giovedì 25 febbraio 2016

Un nuovo business per i condomini. Le antenne per la telefonia mobile di nuova generazione Fonte www.condominioweb.com

Si riaccende l'attenzione sul tema dell'installazione dei ripetitori sulle terrazze condominiali.
Parti comuni inutilizzate e uso “economico” In ambito condominiale esistono – o possono esistere – locali o, in genere, parti comuni, suscettibili di godimento separato per ragioni strutturali e di destinazione, oppure privi di una specifica destinazione, o, ancora, idonei ai più vari impieghi, ma che restano inutilizzati. Si pensi all'appartamento destinato a portineria – soprattutto negli edifici condominiali delle grandi città –, rimasto poi vuoto a seguito della soppressione del servizio di portierato, all'esistenza di un sottoscala mai utilizzato, oppure ai lastrici solari, da adibire a stenditoi, o sui quali installare antenne centralizzate o individuali. Nell'ipotesi in cui detto bene non venga utilizzato da tutti i condomini o nella diversa eventualità in cui tutti i proprietari ne rinuncino all'uso, è allora possibile che la collettività condominiale ne stabilisca un uso economico. La fattispecie cui ci si riferisce è la cessione a terzi del diritto di godere della parte comune a fronte di un determinato corrispettivo: generalmente, infatti, la locazione consegue al mancato utilizzo del bene comune.

Le SRB di nuova generazione. Tra le questioni di maggior rilievo che, a tale riguardo, si possono porre vi è la decisione di uno o più condomini di installare su una parte comune un impianto di telecomunicazione, al fine di trarre un reddito aggiuntivo dal canone mensile convenuto con gli operatori. Sebbene le aziende telefoniche si affrettino ad assicurare che la trasmissione delle onde avviene da ponte a ponte, cioè da un'estremità all'altra delle antenne e non coinvolga dunque le abitazioni che si trovano sotto il livello di emissione, l'elevata concentrazione di antenne, ripetitori, stazioni radio base (SRB) nelle nostre città genera inevitabilmente una situazione di allerta per gli abitanti. Peraltro, l'introduzione del 4G, ossia della banda ultralarga, sta nuovamente riportando l'attenzione sul tema dell'installazione dei ripetitori sulle terrazze condominiali e sul potenziale inquinamento elettromagnetico che ne può derivare. In estrema sintesi, si rileva che il 4G, ossia Quarta Generazione, si pone come la più recente generazione tecnologica per la trasmissione dei dati sulle reti cellulari; si parla invero anche di LTE (Long Term Evolution), che è, in realtà, una delle possibili varietà del 4G – o, più precisamente una soluzione di transizione verso il 4G –, ma che, per la sua elevata affidabilità e anche per questioni legate alla definizione degli standard per le telecomunicazioni, ha finito per diventare la soluzione più rilevante del 4G (a svantaggio di altre tecnologie, quali il WIMAX). Con l'arrivo della nuova tecnologia LTE, gli operatori telefonici hanno dunque la necessità di adottare infrastrutture adeguate, o con nuove installazioni o, più certamente, adeguando gli impianti e i componenti delle SRB già esistenti. Tali interventi impattano evidentemente su un ulteriore aspetto, ai nostri fini rilevante: la gestione dei rapporti contrattuali con i locatori. Non appare infatti ancora chiaro se si procederà ad una rinegoziazione delle condizioni contrattuali già stabilite per l'installazione originaria, o se i gestori intendano piuttosto stipulare nuovi contratti.
Ma con quali maggioranze? Il potere di decidere su tali materie spetta evidentemente all'organo assembleare, che potrà o meno deliberare che l'amministratore condominiale conceda in locazione la parte comune dell'edificio allo stato inutilizzato. Chi intenda concedere in locazione spazi condominiali per l'installazione di antenne di telefonia mobile dovrebbe ad ogni modo valutare attentamente gli aspetti tecnici e legali – facendosi eventualmente assistere dai professionisti dei rispettivi settori. Nella redazione del contratto di locazione, in particolare, si dovrebbe così porre attenzione all'esatta specificazione degli spazi che si intendono locare, al fine di non ritrovarsi qualche struttura nella propria unità abitativa; all'inserimento dell'espresso divieto di sublocazione – prassi adottata da alcuni gestori; come pure alla determinazione di una durata del contratto di locazione non superiore ai nove anni. Si rammenta al riguardo che, per pacifico orientamento giurisprudenziale, è sufficiente il voto della maggioranza dei condomini qualora la durata del contratto non superi i nove anni; occorre invece, a pena di nullità, il voto unanime dei condomini nell'ipotesi di locazione ultranovennale. In realtà, l'individuazione della maggioranza necessaria, in sede di delibera assembleare, per approvare detta installazione si pone ancora come uno degli aspetti più problematici: la legge di riforma della materia condominiale (l. 11 dicembre 2012, n. 220) ha omesso di occuparsene, pur avendo espressamente disciplinato la fattispecie degli impianti fotovoltaici su spazi condominiali, assimilabile per certi versi a quella in questione.
in relazione alle differenti ipotesi previste per concedere in locazione una parte comune, si pongono in evidenza le seguenti regole:
– per la locazione delle parti comuni, quali ad esempio i locali dell'ex portierato o la centrale termica, o la facciata o il tetto ai fini pubblicitari, con contratto infranovennale – trattandosi di un atto di ordinaria amministrazione –, occorre l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio, per la validità della costituzione dell'assemblea, e un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio, per la validità del deliberato, in prima convocazione; in seconda convocazione si richiede, invece, l'intervento di un numero di condomini pari a un terzo del valore dell'edificio e a un terzo dei partecipanti, per la validità della costituzione dell'assemblea, e una maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenti almeno un terzo del valore dell'edificio, per la validità del deliberato (art. 1136, commi 1-3, c.c.);
– per la locazione delle parti comuni, con contratto di durata superiore a nove anni, sono necessari, in prima convocazione, i due terzi del valore dell'edificio e la maggioranza dei partecipanti al condominio, per la validità della costituzione dell'assemblea e l'unanimità dei consensi di tutti i partecipanti al condominio, per la validità del deliberato; in seconda convocazione, si richiede un terzo del valore dell'edificio e un terzo dei partecipanti, per la validità della costituzione dell'assemblea e l'unanimità dei consensi di tutti i partecipanti al condominio, per la validità del deliberato (artt. 1108, comma 3, e 1139 c.c.).

