giovedì 19 maggio 2016

Che cosa succede se non si approva il rendiconto? Fonte www.condominioweb.com

Il rendiconto condominiale è quel documento che l'amministratore deve presentare all'assemblea e che contiene il quadro economico-finanziario del condominio in relazione all'anno di gestione appena trascorso e comunque più in generale alla situazione finanziaria della compagine.
L'amministratore, giova ricordarlo, è tenuto a presentare il rendiconto di gestione entro centottanta giorni dalla chiusura dell'esercizio al quale si riferisce (art. 1130 n. 10 c.c.); la norma fa riferimento al lasso temporale ma non al momento da cui parte il conteggio. Una lettura complessiva degli articoli dedicati al documento contabile lascia intendere che i suddetti centottanta giorni decorrano da quel momento.
È altresì utile rammentare che l'omessa o tardiva presentazione del rendiconto all'assemblea può portare alla revoca giudiziale dell'amministratore per gravi irregolarità nella gestione (Art. 1129, dodicesimo comma n. 1, c.c.).
L'approvazione del rendiconto da parte dell'assemblea– che può comunque essere soggetto a revisione negli anni successivi (art. 1130-bis c.c.) – fa sì che le spese in esso indicate – a livello generale e rispetto ai singoli condòmini – siano fatte proprie dell'assemblea stessa che, in quel modo, ratifica o comunque certifica o prende atto dell'operato dell'amministratore per l'anno precedente. Eccezion fatta per il caso di errori nella ripartizione delle spese, di deliberazioni con maggioranze inferiori a quelle prescritte dalla legge, oppure di eccesso di potere, falsità o incompetenza, il rendiconto non è contestabile. In altre parole: non ci si può rivolgere all'Autorità Giudiziaria per chiedere che dichiari illegittima l'approvazione di una spesa che era nelle prerogative dell'assemblea approvare, se la suddetta approvazione è avvenuta nel rispetto della legge.

Si rammenti che il rendiconto è validamente approvato:
a) in prima convocazione, dalla maggioranza dei presenti (anche per delega) in assemblea che rappresentino almeno la metà del valore dell'edificio;
b) in seconda convocazione, dalla maggioranza dei presenti (anche per delega) in assemblea che rappresentino almeno un terzo del valore dell'edificio (cfr. art. 1136, secondo e terzo comma, c.c.).
L'approvazione del rendiconto e del relativo riparto, è utile ricordarlo, consente la richiesta di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c.
E se l'assemblea, per qualunque motivo, non approva il rendiconto? Il problema principale, in casi del genere, sta nella mancanza di uno strumento di facile soluzione per l'aggressione di determinate situazioni di morosità. I motivi sono quelli esposti appena sopra. Eppure non tutto è perduto.
Si supponga che i condòmini giustamente lo ritengano errato: in tal caso è fondamentale che si richiedano all'amministratore le correzioni ritenute indispensabili, chiedendo la convocazione di una successiva assemblea per ridiscuterlo. In simili circostanze nulla vieterebbe ai condòmini non in linea con il pensiero della maggioranza che ha deliberato in tal senso, di impugnare quella delibera laddove sussistano i presupposti per intravedere un'ipotesi di eccesso di potere del consesso assembleare. In questi casi l'azione di recupero del credito non è impossibile, ma certo molto più difficile dovendosi instaurare un ordinario giudizio civile.

Fonte http://www.condominioweb.com/che-cosa-succede-se-non-si-approva-il-rendiconto.12656#ixzz47oLkLeVA
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lunedì 16 maggio 2016

Il consuntivo deve essere trasparente: pena l'annullamento della delibera condominiale Fonte www.condominioweb.com


