martedì 26 gennaio 2016

Cassazione: il CTU devono pagarlo tutte le parti in causa, indipendentemente dalla soccombenza Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Se il Ctu non ha ricevuto il proprio compenso dalle parti obbligate "a seguito dell'emissione di decreto provvisorio di liquidazione" avendo inutilmente chiesto il dovuto ai soggetti indicati nel decreto stesso, secondo le percentuali ivi stabilite, "le parti sono solidalmente obbligate a corrisponderlo, a prescindere dalla diversa ripartizione delle medesime spese stabilita nella sentenza che ha definito la controversia".
È questo il principio di diritto affermato dalla seconda sezione civile della Cassazione, con sentenza n. 23133/2015 depositata il 12 novembre scorsoche ha accolto il ricorso di un consulente tecnico d'ufficio che aveva inoltrato precetto ad una delle parti in causa (una società) in un procedimento in cui aveva svolto la propria attività, chiedendo il pagamento dei compensi liquidati dal giudice e posti provvisoriamente a carico solidale delle parti.
La società si opponeva al precetto, esponendo che la Ctu aveva chiesto alla stessa la metà del pagamento dovuto, la quale aveva versato 1/3 dell'importo essendo tre le parti coinvolte, ma in seguito il consulente aveva domandato il pagamento dell'intero, mentre la causa nella quale aveva prestato la propria opera era stata definita con sentenza che aveva posto in via definitiva le spese di consulenza per 4/5 a carico di una parte e solo per 1/5 a carico della opponente e di un'altra parte.
Sosteneva inoltre la società, a seguito della definizione dell'opposizione, la revoca implicita del precedente decreto di liquidazione e la sostituzione della sentenza (che condannava una sola delle parti a sostenere le spese di consulenza tecnica) al decreto quale titolo in favore dell'ausiliare.
Le doglianze della società venivano accolte in primo e in secondo grado, sul presupposto che il riparto delle spese di Ctu in questione fosse ormai regolato dalla successiva sentenza del tribunale.
Ma il consulente adisce la Cassazione e gli Ermellini gli danno ragione.
Richiamando l'ormai consolidato orientamento di legittimità, i giudici hanno affermato infatti che "poiché la consulenza tecnica d'ufficio rappresenta non un mezzo di prova in senso proprio, ma un ausilio per il giudice e, quindi, un atto necessario del processo che l'ausiliare pone in essere nell'interesse generale della giustizia e comune delle parti in virtù di un mandato neutrale, il regime del pagamento delle spettanze del medesimo prescinde dalla ripartizione dell'onere delle spese tra le parti contenuto in sentenza, che avviene sulla base del principio della soccombenza e, concernendo unicamente il rapporto fra dette parti, non è opponibile all'ausiliario".
Ne consegue, secondo il Palazzaccio, "che le parti sono solidalmente responsabili del pagamento delle relative competenze anche dopo che la controversia, durante la quale il consulente ha espletato il suo incarico, sia stata decisa con sentenza, sia definitiva sia non ancora passata in giudicato, a prescindere dalla ripartizione di dette spese nella stessa stabilita e, quindi, altresì, ove tale ripartizione sia difforme da quella in precedenza adottata con il decreto di liquidazione emesso dal giudice" salvo un'unica eccezione, rinvenibile nell'emissione di un provvedimento incidentale di revoca o modifica del decreto prima dell'emissione della sentenza a regolazione definitiva delle competenze del Ctu, poiché in tal caso rimane intatto il suo diritto di proporre opposizione.
Per cui se la parte incisa dall'azione esecutiva del consulente proponga opposizione all'esecuzione, come nel caso di specie, facendo valere la sentenza di merito, intervenuta nel frattempo e incidente sulla precedente liquidazione esecutiva, "detta pronuncia - ha affermato la S.C. - non si pone come fatto incidente sul diritto di credito già sorto come neppure sulla identificazione dei soggetti onerati".
In conclusione, posta l'efficacia esecutiva del decreto di liquidazione provvisorio nei confronti della parte nello stesso indicata, l'ausiliario, finchè la controversia non è decisa con sentenza che statuisca pure sulle spese di lite, è tenuto prima a proporre la sua domanda nei confronti della parte obbligata e laddove questa resti inadempiente potrà agire nei confronti delle altre. "Una volta che la controversia sia stata risolta con sentenza che pronunci sulle spese – ha concluso la S.C. - il perito dell'ufficio può fare valere le sue ragioni, invece, direttamente nei confronti di ogni parte in virtù della loro responsabilità solidale, indipendentemente dalla definitiva ripartizione dell'onere delle spese stabilita dal giudice". Né può sostenersi, ha chiosato infine la S.C., come affermato dal giudice di merito, il mancato rispetto della regola secondo cui la parte vittoriosa non può essere condannata al pagamento delle spese, giacchè questa ove abbia corrisposto l'onorario al Ctu può sempre rivalersi nei confronti del soccombente.