La giurisprudenza, sia di legittimità che di merito (in particolare, Trib. Milano, 23 ottobre 2002, n. 12663; Trib. Genova, 12 aprile 2006, n. 1385) si è, dal canto suo, frequentemente espressa sulla necessità del consenso unanime: in particolare,Trib. Milano, n. 12663/2002 ha considerato l'installazione di «un impianto di dimensioni rilevanti nella parte sopraelevata dell'edificio» quale innovazione vietata ex art. 1120, comma 4 (già 2). Detto impianto, a giudizio del Tribunale, «avrebbe comportato una indubbia disarmonia e di conseguenza un'alterazione al decoro architettonico, avendo [peraltro] l'edificio particolare pregio in quanto progettato da un noto architetto»; e in ragione del fatto che parte del lastrico solare sarebbe stato occupato dall'impianto in questione, «ne sarebbe altresì derivato un pregiudizio non tollerabile, in quanto non temporaneo (tale installazione sarebbe durata per nove anni), né saltuario».
In Trib. Genova, n. 1385/2006, si è inoltre rilevato che «L'assemblea condominiale ha […] la possibilità di concedere, anche a terzi il godimento di beni comuni, realizzando quindi per i condomini una forma di “godimento indiretto” derivante dalla percezione del relativo canone: tale possibilità tuttavia è subordinata all'impossibilità dell'uso diretto, anche in via ternaria del bene comune (Cass. n. 10446 del 21 ottobre 1998). Con la delibera impugnata è stata assunta a maggioranza la decisione di locare una porzione del lastrico solare […] certamente un bene comune, ai sensi dell'art. 1117 cod. civ., ma altresì suscettibile, nel caso di specie, di godimento diretto da parte dei singoli condomini. Come accertato a seguito della CTU […], “il tipo di pavimentazione scelto (piastrelle, in luogo del manto di catrame), la presenza della ringhiera (riscontrabile in altri edifici coevi e associata alla calpestabilità della terrazza, l'accesso diretto dal vano scale tramite porta di dimensioni regolari, consentono di ritenere che la destinazione, principale del lastrico fosse anche quella di terrazzo”, (cfr. sentenza citata) destinato pertanto, in via principale alla fruizione diretta. Manca pertanto, in relazione al bene in oggetto, il presupposto richiesto perché sorga il potere assembleare di statuire forme di godimento indiretto del bene».
Anche il Tribunale di Genova ha poi giudicato l'installazione in questione quale innovazione vietata – con conseguente annullabilità di una delibera approvata a mera maggioranza; «né vale sul punto obiettare – ha specificato il giudice – che oggetto della delibera è solo la stipula del contratto di locazione e non già l'installazione dell'opera: è evidente infatti che il contratto di locazione è l'oggetto immediato della delibera, il cui oggetto mediato è, pacificamente, il consenso all'installazione dell'opera cui la locazione è finalizzata».

Fonte http://www.condominioweb.com/un-nuovo-business-per-i-condomini-le-antenne-per-telefonia.12460#ixzz41BaJNVdJ
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giovedì 18 febbraio 2016