Il consuntivo del condominio non può essere paragonato ai complessi bilanci delle società ma prevede comunque requisiti minimi di trasparenza: viene dunque annullata la delibera che approva il consuntivo pur con la maggioranza prescritta se le poste indicate non consentono effettivamente di controllare la gestione dell'amministratore.
Questo è il principio di diritto espresso dal Tribunale di Roma con la sentenza n. 24446 del 7 dicembre 2015 in merito alla validità del rendiconto consuntivo.
I fatti di causa. Tizio, in qualità di proprietario di un immobile, con citazione impugnava la delibera assembleare, in quanto le voci indicate nel piano dei riparti del rendiconto, apparivano poco fedeli all'andamento gestionale; pertanto, chiedeva l'annullamento della delibera per violazione dell'articolo 1135 c.c. Costituendosi in giudizio, il Condominio convenuto, contestava in toto l'impugnativa del condomino.
Il problema: il rendiconto è poco trasparente. Orbene, preliminarmente, giova ricordare che il nuovo art. 1130-bis c.c. specifica che
"il rendiconto condominiale contiene le voci di entrata e di uscita ed ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve, che devono essere espressi in modo da consentire l'immediata verifica.
Si compone di un registro di contabilità, di un riepilogo finanziario, nonché di una nota sintetica esplicativa della gestione con l'indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti
".
Dall'analisi della norma, riviene un primo principio che è quello secondo il quale il rendiconto deve rappresentare la situazione reale del condominio, intendendosi, con questa espressione, non solo il divieto di inserire nel rendiconto dati falsi, ma anche il divieto di inserire nel rendiconto dati "putativi" o "immaginari" o situazioni non realmente effettuate. Altro principio basilare è quello di redigere un rendiconto con un metodo che faciliti il controllo dei dati presenti in questo documento; sicché, il problema, semmai, è quello di individuare il metodo o il criterio più corretto per raggiungere tali obiettivi: il sistema che permette di raggiungere tutti questi obbiettivi è il c.d. principio di cassa, ossia le spese effettivamente sostenute e le entrate effettivamente riscosse (In tal senso Cass. civ. sez. III, 9 maggio 2011 n. 10153).
Premesso ciò, nella vicenda in esame, il consulente tecnico incaricato dal giudice, sulla scorta della documentazione fornita dalle parti, ha evidenziato che il rendiconto censurato non era rispettoso ed attuatore dei principi di verità e chiarezza; invero, il documento contabile è stato approvato in violazione delle prescrizioni dell'articolo 1135 c.c. perché non offriva una rappresentazione della gestione condominiale né realistica e né veritiera come prevede la legge. Difatti, a parere del CTU, i requisiti minimi di comprensibilità della redazione del consuntivo, devono essere garantiti soprattutto quando ci si discosta dalle comuni tecniche della ragioneria che rappresentato uno specchio fedele dall'effettivo andamento gestionale.
L'interpretazione del Tribunale di Roma
. A tal proposito, il giudice adito, conformemente ai principi esposti, ha avuto modo di precisare che nel caso in cui il resoconto contabile presenti risultanze che, quanto a pertinenti profili di chiarezza e intellegibilità, non appaiono idonei a rendere una realistica e veritiera rappresentanza dell'amministrazione dell'ente condominiale, il pertinente elaborato assembleare, quand'anche sorretto da un quorum approvativo, deve ritenersi affetto da invalidità (nella specie, annullabilità).Ne consegue che, laddove l'assemblea approvasse un documento contabile carente dei detti caratteri, la delibera si porrebbe in sostanziale violazione delle prescrizioni dell'art. 1135 c.c., il quale, nel delineare le competenze dell'assemblea, implicitamente presuppone che le delibere, attraverso cui l'azione di amministrazione trova esplicazione, costituiscano uno specchio fedele dell'effettivo andamento gestionale. (In senso conforme si è espresso anche il Tribunale di Roma con la sentenza n. 104 del 7 gennaio 2016)
Le conclusioni. Alla luce di tutto quanto innanzi esposto, Il Tribunale aditopreso atto delle conclusioni del CTU, peraltro non contestate dal convenuto condominio, ha ritenuto invalidi i bilanci consuntivi approvati; per l'effetto, l'impugnativa del condomino è stata accolta con conseguente annullamento della delibera.


Fonte http://www.condominioweb.com/il-consuntivo-del-condominio-prevede-requisiti-minimi-di-trasparenza.12650#ixzz47oL45JLW
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giovedì 12 maggio 2016

Il fondamento tecnico del “diritto di condominio”: la relazione di accessorietà. Quando cose, impianti e servizi possono definirsi comuni Fonte: (www.StudioCataldi.it)