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venerdì 22 gennaio 2016

Condominio: scatta la revoca per l'amministratore che ritarda il bilancio (fonte: www.studiocataldi.it)

Condominio: scatta la revoca per l'amministratore che ritarda il bilancio

Il successivo ritardo dell'assemblea nell'approvare il rendiconto non salva l'amministratore dalla revoca
Legittima la revoca dell'amministratore di condominio che sottopone in ritardo all'assemblea l'approvazione del conto dei suoi esercizi, anche se questi siano stati poi approvati dai condomini. Lo ha stabilito il Tribunale di Taranto con un decreto del 21 settembre 2015.
Nella fattispecie l'amministratore non aveva reso il conto relativo a due annualità.
L'assemblea veniva convocata per l'approvazione del conto dei due esercizi solo nell'ottobre del 2014, ma si soprassedeva sul punto.
Solo nel giugno del 2015, dopo la notifica del ricorso per la revoca giudiziale dell'amministratore resistente, si svolgeva l'assemblea che approvava all'unanimità dei presenti i due rendiconti cumulativi.
La circostanza che l'assemblea abbia, seppur in ritardo, approvato i due rendiconti, non salva l'amministratore dalla sua revoca giudiziale stante la gravità della violazione addebitatagli.
Secondo il giudice territoriale, infatti, l'art. 1129 c.c., che attribuisce la legittimazione attiva a proporre l'azione in discorso al singolo condomino, evidenzia sostanzialmente che la volontà della maggioranza assembleare, che approvi l'operato dell'amministratore nonostante la violazione commessa, non può escludere di per sé l'illecito e la sua gravità.
D'altronde il non rendere il conto della gestione rileva di per sé ai sensi dell'art. 1129 c.c. come grave irregolarità.
Per il giudice "deve al riguardo sottolinearsi che quando ci si trova di fronte a delibera assembleare che approvi rendiconti pluriennali, non osservandosi la regola della necessaria annualità del rendiconto, si ritiene che si configuri una forma di nullità e non di semplice annullabilità della delibera".
Ciò quindi vale a rimarcare la gravità della violazione in parola, sotto il profilo qui in esame, anche quando sia avvenuta con riferimento ad un solo esercizio.
Infatti, nel caso di specie, per quanto riguarda l'esercizio luglio 2012 – giugno 2013 i termini erano ampiamente scaduti, posto che la convocazione dell'assemblea avveniva solo nell'ottobre del 2014.
Anzi, dai trascorsi emerge anche una sorta di recidiva, se si considera che anche nel settembre 2012 l'approvazione assembleare aveva ad oggetto ancora una volta due esercizi cumulativi e cioè il periodo 2010-2012.
Appare evidente che la violazione, cioè il non aver presentato il conto relativo ad un esercizio, sia grave e come tale giustifichi la revoca giudiziale dell'amministratore.

Fonte: Condominio: scatta la revoca per l'amministratore che ritarda il bilancio 
(www.StudioCataldi.it) 