Recupero spese di consulenza tecnica d'ufficio: tra decreto di liquidazione e azione ordinaria. Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Recupero spese di consulenza tecnica d'ufficio: tra decreto di liquidazione e azione ordinaria. La rivisitazione della materia operata dalla Corte di Cassazione (sentenza 08.11.2013 n. 25179).
Sempre più di sovente il Consulente tecnico d’ufficio deve rivolgersi al proprio legale di fiducia per ottenere il pagamento di quanto spettante in conseguenza dell’incarico ricevuto e regolarmente espletato.
Nulla questio nel caso in cui la causa nell’ambito della quale il ctu è stato nominato sia ancora in corso e lo stesso abbia già ottenuto il decreto di liquidazione delle spese.
In questo caso, infatti, decorso  il termine per l’impugnazione  del decreto, ex art.  170 del D. Lgs. 30.05.2002 n. 115, questo diviene irrevocabile e quindi titolo esecutivo per ottenere quanto spettante al consulente tecnico.
Nel caso in cui la causa è conclusa e la sentenza ridefinisce l’obbligo delle parti di provvedere al pagamento delle spese di ctu, potrebbe nascere qualche incertezza su come potere azionare la pretesa economica del tecnico d’ufficio.
A questo proposito, principalmente deve rilevarsi che la prestazione resa dal consulente tecnico nominato nell’ambito di un processo civile svolge una funzione di interesse comune delle parti del giudizio.
Tale interesse assorbe e trascende quello proprio e particolare delle singole parti, con la conseguenza che il regime dell’onere delle spese della consulenza tecnica d’ufficio e l’obbligo del relativo pagamento deve prescindere sia dalla disciplina del riparto delle spese tra le parti che dal regolamento finale delle spese tra le stesse.
Ne discende che il principio di soccombenza attiene soltanto al rapporto tra le parti e non opera nei confronti del consulente d’ufficio rendendo inopponibile al CTU la pronuncia sulle spese contenuta nella  sentenza che abbia definito il giudizio.
Dunque la sentenza può regolare le spese di CTU esclusivamente con riguardo ai diritti di rimborso interni alle parti, salvo il diritto del consulente di agire esecutivamente sulla base del decreto anche dopo la sentenza e indipendentemente dalle statuizioni in esse contenute.
A questo punto ci si chiede: il ctu ha l’obbligo di attivare in executivis il decreto di liquidazione nei confronti della parte ivi indicata oppure può attivarsi per ottenere il pagamento anche nei confronti dell’altra parte?
La Giurisprudenza di legittimità ha più volte sancito il principio della solidarietà delle spese di ctu tra le parti in causa (tra le altre Cassazione civile, sez. II, 30/12/2009, n. 28094 secondo cui “In tema di consulenza tecnica di ufficio, il compenso dovuto al consulente è posto solidalmente a carico di tutte le parti, atteso che l'attività posta in essere dal professionista è finalizzata alla realizzazione del superiore interesse della giustizia, che invece non rileva nei rapporti interni tra le parti, nei quali la ripartizione delle spese è regolata dal diverso principio della soccombenza”.
Secondo tale orientamento e dal principio solidaristico ne discende che il ctu ha la possibilità di azionare in via monitoria o ordinaria la propria pretesa al fine di ottenere titolo esecutivo nei confronti della parte non indicata nel decreto di liquidazione.
E ciò perché "... la consulenza tecnica d'ufficio è strutturata, essenzialmente, quale ausilio fornito al giudice....., piuttosto che quale mezzo di prova in senso proprio e, così, costituisce un atto necessario del processo che l'ausiliare compie nell'interesse generale superiore della giustizia e, correlativamente, nell'interesse comune delle parti. Da tale intrinseca natura dell'istituto, ed in particolare, dal dato che la prestazione dell'ausiliare è effettuata in funzione di un interesse comune delle parti.......che, cosi, assorbe e trascende quello proprio e particolare......discende... che il regime sull'onere delle spese sostenute dal consulente tecnico per l'espletamento dell'incarico e sull'obbligo del relativo pagamento, deve prescindere sia dalla disciplina sul riparto dell'onere delle spese tra le parti che dal regolamento finale delle spese tra le stesse, che deve avvenire sulla base del principio della soccombenza (cfr. Cass. civ. Sez. 2, 15 settembre 2008 n. 23586; Cass. civ. Sez. 1, 7 dicembre 2004 n. 22962; Cass. civ. Sez. 1, 8 luglio 1996 n. 6199).
L’obbligazione solidale, quindi, sussiste a prescindere dalla pendenza del giudizio e comunque anche dopo la definizione dello stesso con sentenza che definitivamente riparte il carico delle spese anche in maniera diversa rispetto al decreto di liquidazione. 
Altra Giurisprudenza, considerando l’esistenza del decreto di liquidazione - titolo esecutivo, nega la possibilità di instaurare altra procedura volta all’ottenimento da parte del CTU di altro titolo per il recupero del credito, in quanto ciò determinerebbe la violazione del principio ne bis in idem.
In questo modo, qualsiasi altro titolo avrebbe ad oggetto lo stesso petitum e la stessa causa petendi del titolo già esecutivo nelle mani del consulente (Cass. Civ. 26.06.2006 n. 14737; Cass. 21.07.2004 n. 13518).
Alla luce di questi principi e in presenza di un decreto di liquidazione di spese munito di formula esecutiva, il CTU non può fare altro che azionare tale titolo non potendo la sentenza rappresentare titolo per il recupero del proprio credito.
La Giurisprudenza di legittimità, quindi, non è stata omogenea  nel dettare le regola della materia, così rendendo necessario un coordinamento dei vari principi di diritto.
La sentenza n. 25179 dell’08.11.2013 della Corte di Cassazione ha finalmente chiarito i termini del dibattito e dato un collegamento armonico ai principi di diritto via via enunciati.
In primis, l’appena citata decisione ha confermato che l’unico rimedio riconosciuto al consulente tecnico è quello di attivare il decreto di liquidazione quale titolo esecutivo nei confronti della parte ivi indicata.
Tuttavia, tale regola è stata armonizzata con il principio dell’obbligazione solidale delle spese di ctu rilevando che le parti in causa sono solidalmente responsabili del pagamento delle competenze del tecnico e, quindi, il consulente tecnico può attivarsi in via ordinaria o monitoria per il recupero del proprio credito soltanto qualora la parte indicata nel decreto di liquidazione sia rimasta inadempiente.
In sintesi il CTU deve, a prescindere dalla pendenza del processo e dalle eventuali disposizioni in ordine al riparto delle spese contenute nella sentenza, preliminarmente attivare il decreto di liquidazione in formula esecutiva nei confronti della parte ivi indicata e soltanto sussidiariamente, in caso di inadempienza, attivarsi in via ordinaria nei confronti dell’altra parte.
Pertanto la recente decisione, pur chiarendo l’esistenza dell’obbligo in capo al ctu di soddisfare il proprio credito per solo tramite del decreto di liquidazione in formula esecutiva, ha ammesso in virtù del principio di solidarietà delle spese della consulenza tecnica e nel caso inadempienza dell’obbligato, la possibilità di ottenere anche in corso di causa altro titolo nei confronti dell’obbligato solidale.





(www.StudioCataldi.it) 

lunedì 15 febbraio 2016

Can che abbaia non morde, ma disturba la quiete... Un'analisi della giurisprudenza in merito Fonte: (www.StudioCataldi.it)

