudioCataldi.it)


Si presumono di proprietà comune, se il contrario non risulta dal titolo, tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l'alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune; le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.
Ogni condomino può servirsi degli anzidetti beni, a patto che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Tanto emerge dal combinato disposto dagli artt. 1117 e 1102 c.c., norme cardine approntate dall'ordinamento vigente per definire i beni comuni e disciplinarne l'utilizzo.
Tuttavia, la Corte di CassazioneSeconda Sezione Civile, con sentenza n. 24296, del 27.11.2015, ha precisato che: "Il presupposto per l'attribuzione della proprietà comune in favore di tutti i compartecipi viene meno, se le cose, gli impianti, i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l'esistenza o per l'uso (ovvero siano destinati all'uso o al servizio) di alcuni soltanto dei piani o porzioni di piano dell'edificio".
Evidenza la Suprema Corte, con la sentenza in commento, che il fondamento tecnico del diritto di condominio, in altre parole, il diritto che ogni singolo condomino può legittimamente vantare su beni o servizi comuni, è da individuarsi nella relazione di accessorietà che lega quel determinato bene o servizio alla singola unità immobiliare, e cioè dal collegamento strumentale, materiale e funzionale consistente nella destinazione all'uso o al servizio della medesima.
Lo spunto per enunciare i predetti principi di diritto, viene fornito dal ricorso per cassazione proposto da un condomino che, in primo grado, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Cosenza il Condominio per la declaratoria di nullità di una delibera condominiale, con la quale l'assemblea aveva deliberato in merito alla demolizione della parte finale di una canna fumaria e la contestuale chiusura della stessa.
A dire del condomino, ciò avrebbe compromesso il suo diritto all'utilizzo di tale impianto, collegato con il camino sito in un locale al piano terra di sua proprietà.
Resisteva in giudizio il Condominio il quale deduceva che la demolizione della canna fumaria era necessaria in virtù dell'accertato pericolo di crollo e, comunque, in considerazione del mancato utilizzo della medesima da parte dei condomini sin dal 1985, attesa la trasformazione dell'impianto di riscaldamento da centralizzato in autonomo. Evidenziava altresì l'illegittimità del collegamento realizzato dal condomino tra il camino del suo locale posto a piano terra e la canna fumaria comune, siccome mai autorizzato e limitativo del diritto degli altri condomini.
Il Tribunale, all'esito della disposta consulenza tecnica d'ufficio, dichiarava nulla la delibera condominiale e confermava il diritto del condomino all'uso della canna fumaria condominiale.
La sentenza veniva completamente riformata, in secondo grado, dalla Corte d'Appello di Catanzaro, che affermava come i proprietari delle unità immobiliari i quali per ragioni di conformazione dell'edificio non sono mai stati serviti dall'impianto termico centralizzato di cui faceva parte la canna fumaria oggetto di causa, tra cui il condomino istante, non sono titolari di alcun diritto comune sull'impianto medesimo, non essedo lo stesso legato alle unità immobiliari dalla relazione di accessorietà, non esistendo alcun collegamento strumentale, materiale e funzionale, consistente nella destinazione all'uso o al servizio.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 24296/2015, conferma la sentenza della Corte d'Appello e, pertanto, rigetta definitivamente il ricorso del condomino.
La stessa – dopo avere condiviso l'assunto di secondo grado per il quale, il locale magazzino di cui il ricorrente è proprietario non era servito dall'impianto termico centralizzato quando questo era in esercizio; il condomino ha realizzato all'interno del locale un caminetto che ha provveduto a collegare alla canna fumaria –, richiamando un proprio precedente, evidenzia che: "il proprietario dell'unità immobiliare (nella specie, magazzino) che, per ragioni di conformazione dell'edificio, non sia servita dall'impianto di riscaldamento centralizzato, non può legittimamente vantare un diritto di condominio sull'impianto medesimo, perché questo non è legato alla detta unità immobiliari da una relazione di accessorietà (che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio), e cioè da un collegamento strumentale, materiale e funzionale consistente nella destinazione all'uso o al servizio della medesima" (Cfr.: Cass. civ., Sez. II, 7/06/2000, n. 7730).
Ciò posto ha ritenuto corretto il ragionamento della Corte d'appello che ha escluso che l'utilizzazione della canna fumaria, per lo scarico dei fumi dal camino realizzato nel magazzino a piano terra, rientrasse in un'ipotesi di uso frazionato della cosa comune, non essendo l'impianto termico e la canna fumaria, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, a servizio di quel locale.
In altra fattispecie, è stato parimenti ritenuto che: "Affinché possa operare, ai sensi dell'art. 1117 cod. civ., il cosiddetto diritto di condominio, è necessario che sussista una relazione di accessorietà fra i beni, gli impianti o i servizi comuni e l'edificio in comunione, nonchè un collegamento funzionale fra primi e le unità immobiliari di proprietà esclusiva. Pertanto, qualora, per le sue caratteristiche funzionali e strutturali, il bene serva al godimento delle parti singole dell'edificio comune, si presume - indipendentemente dal fatto che la cosa sia, o possa essere, utilizzata da tutti i condomini o soltanto da alcuni di essi - la contitolarità necessaria di tutti i condomini su di esso. Detta presunzione può essere vinta da un titolo contrario, la cui esistenza deve essere dedotta e dimostrata dal condomino che vanti la proprietà esclusiva del bene, potendosi a tal fine utilizzare il titolo - salvo che si tratti di acquisto a titolo originario - solo se da esso si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della corte di appello che aveva ritenuto non superata la presunzione di comunione del muro sul quale poggiava la costruzione realizzata dal dante causa del ricorrente, non avendo quest'ultimo fornito la prova della proprietà esclusiva del muro perimetrale su cui si innestavano i manufatti edificati, a nulla rilevando che parte del detto muro "si aprisse" su un terrazzo di proprietà esclusiva del ricorrente stesso)". (Cass. civ. Sez. II Sent., 21/12/2007, n. 27145. Si veda anche: Cass. civ. Sez. III, 13/03/2009, n. 6175; Cass. civ. Sez. II, 16/04/2007, n. 9093; Cass. civ. Sez. II, 18/01/2005, n. 962).
Peraltro, per come ricordato a più riprese dalla stessa Corte di Cassazione (Sent.: 17332/2011; 19939/2012; 2305/2008), la relazione di accessorio e principale fonda "ipso iure e facto" la creazione del cd. supercondominio, e tanto senza bisogno di approvazioni assembleari, sempre se il titolo non dispone altrimenti. Ciò avviene quando i singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati attraverso la predetta relazione tra accessorio e principale, la cui proprietà rimarrà comune e "pro quota" in capo agli intestatari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati. 



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