martedì 19 gennaio 2016

No al B&B in condominio. La Cassazione ci ripensa Fonte www.condominioweb.com

Non si può destinare un appartamento ad “affittacamere”, attività alberghiera o di bed and breakfast se il regolamento di condominio vieta destinazioni d'uso diverse da quella abitativa.
Così ha stabilito la seconda sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 109 del 7 gennaio 2016. Una sentenza è destinata a far discutere, perché sembra ribaltare il precedente orientamento affermato dalla stessa Corte suprema.
In passato, infatti, i giudici di legittimità si sono espressi a favore delle attività ricettive in condominio anche in presenza di divieti nel regolamento, ritenendo tali attività compatibili con la destinazione d'uso abitativa. Un orientamento, peraltro, seguito da molte sentenze di merito, da ultimo quella del Tribunale di Verona del 22 aprile 2015, che ha censurato l'interpretazione data dall'assemblea al regolamento condominiale, che proibiva di dare agli immobili destinazioni d'uso diverse da quella abitativa, ritenendo compatibile l'attività di B&B con tale la destinazione.
Ora la Cassazione sembra cambiare idea. Niente B&B o attività di affittacamere se il regolamento lo vieta. Ed il divieto rimane anche se il regolamento è datato, ed anche se altri condòmini, in passato, violando lo stesso regolamento, hanno utilizzato i propri appartamenti per attività commerciali, imprenditoriali o professionali.
Il caso di specie deciso dalla suprema Corte è analogo ad altri che abbiamo già esaminato sul nostro sito. L'assemblea di condominio autorizza una s.r.l. ad adibire gli immobili che ha in locazione ad uso di affittacamere. La delibera, però, viene impugnata dai condòmini, che lamentano la violazione dell'art. 2 del regolamento contrattuale (redatto nel lontano 1920 e mai modificato), che così dispone: “è vietato di destinare gli appartamenti ad uso di qualsivoglia industria o di pubblici uffici, ambulanze, sanatori, gabinetti per la cura di malattie infettive o contagiose, agenzie di pegni, case di alloggio, come pure di concedere in affitto camere vuote od ammobiliate o di farne, comunque un uso contrario al decoro, alla tranquillità, alla decenza ovvero al buon nome del fabbricato”.
A propria difesa, la società sostiene che la norma regolamentare non era più applicabile, perché basata su rigide prescrizioni stilate nel 1920, oggi non più valide. Inoltre, altri inquilini in passato avevano intrapreso attività commerciali, imprenditoriali e professionali vietate dal regolamento. Il che confermava la non vigenza della norma anche ai sensi dell'art. 1362 c.c., secondo il quale “nella interpretazione del contenuto del contratto deve farsi luogo alla comune volontà delle parti anche valutando la condotta delle medesime, successiva alla conclusione del negozio”.
La Cassazione, confermando quanto già deciso in sede d'appello, ha rigettato il ricorso della società e confermato il divieto di adibire l'immobile ad attività ricettiva.
Secondo i giudici non conta la condotta contraria al regolamento tenuta in passato da latri condominio, che non può influenzare la interpretazione e la vigenza del regolamento stesso, anche se datato. Allo stesso modo, non incide sull'interpretazione del divieto la legge della Regione Lazio 18/1997, all'epoca vigente, che incentivava l'attività di affittacamere per favorire una ripresa dell'attività ricettiva in occasione del Giubileo del 2000.
Soprattutto, la Cassazione sottolinea che “ontologicamente l'attività di affittacamere è del tutto sovrapponibile – in contrapposto all'uso abitativo – a quella alberghiera e, pure a quella di bed and breakfast (vedi sui due punti: Cass. Sez. VI-2, ordinanze 704/2015 e 26087/2010)”. Detto in altri termini: tutte e tre le attività – affittacamere, alberghiera e di bed e breakfast – sono incompatibili con la destinazione dell'immobile ad uso abitativo. Ne consegue che tali esercizi ricettivi non possono essere avviati se il regolamento contrattuale di condominio vieta usi diversi da quello abitativo.
La sentenza odierna potrà influenzare gli affari di molte persone. Vedremo come i giudici si orienteranno dopo questo ripensamento della Cassazione. Rimane peraltro la possibilità di superare il divieto regolamentare ottenendo il consenso di tutti i condòmini all'apertura del b&b.