I cani, si sa, non hanno altro modo di esprimersi e comunicare se non abbaiando: spesso lo fanno per mostrare la loro felicità, altre volte per comunicare un disagio.
I cani che abbaiano spesso sono quelli che restano da soli tutto il giorno e quindi vogliono comunicare solitudine, impazienza e paura. Ma spesso se l'amico a quattro zampe abbaia troppo, il proprietario ne è responsabile nei confronti dei vicini di casa o di appartamento.
Il cane che abbaia incessantemente, sicuramente disturba. Ma tra il diritto esistenziale pacifico degli animali e il disturbo delle persone, quando scatta la responsabilità del proprietario?
Certamente il legame e la convivenza dell'uomo con l'animale ha fatto scaturire e aumentare le norme a salvaguardia degli animali. 
Vediamo come si comporta la giurisprudenza.
La Cassazione Penale (N. 36241/2004) ha sentenziato che: "non ha importanza se a lamentarsi per i latrati dei cani è un solo vicino. A fare scattare la responsabilità del proprietario dell'animale, infatti, non è l'effettivo raggiungimento di plurime persone, ma la potenzialità diffusiva dell'abbaiare dell'animale, che deve essere oggettivamente idonea a disturbare le occupazioni o il riposo".
La Cassazione, nel caso sopra citato, ha condannato il proprietario per disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone per "non aver impedito il latrato dei propri cani che, di giorno e di notte, in aperta campagna rendevano impossibile il riposo e la quiete delle persone".
Diversamente ha opinato il Giudice di Pace di Rovereto (Sentenza del 11.8.2006) stabilendo che abbaiare è un "diritto esistenziale" dei cani, e di conseguenza che il collarino anti-abbaio che il proprietario aveva messo al proprio cane per non farlo abbaiare era invece uno strumento lesivo dei diritti dell'animale.
Successivamente la Suprema Corte (N. 715/2010) ha statuito che il proprietario di un cane deve evitare che sia arrecato disturbo ai vicini di casa. Diversamente risponderà del reato previsto e punito dall'art. 659 c.p.
Si tratta, ha chiaramente spiegato la Corte nella pronunzia sopra indicata, di una contravvenzione in cui "l'elemento psicologico dell'illecito è costituito dalla mera volontarietà della condotta". Questa volontarietà peraltro si può desumere da oggettive circostanze di fatto "senza che risulti necessaria l'intenzione dell'agente di disturbare la quiete pubblica".
Il reato sussiste, dunque, quando il fatto di per sè risulta idoneo ad "arrecare fastidio a un numero indeterminato di persone" anche a prescindere da fatto che sia provato l'effettivo disturbo arrecato, e il loro abbaiare supera la normale tollerabilità.
Sul criterio della normale tollerabilità, ha specificato poi, che : " il criterio va riferito alla media sensibilità delle persone che vivono nell'ambiente ove i rumori fastidiosi vengono percepiti, mentre e' irrilevante la eventuale assuefazione di altre persone che abbiano giudicato non molesti i rumori".
In un' altra pronunzia della Cassazione Penale (N. 715/2011), è stato puntualizzato che: "La responsabilità dei proprietari di cani che, abbaiando, disturbano il riposo notturno del vicinato sono suscettibili di contravvenzione per disturbo della quiete pubblica, poiché non hanno impedito il molesto abbaiare.
Anche nel caso sopra indicato la Corte ha condannato il proprietario del cane, precisando che "per la sussistenza dell'elemento psicologico della contravvenzione di cui all'art. 659 c.p., attesa la natura del reato, è sufficiente la volontarietà della condotta desunta dalle obbiettive circostanze di fatto, non occorrendo, altresì, l'intenzione dell'agente di arrecare disturbo alla quiete pubblica (Cass., Sez. 1^, 26/10/1995, n. 11868) mentre elemento essenziale della fattispecie di reato in esame è l'idoneità del fatto ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone e non già l'effettivo disturbo alle stesse (Cass., Sez. 1^, 13/12/2007, n. 246).
Ed ancora la Corte di Cassazione, Sezione Penale (N. 4706/2011) ha condannato a due mesi di carcere i proprietari dei cani poiché gli stessi non hanno in nessun modo impedito le molestie derivanti dall'abbaiare dei cani, nonostante le proteste del vicinato.
Di diverso avviso e in controtendenza rispetto alla giurisprudenza di legittimità, la pronunzia del Tribunale di Lanciano nella quale si legge che "abbaiare è un diritto sacrosanto del cane, specie quando aiuta l'uomo nella difesa della sua proprietà. Lo ha stabilito il giudice del tribunale di Lanciano (2012 - Giudice Dott. Giancarlo De Filippis), a conclusione di un procedimento civile d'urgenza.
I due cani sono stati accusati dai vicini di disturbare con il loro abbaio, ma il Giudice ha stabilito che i cani hanno tutto il diritto di abbaiare, specie se qualcuno o qualcosa si avvicina al loro territorio di riferimento e purchè non si superi la soglia di tollerabilità stabilita nel codice.
Ed ancora, più di recente, la Suprema Corte ha statuito che risponde del reato di cui all'art. 659 c.p. chi non impedisce il molesto abbaiare del proprio cane (N. 44916/2013 commentata su questo sito).
La vicenda ha visto coinvolta una coppia di coniugi che in seguito alla condanna del Tribunale di Salerno, per schiamazzi e rumori provocati dall'abbaiare del loro cane, sono approdati in Cassazione.
Nel caso in esame gli Ermellini hanno statuito che risponde del reato di cui all'art. 659 c.p. chi non impedisce il molesto abbaiare del proprio cane anche se custodito nella sua proprietà e ciò se l'accaduto viene confermato dall'intero condominio.
L'interessante pronunzia di merito (Tribunale di Lucca, 10/01/2014, N. 40) ha statuito che se il continuo abbaiare di un cane, custodito nell'appartamento condominiale, supera la normale soglia di tollerabilità, ed il condomino non si attiva per risolvere tale situazione, lo stesso è obbligato al risarcimento dei danni patiti da uno dei condomini.
Nel primo giudizio la proprietaria di un immobile aveva citato la condomina del piano sottostante, chiedendo al giudice di pace una sentenza di condanna per la cessazione delle immissioni rumorose provocate dal continuo abbaiare del cane. Il Giudice di pace dopo aver rilevato che l'abbaiare del cane superava la normale soglia di tollerabilità, aveva ordinato alla proprietaria dell'animale di adottare accorgimenti per risolvere i rumori molesti provocati dal cane.
Tale sentenza di condanna, tuttavia, non ha prodotto gli effetti sperati sino a provocare nella vicina di casa un vero e proprio disturbo psichico causato dal continuo abbaiare del cane. Conseguentemente quest'ultima chiama dinnanzi al Tribunale di Lucca la proprietaria del cane onde ottenere il risarcimento del danno.
Il Giudice ha dichiarato fondata la domanda presentata dalla condomina-danneggiata dai rumori del cane, constatando che la sentenza del Giudice di Pace aveva già accertato che le immissioni rumorose determinate dal continuo abbaiare del cane superavano la normale soglia di tollerabilità, e considerando che tale sentenza era divenuta irrevocabile: tale circostanza, e cioè quella dell'intollerabilità delle immissioni rumorose, non poteva più essere posta in discussione.
Il Tribunale ha anche riconosciuto il risarcimento per le lesione del diritto alla salute, danno biologico di natura psichica accertato dalla C.T.U., alla condomina danneggiata. La sentenza, quindi, ha rilevato che nel caso di specie "si rientra nello schema generale di risarcimento del danno ex art. 2043 e, trattandosi di danno che incide su un diritto inviolabile della persona, il superamento dei limiti di tollerabilità può essere apprezzato quale danno ingiusto ". (Cass.civ. sez. III, 13 marzo 2007, n. 5844).
Eclatante, da ultimo, la pronunzia del Tribunale di Bergamo del febbraio 2014, con la quale sono stati condannati i proprietari di un cane pastore tedesco che abbaiava nel giardino della villetta.
Complessivamente, tra spese legali e risarcimento del danno i proprietari del cane sono stati condannati a pagare l'importo di 25.000 euro.
Si è visto, con questo breve excursus, che una decina di anni fa la Suprema Corte ha riconosciuto il diritto del cane di potere abbaiare, connotandosi in una sorta di diritto esistenziale.
Successivamente però la giurisprudenza ha tutelato esclusivamente il "riposo" delle persone difettando in alcuni casi una valutazione concreta del caso esaminato, orientamento non superato dalle pronunzie di merito.
Ciò che è chiaro, in questo altalenarsi di pronunzie (vedasi anche la riforma del condominio che ha escluso la possibilità che i regolamenti condominiali vietino la presenza di animali negli appartamenti), è che il proprietario dell'animale ha comunque l'obbligo di impedire che quest'ultimo disturbi il riposo delle altre persone. Altrimenti scatta il reato per il proprietario. 
Vi è da aggiungere che il proprietario dell'animale è soggetto a doppia responsabilità, quella penale e quella civile. 
La responsabilità civile può sussistere quando il latrato infastidisce anche una sola persona e sia idoneo a disturbare le occupazioni o il riposo della gente. Il superamento della normale tollerabilità deve, comunque sussistere sempre.
La responsabilità penale, invece, sussiste quando i rumori prodotti dall'animale sono idonei a disturbare un numero indeterminato di persone. Per cui è esclusa la responsabilità quando i latrati rechino disturbo agli occupanti di un solo appartamento. Il reato, infatti, è previsto per tutelare la quiete e la tranquillità pubblica: "pubblica" appunto e non, invece, di un numero determinato di individui.
L'ordinamento italiano non può essere considerato all'avanguardia nella tutela dei diritti degli animali.
C'è ancora molta strada da percorrere: gli articoli 544 bis e seguenti del codice penale, l'art. 5 della Legge 189 del 2004 e, da ultimo, la ratifica della Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia, che stabilisce l'obbligo morale dell'uomo di rispettare tutte le creature viventi, sono di buon auspicio.