Si presumono di proprietà comune, se il contrario non risulta dal titolo, tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l'alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune; le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.
Ogni condomino può servirsi degli anzidetti beni, a patto che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.
Tanto emerge dal combinato disposto dagli artt. 1117 e 1102 c.c., norme cardine approntate dall'ordinamento vigente per definire i beni comuni e disciplinarne l'utilizzo.
Tuttavia, la Corte di CassazioneSeconda Sezione Civile, con sentenza n. 24296, del 27.11.2015, ha precisato che: "Il presupposto per l'attribuzione della proprietà comune in favore di tutti i compartecipi viene meno, se le cose, gli impianti, i servizi di uso comune, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, siano necessari per l'esistenza o per l'uso (ovvero siano destinati all'uso o al servizio) di alcuni soltanto dei piani o porzioni di piano dell'edificio".
Evidenza la Suprema Corte, con la sentenza in commento, che il fondamento tecnico del diritto di condominio, in altre parole, il diritto che ogni singolo condomino può legittimamente vantare su beni o servizi comuni, è da individuarsi nella relazione di accessorietà che lega quel determinato bene o servizio alla singola unità immobiliare, e cioè dal collegamento strumentale, materiale e funzionale consistente nella destinazione all'uso o al servizio della medesima.
Lo spunto per enunciare i predetti principi di diritto, viene fornito dal ricorso per cassazione proposto da un condomino che, in primo grado, conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Cosenza il Condominio per la declaratoria di nullità di una delibera condominiale, con la quale l'assemblea aveva deliberato in merito alla demolizione della parte finale di una canna fumaria e la contestuale chiusura della stessa.
A dire del condomino, ciò avrebbe compromesso il suo diritto all'utilizzo di tale impianto, collegato con il camino sito in un locale al piano terra di sua proprietà.
Resisteva in giudizio il Condominio il quale deduceva che la demolizione della canna fumaria era necessaria in virtù dell'accertato pericolo di crollo e, comunque, in considerazione del mancato utilizzo della medesima da parte dei condomini sin dal 1985, attesa la trasformazione dell'impianto di riscaldamento da centralizzato in autonomo. Evidenziava altresì l'illegittimità del collegamento realizzato dal condomino tra il camino del suo locale posto a piano terra e la canna fumaria comune, siccome mai autorizzato e limitativo del diritto degli altri condomini.
Il Tribunale, all'esito della disposta consulenza tecnica d'ufficio, dichiarava nulla la delibera condominiale e confermava il diritto del condomino all'uso della canna fumaria condominiale.
La sentenza veniva completamente riformata, in secondo grado, dalla Corte d'Appello di Catanzaro, che affermava come i proprietari delle unità immobiliari i quali per ragioni di conformazione dell'edificio non sono mai stati serviti dall'impianto termico centralizzato di cui faceva parte la canna fumaria oggetto di causa, tra cui il condomino istante, non sono titolari di alcun diritto comune sull'impianto medesimo, non essedo lo stesso legato alle unità immobiliari dalla relazione di accessorietà, non esistendo alcun collegamento strumentale, materiale e funzionale, consistente nella destinazione all'uso o al servizio.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 24296/2015, conferma la sentenza della Corte d'Appello e, pertanto, rigetta definitivamente il ricorso del condomino.