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giovedì 14 gennaio 2016

Niente negoziazione se c’è mediazione (da Il Sole 24 Ore)

Tribunale di Verona. Chiarimento sulla cumulabilità con le procedure stragiudiziali obbligatorie


La normativa vigente impone espressamente il cumulo tra la negoziazione assistita obbligatoria e le procedure stragiudiziali obbligatorie, per legge o per previsione contrattuale o statutaria, salvo che la lite non rientri tra le materie assoggettate amediazione obbligatoria ex lege. Infatti, in questo caso, solo questa procedura deve essere esperita. Il principio è affermato nell’ordinanza del 23 dicembre 2015 del Tribunale di Verona (estensore Vaccari) che affronta il tema della sovrapposizione dei procedimenti stragiudiziali per la soluzione delle liti previsti dal legislatore in funzione di filtro preventivo alla domanda giudiziale.
La controversia sottoposta all’esame del Tribunale deriva da un procedimento monitorio attivato per ottenere il pagamento del doppio della caparra confirmatoria versata in sede di stipula di un contratto preliminare di affitto di ramo di azienda rimasto inadempiuto. Dopo il rifiuto della stipula del contratto definitivo da parte del promittente concedente, il promissario affittuario otteneva dal Tribunale il decreto ingiuntivo per l’importo richiesto che veniva poi dichiarato esecutivo alla prima udienza del giudizio di opposizione (il quale veniva ritenuto non fondato su prova scritta). Il giudice rilevava d'ufficio che la materia del contendere rientrava in una di quelle per le quali è previsto l'esperimento della mediazione quale condizione di procedibilità ex lege e prendeva atto che, prima di promuovere il monitorio, il creditore aveva inutilmente invitato il debitore a stipulare una convenzione per la negoziazione assistita dagli avvocati. In esito a tali rilievi affrontava il tema del cumulo tra procedimenti di Adr (Alternative dispute resolution) sino ad assegnare termine alle parti per l'avvio del procedimento di mediazione. Nella motivazione dell'ordinanza, si precisa che sulla base di quanto disposto dall'articolo 3, comma 5, del decreto legge 132/2014 («Restano ferme le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati…») il legislatore ha imposto espressamente «il cumulo tra negoziazione assistita obbligatoria e procedure stragiudiziali obbligatorie, per legge o per previsione contrattuale o statutaria, salvo che la controversia non sia soggetta a mediazione obbligatoria ex lege, perché in tal caso solo questa procedura va esperita». Insomma, secondo la norma indicata, «l'esito negativo di una procedura stragiudiziale prevista obbligatoriamente per una determinata controversia non esonera le parti dall'esperimento della negoziazione assistita che sia prevista per quella stessa controversia e viceversa». Il Tribunale, che pur rileva la mancanza di una chiara previsione normativa, poi chiarisce che lo stesso iter deve essere seguito anche qualora in relazione ad una controversia soggetta a mediazione obbligatoria sia stata prima esperita – come nel caso in esame - una negoziazione assistita facoltativa (si ricordi che la negoziazione assistita non è condizione di procedibilità nei procedimenti di ingiunzione, inclusa l'opposizione).Più precisamente, si rileva come una simile sequenza non appaia in astratto inutilmente dilatoria, a differenza di quella inversa (negoziazione esperita dopo il fallimento della mediazione). Infatti, va considerato che essa «consente il passaggio ad una procedura stragiudiziale che presenta un valore aggiunto rispetto alla prima, costituito dall'intervento di un terzo imparziale, che può favorire l'esito conciliativo». 

venerdì 8 gennaio 2016

Eredità: che fare se i fratelli non vogliono vendere? Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Non sempre gestire un'eredità è cosa agevole. Se, spesso, i beni che spettano a uno o a un altro erede sono assegnati dal de cuius attraverso il testamento o sono agevolmente divisibili, altrettanto spesso accade che il "patrimonio ereditario" resti indiviso e non sia neanche facilmente separabile. 

Con la conseguenza che il rischio di liti in famiglia è tutt'altro che remoto né di rara verificazione.

Si pensi, ad esempio, al caso in cui l'eredità sia costituita da un immobile da dividere tra due (o più) fratelli e tra di loro non vi sia accordo sulla destinazione da dare al bene ereditato. 

Se l'eredità è accettata, su tale bene si viene a creare una vera e propria comunione, regolamentata dalle norme che disciplinano in via generale tale istituto e che, se necessario, può anche essere sciolta. 

Nel dettaglio, lo scioglimento può avvenire, innanzitutto, attraverso un accordo tra tutti i condividenti. 