Fonte: Can che abbaia non morde, ma disturba la quiete... Un'analisi della giurisprudenza in merito 
(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 12 febbraio 2016

Danni e dispetti condominiali: non è più reato (da laleggeretutti.it)


Depenalizzazioni: ingiuria e danneggiamento semplice fuori dal codice penale, restano illeciti civili per i quali è possibile solo il risarcimento danni; andremo incontro a condomini far-west.
Il vicino di casa ti ha rigato la macchina con un chiodo all’interno del cortile comune o con un coltello ha forato i pneumatici?
Ti ha rotto la cassetta della posta?
Ti ha danneggiato il garage o graffiato la porta di casa con un temperino?
O, ancora, ti hanno rotto il vaso di fiori posto sul pianerottolo?
Hanno insozzato i muri del palazzo con gli spray o hanno scarabocchiato sulle pareti dell’ascensore?
Qualcuno ha gettato, dal suo balcone, una grossa mole d’acqua allo scopo di rovinare le tue poltroncine sul terrazzo?
Ebbene, tutte le volte in cui tali condotte siano state poste volontariamente, ossia con dolo, non saranno più punibili come reato. È questo l’effetto della recente depenalizzazione approvata dal governo che ha trasformato il danneggiamento semplice da illecito penale in illecito civile. La conseguenza è che non si potrà più sporgere querela e sanzionare il colpevole con la multa fino a 309 euro. L’unica carta rimasta al soggetto danneggiato è quella di avviare una causa civile per ottenere il risarcimento del danno, all’esito della quale il giudice applicherà anche una sanzione civile (che verrà però pagata allo Stato) da 100 a 8.000 euro nei casi più gravi. Ma se la vittima non adirà le vie legali, non scatterà neanche la sanzione e il colpevole la farà franca. Il presupposto per non parlare più reato è che i beni oggetto del danneggiamento si trovino negli spazi condominiali e non sulla pubblica via. Pertanto, il danno procurato all’auto parcheggiata sul ciglio della strada o ai vasi posti sul marciapiedi pubblico rientrano ancora nel penale. Al contrario se tali beni si trovano all’interno del condominio (per esempio, il cortile, il pianerottolo, ecc.) il reato non esiste più. 

Non solo. Sempre in materia di screzi condominiali, si potrà dire liberamente, al vicino di casa, quello che si pensa di lui: anche l’ingiuria, infatti, rientra tra i reati depenalizzati e non più querelabili, punibili solo con l’azione di risarcimento del danno e l’applicazione di una sanzione civile (anche in questo caso da 100 a 8.000 euro). Vi è di più: se la frase viene detta “a tu per tu”, senza cioè altre persone ad assistere al fatto, non potrà essere punita neanche in sede civile posto che la vittima non avrà testimoni a proprio favore (testimoni che, a differenza del penale, devono essere sempre soggetti terzi e mai le stesse parti del processo). Vivremo, dunque, in condomini far-west dove ognuno potrà distruggere i beni del vicino antipatico, senza il rischio di una condanna penale e di una fedina macchiata. Scopriremo la mattina che, per il voto contrario dato la sera in assemblea, le ruote della nostra auto sono state forate. Troveremo lo zerbino o le piante sul pianerottolo danneggiate.
La casistica è assai ampia e non serve troppa fantasia per immaginare quello che già ora avviene in molti condomini. Dovremo camminare con i telefonini in modalità “registrazione” per memorizzare le eventuali parolacce che ci dirà il dirimpettaio per la festa che abbiamo fatto il sabato precedente? E che succederà, se all’ennesimo “vaffa…” saremo noi a reagire con una spinta o un pugno all’indirizzo del vicino provocatore? Facile intuirlo: si passerà facilmente dalla parte della ragione a quella del torto. Poiché per le violenze è ancora prevista la sanzione penale, dovremo affrontare un giudice e a trovarci con il “carichi pendenti” segnato. 


mercoledì 10 febbraio 2016

Prescrizione spese condominiali per proprietario e inquilino - Fonte: www.laleggepertutti.com


Per quanto tempo può essere preteso il pagamento degli oneri condominiali: le spese a carico del padrone di casa e del conduttore in caso di affitto


La prescrizione delle spese di condominio segue un regime differente a seconda che tenuto al pagamento sia il proprietario dell’appartamento che l’inquilino. In particolare, il primo è tenuto a versare le somme direttamente all’amministratore, mentre il secondo, limitatamente alle sole spese di sua competenza, deve rifonderle al proprietario dell’appartamento, il quale poi le versa a sua volta all’amministratore (per lo schema delle spese a carico del padrone di casa e quelle a carico dell’inquilino, leggi “Spese di condominio: cosa paga l’inquilino e cosa il padrone di casa”). Vediamo le due ipotesi.