La stessa – dopo avere condiviso l'assunto di secondo grado per il quale, il locale magazzino di cui il ricorrente è proprietario non era servito dall'impianto termico centralizzato quando questo era in esercizio; il condomino ha realizzato all'interno del locale un caminetto che ha provveduto a collegare alla canna fumaria –, richiamando un proprio precedente, evidenzia che: "il proprietario dell'unità immobiliare (nella specie, magazzino) che, per ragioni di conformazione dell'edificio, non sia servita dall'impianto di riscaldamento centralizzato, non può legittimamente vantare un diritto di condominio sull'impianto medesimo, perché questo non è legato alla detta unità immobiliari da una relazione di accessorietà (che si configura come il fondamento tecnico del diritto di condominio), e cioè da un collegamento strumentale, materiale e funzionale consistente nella destinazione all'uso o al servizio della medesima" (Cfr.: Cass. civ., Sez. II, 7/06/2000, n. 7730).
Ciò posto ha ritenuto corretto il ragionamento della Corte d'appello che ha escluso che l'utilizzazione della canna fumaria, per lo scarico dei fumi dal camino realizzato nel magazzino a piano terra, rientrasse in un'ipotesi di uso frazionato della cosa comune, non essendo l'impianto termico e la canna fumaria, per oggettivi caratteri strutturali e funzionali, a servizio di quel locale.
In altra fattispecie, è stato parimenti ritenuto che: "Affinché possa operare, ai sensi dell'art. 1117 cod. civ., il cosiddetto diritto di condominio, è necessario che sussista una relazione di accessorietà fra i beni, gli impianti o i servizi comuni e l'edificio in comunione, nonchè un collegamento funzionale fra primi e le unità immobiliari di proprietà esclusiva. Pertanto, qualora, per le sue caratteristiche funzionali e strutturali, il bene serva al godimento delle parti singole dell'edificio comune, si presume - indipendentemente dal fatto che la cosa sia, o possa essere, utilizzata da tutti i condomini o soltanto da alcuni di essi - la contitolarità necessaria di tutti i condomini su di esso. Detta presunzione può essere vinta da un titolo contrario, la cui esistenza deve essere dedotta e dimostrata dal condomino che vanti la proprietà esclusiva del bene, potendosi a tal fine utilizzare il titolo - salvo che si tratti di acquisto a titolo originario - solo se da esso si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della corte di appello che aveva ritenuto non superata la presunzione di comunione del muro sul quale poggiava la costruzione realizzata dal dante causa del ricorrente, non avendo quest'ultimo fornito la prova della proprietà esclusiva del muro perimetrale su cui si innestavano i manufatti edificati, a nulla rilevando che parte del detto muro "si aprisse" su un terrazzo di proprietà esclusiva del ricorrente stesso)". (Cass. civ. Sez. II Sent., 21/12/2007, n. 27145. Si veda anche: Cass. civ. Sez. III, 13/03/2009, n. 6175; Cass. civ. Sez. II, 16/04/2007, n. 9093; Cass. civ. Sez. II, 18/01/2005, n. 962).
Peraltro, per come ricordato a più riprese dalla stessa Corte di Cassazione (Sent.: 17332/2011; 19939/2012; 2305/2008), la relazione di accessorio e principale fonda "ipso iure e facto" la creazione del cd. supercondominio, e tanto senza bisogno di approvazioni assembleari, sempre se il titolo non dispone altrimenti. Ciò avviene quando i singoli edifici, costituiti in altrettanti condomini, abbiano in comune talune cose, impianti e servizi legati attraverso la predetta relazione tra accessorio e principale, la cui proprietà rimarrà comune e "pro quota" in capo agli intestatari delle singole unità immobiliari comprese nei diversi fabbricati. 