Si tratta, di certo, della strada più agevolmente percorribile, ma che presuppone, ovviamente, la volontà comune di tutti i coeredi, formalizzata attraverso la stipula di un contratto.

Cosa fare, invece, se i coeredi non riescono a trovare un accordo sulla destinazione da dare all'eredità comune? 



Divisione giudiziale
In tal caso è possibile ricorrere alla divisione giudiziale, che, sulla base di quanto previsto dall'articolo 713 del codice civile, può essere sempre domandata da ciascun coerede.

Si tratta di un diritto imprescrittibile che può, tuttavia, essere limitato innanzitutto dal testatore.

In particolare, quest'ultimo può stabilire che, nel caso in cui vi siano eredi minorenni, la divisione non possa avere luogo prima che sia trascorso un anno dal compimento della maggiore età da parte del più piccolo.

Può poi stabilire che la divisione dell'eredità o di alcuni beni che la compongono non possa avere luogo prima che sia trascorso un determinato termine dalla sua morte, in ogni caso non eccedente i cinque anni.

Nel caso in cui ricorrano gravi circostanze, tuttavia, l'autorità giudiziaria può derogare alla volontà del testatore.

Oltre che nella volontà eventuale del testatore, la divisione dell'eredità trova un limite anche nel caso in cui tra i chiamati vi sia un concepito o nel caso in cui sia pendente un giudizio sull'accertamento della filiazione. Anche tale limite può, tuttavia, essere superato dall'autorità giudiziaria, che è legittimata ad autorizzare comunque la divisione, fissando le opportune cautele.

Da un punto di vista operativo, colui che vuole procedere alla divisione giudiziale deve necessariamente chiamare in causa tutti i coeredi.

A questo punto, dinanzi al giudice, si procede a identificare i beni che fanno parte del patrimonio ereditario, a valutarli e ad attribuire le quote ai vari eredi.

Nel caso in cui la divisione in natura non sia possibile, si provvederà a vendere i beni non assegnati.

È chiaro, in ogni caso, che la procedura di divisione giudiziale è sicuramente dolorosa e dispendiosa e va quindi lasciata come extrema ratio, alla quale ricorrere solo laddove non sia possibile seguire strade più serene.

Divisione parziale

Occorre da ultimo precisare che la divisione ereditaria non deve necessariamente riguardare l'intero asse ma può anche essere parziale.

La giurisprudenza, infatti, ha precisato che il principio dell'universalità della divisione non è assoluto e inderogabile.

In tal senso si veda, ad esempio, la sentenza numero 5694 del 10 aprile 2012 della Corte di cassazione, con la quale quest'ultima ha anche chiarito che la divisione parziale è possibile non solo quando intervenga un accordo delle parti in tal senso ma anche quando una parte abbia chiesto tale divisione giudizialmente e le altre non abbiano ampliato la domanda.




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martedì 5 gennaio 2016

Corso Aggiornamento Mediatori Civili presso il Collegio Geometri di Reggio Emilia - 22 e 23 Gennaio 2016


Vi segnaliamo il Corso di Aggiornamento Mediatori Civili, valido per l'aggiornamento biennale previsto dal D.M. 180/2010, organizzato dal Collegio Geometri e Geometri Laureati della Provincia di Reggio Emilia, in collaborazione con MediaCon S.r.l., che si terrà a Reggio Emilia presso la Sala Conferenze del Collegio Geometroi in Via A. Pansa n. 1 nei giorni 22 e 23 Gennaio 2016.

Il numero massimo di partecipanti è stabilito dalla normativa in 30 unità, nel caso di ulteriori richieste verrà stilata una lista d’attesa per la riedizione del Corso.

Il termine per l'iscrizione é il 15/01/2016.

La quota di iscrizione  è di € 190,00 iva esente, in parte rimborsata dalla Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza Geometri per i geometri iscritti ed in regola con la contribuzione previdenziale.
Ai partecipanti geometri con frequenza del 100% verranno assegnati n. 18 CREDITI FORMATIVI PROFESSIONALI (Regolamento per la Formazione Professionale Continua CNGeGL in vigore dal 01/01/2015).


Per qualsiasi informazione può essere contattato il Collegio Geometri e Geometri Laureati di Reggio Emilia al numero 0522 515242