La prescrizione delle spese di condominio per il proprietario
Con riguardo alla spese condominiali dovute dal titolare dell’appartamento (sia che abiti personalmente l’immobile, sia che lo abbia dato in affitto), il codice civile prevede la prescrizione di cinque anni dei relativi crediti. Il termine inizia a decorrere dalla data della delibera assembleare di approvazione del rendiconto delle spese e del relativo stato di riparto. Tale delibera, costituisce il titolo del credito nei confronti del singolo condomino.

Entro tale termine, e non oltre, l’amministratore deve agire nei confronti del condomino moroso per il recupero del credito: è concesso lo strumento del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo (che, cioè, legittima l’esecuzione forzata senza dover necessariamente attendere 40 giorni dalla sua notifica).

La legittimazione dell’amministratore ad agire in giudizio nei confronti dei condomini inadempienti alle obbligazioni di spese deliberate dall’assemblea nell’interesse comune non esige una preventiva autorizzazione da parte dell’assemblea stessa rientrando la lite nelle ordinarie attribuzioni dell’amministratore stesso. Inoltre, in giurisprudenza si è più volte ribadito che il verbale dell’assemblea condominiale, contenente l’indicazione delle spese occorrenti per l’uso e la conservazione delle parti comuni, costituisce prova scritta idonea ad ottenere il decreto anche in mancanza del riparto, documento necessario, al contrario, per ottenere anche la clausola di provvisoria esecuzione.

Sembra che per gli oneri condominiali straordinari, dovuti una tantum e non a mese o ad anno, la prescrizione non sia di cinque anni ma di dieci.

La prescrizione delle spese di condominio per l’inquilino
Il locatore chiede al conduttore la parte di spese di condominio di sua pertinenza. Questi è tenuto a versarle entro 20 giorni, potendo richiedere i documenti giustificativi delle spese e del riparto. Tuttavia, la prescrizione per l’inquilino nel pagamento di tali oneri (cosiddetti oneri accessori, che cioè sono collaterali al canone di locazione) non è di cinque anni, bensì di due anni. Questo, almeno, è l’indirizzo più recente della giurisprudenza, per come chiarito da una recente sentenza della Cassazione.

Tale termine decorre da:

– se l’edificio in cui è ubicata l’abitazione è di proprietà di un singolo locatore, dalla data di chiusura della gestione del singolo esercizio annuale;

– se l’immobile è in condominio, dalla data in cui è stato approvato il consuntivo delle spese con delibera dell’assemblea dei condomini;

– negli altri casi, dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere

Se l’amministratore anticipa le spese
Per il credito per le somme anticipate nell’interesse del condominio dall’amministratore non trova applicazione la prescrizione quinquennale ma quella decennale. Il diritto al rimborso è però condizionato dalla presentazione del rendiconto e dall’approvazione dell’assemblea.

L’interruzione della prescrizione
La prescrizione potrebbe essere interrotta anche dal riconoscimento, esplicito o implicito, da parte del condomino moroso del credito vantato dal condominio (per esempio tramite sua approvazione o mancata impugnazione di un consuntivo e/o riparto di spese che riporta il suo debito pregresso).

In sintesi
Pertanto, ben potrebbe porsi la situazione in cui, pur essendo l’amministratore ancora nei termini per richiedere il pagamento delle spese condominiali nei confronti del proprietario dell’immobile (termine che, come si è detto, si prescrive dopo 5 anni), quest’ultimo non potrebbe più chiedere all’inquilino la restituzione della sua parte (in quanto tale pretesa può essere fatta valere entro massimo due anni).

martedì 9 febbraio 2016

Infiltrazioni d'acqua: paga il condominio (fonte studiocataldi.it)

E' purtroppo assai frequente che degli immobili subiscano danni a causa di alcune infiltrazioni d'acqua.
Non sempre però è chiaro chi sia l'effettivo responsabile di simili danni.
A tal proposito, con la recente sentenza numero 95 del 2015, il Tribunale di Firenze è intervenuto a fare chiarezza su un'ipotesi specifica inerente tale questione: quella in cui a subire danni sia il conduttore di un esercizio commerciale.
In particolare, le infiltrazioni erano derivate dalla fuoriuscita d'acqua da un pozzetto di decantazione di proprietà del condominio e avevano danneggiato la cantina del locale, il muro perimetrale e la pavimentazione.
Orbene, nel caso di specie la responsabilità, come sancito dal giudice, non è del conduttore, ma del condominio.
Nonostante il locatore si sia rivolto giudizialmente contro il proprietario dell'appartamento, infatti, il tribunale toscano ha chiarito che nessuna responsabilità debba essere addebitata a quest'ultimo.
Sicuramente il locatore, ai sensi dell'articolo 1575 e 1576 del codice civile, deve consegnare la res locata in buono stato di manutenzione ed è tenuto a conservarla in condizioni tali da renderla idonea all'uso convenuto.
Tuttavia, in tal caso, il danno era derivato dal pozzetto di decantazione, appartenente al condominioQuest'ultimo, quindi, avrebbe dovuto provvedere a risarcire i danni subiti dal conduttore dell'esercizio commerciale. Non certo il locatore, il quale, peraltro, si era diligentemente attivato nei confronti del condominio, per ottenere le riparazioni necessarie e il risarcimento del danno subito dal conduttore.



(www.StudioCataldi.it) 

lunedì 8 febbraio 2016

Condominio: legittimo addebitare al condomino le spese legali liquidate in un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo (Fonte: StudioCataldi.it)

Con la sentenza numero 751/2016, depositata il 18 gennaio, la Corte di cassazione ha sancito la legittimità di una delibera condominiale con la quale, in via ricognitiva, erano stati addebitati al singolo condomino le spese legali liquidate a suo carico (e a favore del condominio) in un provvedimento giurisdizionale, nella specie un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo.
In un'ipotesi come quella in esame, infatti, per i giudici non può parlarsi di autoliquidazione di spese stragiudiziali da parte del condominio, ma di spese liquidate dal giudice.
Nel caso di specie il condomino lamentava che le spese gli sarebbero state addebitate senza un provvedimento con il quale ne era stata sancita la soccombenza, essendo all'epoca ancora pendente il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Ma le ragioni dell'uomo, come accennato, non hanno trovato accoglimento.
I giudici, più nel dettaglio, hanno ricordato che è pur vero che deve ritenersi nulla la delibera con la quale un'assemblea condominiale ponga a totale carico di un condomino le spese del legale del condominio per una procedura che sia stata iniziata contro di lui, in assenza di una sentenza che ne sancisca la soccombenza.
Tuttavia, nel caso di specie si verteva in una situazione diversa, in quanto, pur in pendenza del giudizio di opposizione, le spese richieste dal condominio erano state liquidate da un giudice, in decreti ingiuntivi provvisoriamente esecutivi.
Nulla da fare quindi per il condomino moroso: oltre alle spese del legale per il decreto ingiuntivo emesso contro di lui, egli si trova ora costretto anche a pagare le spese del giudizio di Cassazione!



(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 5 febbraio 2016

Spese condominiali: senza tabelle, decide il giudice come ripartirle Fonte: Spese condominiali: senza tabelle, decide il giudice come ripartirle (www.StudioCataldi.it)

Laddove manchino tabelle millesimali approvate da tutti i condomini, è il giudice che stabilisce, seguendo le norme di legge in materia, i criteri di ripartizione delle spese condominiali.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, sez. II Civile, nella sentenza n. 1548/2016 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso di un Condominio che, con decisione confermata in sede di appello, si era visto revocare un decreto ingiuntivo nei confronti di un condomino a seguito dell'opposizione di quest'ultimo.
Il provvedimento monitorio era stato ottenuto e reso provvisoriamente esecutivo al fine di ingiungere il pagamento della somma asseritamente dovuta per oneri condominiali inevasi, tuttavia il proprietario ne otteneva l'annullamento in quanto emesso in base a pretesa creditoria del Condominio non fondata su dati certi e sulla esistenza di tabelle millesimali approvate.
I giudici di merito confermavano che la parte opposta - attrice in senso sostanziale - non aveva fornito la prova dell'esistenza e dell'entità del credito ingiunto.
Il Condominio, dinnanzi agli Ermellini contrariamente assume che "la produzione del verbale dell'assemblea condominiale che approva il rendiconto" sarebbe stata di per sé idonea a soddisfare le condizioni di ammissibilità richieste per l'adozione del decreto ingiuntivo.
Inoltre, parte ricorrente si duole dell'erroneità dell'impugnata sentenza in quanto anche in assenza di valide tabelle, il singolo condomino non poteva sottrarsi all'obbligo pagamento ed in quanto il Giudice stesso adito avrebbe dovuto determinare egli stesso i valori in base ai quali ripartire le spese.

Per il collegio, nonostante la particolarità della vicenda in esame contrassegnata dalla pacifica assenza di una valida ed approvata tabella millesimale di ripartizione delle spese deliberate dall'assemblea condominiale, i motivi sono da ritenersi fondati.

In effetti, la delibera con cui venivano ripartite le spese (idonea di per sé alla valida emissione dell'opposto D.I.) "ben poteva ritenersi non adeguatamente idonea a comprovare nel giudizio di opposizione la pretesa creditoria del Condominio", stante l'inesistenza di valide tabelle eccepita dall'opponente.
Ma in una simile situazione, e anche al fine di evitare comunque una sorta di esenzione generalizzata del pagamento a carico del debitore, incombeva comunque sul Giudice un onere, in particolare "un obbligo di verifica dell'esistenza, validità ed efficacia della delibera in conformità del valore delle singole posizioni condominiali anche in assenza tabelle regolari" e anche il dover verificare "se la pretesa del Condominio era o meno conforme a criteri di ripartizione".

I giudici richiamano un principio già espresso in materia di riparto di spese condominiali: "qualora non possa farsi riferimento ad una tabella millesimale approvata da tutti i condomini, il condomino non può sottrarsi al pagamento della quota, spettando al giudice di stabilire se la pretesa del condominio nei confronti del singolo condomino sia conforme ai criteri di ripartizione che, con riguardo ai valori delle singole quote di proprietà sono stabiliti dalla legge in 'subiecta materia', determinando egli stesso in via incidentale, anche in assenza di specifica richiesta al riguardo, i valori di piano o di porzioni di piano espressi in millesimi"

Tale assunto ha lo scopo di assicurare le condizioni di corretta continuità gestionale dell'ente condominiale: infatti, dinnanzi all'assenza di una valida approvata tabella e al cospetto dell'opposizione di un condominio, non potrebbe comunque crearsi e legittimarsi una situazione di totale sottrazione all'obbligo di contribuire alle spese comuni e, quindi, di paralisi del condominio stesso.
Il ricorso va pertanto accolto, la sentenza impugnata cassata con rinvio al giudice d'Appello competente.

Fonte: Spese condominiali: senza tabelle, decide il giudice come ripartirle 
(www.StudioCataldi.it) 

giovedì 4 febbraio 2016

Agevolazioni fiscali per la casa e condominio - Legge di Stabilità 2016

La Legge di Stabilità 2016 (Legge 28 dicembre 2015, n. 208) ha introdotto alcune novità per quanto riguarda i fabbricati.


Oltre alla proroga dei bonus fiscali per gli interventi di ristrutturazione delle abitazioni (per i lavori realizzati e pagati in tutto il 2016 è stato confermato il recupero fiscale del 50% dell'importo delle opere), quelli per l'efficientamento energetico (65% per i lavori realizzati e pagati fino al 31/12/ 2016), quelli del 50% per acquisto mobili e grandi elettrodomestici, sono state studiate alcune innovazioni:


a) detrazione 19% Irpef dei canoni di leasing relativi all'acquisto e/o costruzione di immobile abitativo (abitazione principale entro un anno dall'acquisto o dalla consegna), versati tra il 2016 ed il 2020, per giovani di età inferiore a 35 anni e reddito complessivo entro i 55mila. Per chi ha più di 35 anni di età sono dimezzate le spese massime ammissibili.


b) detrazione del 50% dell'IVA pagata all'impresa costruttrice per l'acquisto di fabbricati abitativi, realizzati in classe energetica A o B (per acquisti fatti entro la fine del 2016);


c) Cessione della detrazione fiscale per efficientemente energetico sulle parti condominiali, spettante al condomino moroso, alla impresa che ha realizzato dette opere.


Per altri approfondimenti, dateci il tempo di studiare la Legge di Stabilità 2016…… e seguite il nostro blog!!!! :)

lunedì 1 febbraio 2016

Danni alla persona in condominio: quando l'amministratore può considerarsi effettivamente responsabile? Fonte www.condominioweb.com

Com'è noto, in ambito prettamente civilistico, in condominio sussiste la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia, risultando l'amministratore dello stabile anche custode dello stesso, per la sua potestà di fatto sulla cosa.
Egli, pertanto, e per esso l'intero condominio, risulterà responsabile ex art. 2051 c.c. per il danno cagionato dalla cosa, in virtù del fatto che sullo stesso incombe un obbligo di vigilanza e controllo su questa, al fine di evitare che rechi pregiudizio a terzi, salva la prova del caso fortuito.
Tralasciando questo aspetto, occupiamoci della responsabilità personale dell'amministratore, da un punto di vista penalistico.
Ebbene, in caso di danno, la fattispecie criminosa in contestazione è quella di cui all'art. 590 c.p., per il reato di lesioni colpose, per il quale: “Chiunque cagiona ad altri per colpa una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a euro 309. Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da euro 123 a euro 619, se è gravissima (c.p. 583), della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da euro 309 a euro 1.239. …. Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque. Il delitto è punibile a querela della persona offesa (c.p. 120; c.p.p. 336), salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale”.
Ci troviamo, pertanto, dinnanzi ad un'ipotesi di reato colposo, perseguibile a querela della persona offesa, salvo i casi più gravi (III comma), dove la procedibilità è d'ufficio.
Per i giudici della Suprema Corte: “perché possa ritenersi sussistente la responsabilità colposa di colui che è investito di una posizione di garanzia (nella specie, l'amministratore di un condominio) quanto alla produzione dell'evento lesivo, deve verificarsi in concreto sia la sussistenza della violazione di una regola cautelare (generica o specifica) sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (c.d. concretizzazione del rischio)”(Cass. pen. Sez. IV, 18/03/2014, n. 14000).
E' stato vieppiù specificato come: “la nozione di colpa penalmente rilevante, e segnatamente di quella c.d. generica, derivante da inosservanza di regole cautelari riconosciute, ruota intorno ai criteri della prevedibilità e della evitabilità: perchè di imprudenza e negligenza è evidentemente possibile parlare solo allorquando era prevedibile che dall'azione (o dall'omissione) sarebbe derivato l'evento nocivo, e solo allorchè questo era in concreto prevenibile” (Cass. pen. Sez. IV, 14/10/2010, n. 36780).
Ben può accadere che Tizio, in qualità di amministratore di condominio, venga chiamato a rispondere di lesioni personali colpose, per aver omesso di garantire il buon funzionamento del sistema di eliminazione delle acque meteoriche e condotte di scarico ostruiti da materiale vario (foglie, residui di polistirolo e altro), con il conseguente ristagno di acqua piovana su una rampa di pertinenza del condominio, sulla quale scivolava Caio, vittima di ferite e lesioni che hanno cagionato una malattia di durata superiore a quaranta giorni.
Questo è il caso sottoposto, da ultimo, al vaglio della Corte di Cassazione, deciso dalla IV sezione penale, sopra richiamata.
In primo e secondo grado l'amministratore di condominio veniva assolto con la formula “perché il fatto non sussistite”.
Proponeva, pertanto, ricorso per cassazione la costituita parte civile, sostenendo l'erroneità della sentenza di secondo grado, per avere il Tribunale escluso la colpa dell'amministratore, senza tener conto dello specifico obbligo di vigilanza che sullo stesso incombe ex art. 1130 c.c.
Nel caso di specie era stato rilevato come la causa della scivolata e, conseguentemente, delle lesioni subite da Tizio, costituitosi parte civile, era stata identificata nella formazione della "pozza di acqua piovana", in corrispondenza di una griglia del pozzetto con funzioni di deflusso delle acque meteoriche.
Ciò posto si era giunti alla conclusione per cui, l'evento non si sarebbe verificato (“con elevato grado di credibilità razionale”), qualora la griglia fosse stata sgombera da residui. Tanto è vero che, così come affermato dai testi, liberato lo scarico dal materiale che lo ostruiva, l'acqua ha ripreso regolarmente a defluire.
Tuttavia, non poteva affermarsi la responsabilità penale dell'amministratore, per avere lo stesso, provveduto con diligenza alla "manutenzione costante di rampa e pozzetto provvedendo alla pulizia di tombini e canalette", come dimostrato dalla documentazione in atti (fatture) e dalla mancata denunzia, da parte dei condomini, di problemi di siffatto genere quand'anche verificatisi in precedenza, come risultava dai verbali delle assemblee condominiali.
Ciò posto, in mancanza di prova contraria, l'evento lesivo doveva ritenersi imprevedibile, essendo dovuto a circostanze (allagamento) di natura eccezionale.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14000, del 2 aprile 2015, condivide tali assunti, affermando il seguente principio di diritto: “perché possa ritenersi sussistente la responsabilità colposa di colui il quale sia investito di una posizione di garanzia, quanto alla produzione dell'evento lesivo, deve verificarsi in concreto sia la sussistenza della violazione di una regola cautelare generica o specifica, sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire, c.d. concretizzazione del rischio”.
In merito all'imputazione per il reato previsto e punito dall'art. 590 c.p., “per avere l'amministratore del condominio, omesso di assicurare il buon funzionamento del sistema idraulico di eliminazione delle acque meteoriche provocando la caduta della p.o. che scivolava in prossimità della griglia posta a protezione del fossetto per il deflusso delle acque piovane, a causa della presenza di ingente quantità di acqua accumulatasi, deve escludersi l'elemento soggettivo della colpa, in difetto di violazione della specifica regola cautelare e della prevedibilità ed evitabilità dell'evento, conseguenza di un allagamento eccezionale ed imprevedibile”.
Pertanto, l'amministratore di condominio è esente da responsabilità per lesioni colpose, allorquando, sia l'eccezionalità dell'evento, sia la condotta gravemente imprudente dello stesso danneggiato, nel caso concreto la parte civile "è scesa da una rampa carrabile anziché servirsi delle scale pedonali", risultino tali da connotare d'imprevedibilità l'evento.



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