(www.StudioCataldi.it) 

venerdì 6 maggio 2016

Il distacco dall'impianto termico comune non può essere condizionato da una contraria deliberazione Fonte condominioweb.com

La facoltà del singolo condòmino di distaccarsi unilateralmente dall'impianto di riscaldamento centralizzato integra un suo diritto individuale, che può essere fatto valere nei confronti del Condominio a prescindere dall'esistenza di una delibera di autorizzazione o di diniego. Questo il principio espresso dalla sentenza del Tribunale di Taranto n. 240 del 25 gennaio 2016.

Il giudice pugliese di rifà alla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale il diritto dal distacco dall'impianto termico comune non può essere condizionato da una contraria deliberazione dell'assemblea di condominio che, se adottata in termini pregiudizievoli per il singolo condòmino, è tamquam non esset, cioè nulla (Cass. civ. 3.4.2012 n. 5331).La sentenza sottolinea altresì che il distacco opera per il futuro. Dunque non è consentito chiedere restituzioni o danni relativi ad anni precedenti, non potendo la rinunzia avere effetti retroattivi.
Tale impostazione, del resto, trova conferma nell'art. 1118 c.c., modificato dalla legge di riforma del condominio, che disciplina il distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento. Pur non potendo applicare la nuova disciplina ad una vicenda che è precedente all'entrata in vigore della L. n. 220/2012 (18 giugno 2013), tuttavia il giudice tarantino, attraverso i precedenti della Cassazione, ha comunque risolto la controversia secondo i principi recepiti dalla riforma.
Nel caso di specie, in particolare, il condòmino si era già da tempo distaccato dall'impianto centralizzato, dotandosi di un impianto autonomo. Tuttavia, era stato costretto a continuare a pagare tutti i costi relativi all'utilizzo ed alla manutenzione dell'impianto comune.
Dopo aver chiesto invano la modifica della tabelle millesimali, il condòmino decideva di rivolgersi al giudice per essere esentato dal pagamento delle spese di consumo del combustibile e gestione dell'impianto di riscaldamento centralizzato dell'anno corrente. Il Condominio si opponeva, sostenendo l'obbligo di continuare a pagare le spese necessarie per la conservazione e la gestione dell'impianto comune. Ciò anche alla luce del fatto che l'unità immobiliare distaccata continuava a godere del calore, grazie alle tubature condominiali che circondavano l'appartamento.
Il Tribunale di Taranto, dopo aver ribadito il diritto del condòmino a distaccarsi dall'impianto di riscaldamento comune, individua le condizioni ricorrendo le quali il diritto al distacco prevalenei confronti dell'altro diritto del condominio, altrettanto meritevole di tutela, di ottenere da tutti i condòmini la partecipazione alle spese comuni.
In particolare, la rinunzia all'impianto comune non deve comportare uno svantaggio per gli altri condòmini che continuano ad usufruire del bene comune. Tanto in coerenza con il principio generale che un atto unilaterale (nel nostro caso, il distacco) non può svantaggiare coloro che ne subiscono gli effetti, fatta salva l'unanimità.
Si tratta di svantaggi che la giurisprudenza e, oggi, il nuovo art. 1118 c.c., individuano in uno squilibrio termico pregiudizievole all'impianto o in un aggravio di spese per coloro che continuano ad usufruirne, intendendo per spese quelle che strettamente connesse al distacco e che senza di questo non avrebbero avuto origine.
Solo se prova la sussistenza di tali condizioni, il condòmino potrà legittimamente distaccarsi e sarà esonerato dal pagamento del costo del combustibile, per il solo fatto di non godere più del servizio. Egli rimarrà, però, onerato del pagamento delle spese di conservazione dell'impianto e, quindi, proprio perché animate dalla stessa finalità conservativa, sia di quelle relative ad opere di manutenzione ordinaria che straordinaria (si veda in questo senso la nuova formulazione dell'art. 1118 c.c.)
Il Tribunale specifica altresì che l'efficacia del distacco, proprio perché condizionata alla verifica delle condizioni predette, vale solo per il futuro, senza effetti retroattivi. Dunque, non possono essere chieste restituzioni di somme di denaro già deliberate; la rinunzia all'impianto centralizzato può operare solo dall'anno successivo al momento della proposizione della domanda (Cass. civ. 13.11.2014 n. 24209). Naturalmente, tale regola della irretroattività del distacco si deve conciliare con il principio per cui la durata del processo non può ritorcersi in danno del condòmino che ha agito in giudizio. Ragione per cui le restituzioni saranno possibili con riguardo al periodo che va dall'anno successivo alla presentazione della domanda in poi.
Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto ampiamente provate le condizioni richieste e, dunque, ha dichiarato legittimo il distacco operato dal condòmino, esonerando lo stesso dal pagamento delle spese di consumo dell'impianto termico comune a decorrere dal 2013 (anno di proposizione della domanda) e non dal 2012, come richiesto in citazione.
Permane, invece, l'obbligo di contribuire alle spese di conservazione e manutenzione dell'impianto centrale.


Fonte http://www.condominioweb.com/la-facolt%E0-del-singolo-cond%F2mino-di-distaccarsi-dallimpianto-di-riscaldamento.12511#ixzz42XWL2Qex
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mercoledì 4 maggio 2016

CTU da rinnovare se non corrisponde alla realtà dei fatti - Cass. Civ. 18422/2013 (Est. Pasquale D'ASCOLA) Fonte: (www.StudioCataldi.it)

Ragionando sull'art. 844 Codice Civile l'accertamento della tollerabilità o meno delle immissioni ("di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino", stando al dettato codicistico) inerisce non già ad un presupposto processuale, ma si riferisce ad una condizione dell'azione.
Come sottoporla a verifica?
Con l'ingresso di una consulenza tecnica d'ufficio.
Ma che accade se tale indagine è stata già svolta, ma non rispecchia più la realtà dei fatti?
Occorre rinnovare la CTU.
Ciò non era stato fatto dalla Corte d'Appello di Milano con la sentenza depositata il 17 novembre 2009 di reiezione dell'impugnazione avverso l'accoglimento della domanda avanti al Tribunale di Busto Arsizio.
Il Tribunale di prime cure aveva ordinato all'officina meccanica convenuta di contenere entro i limiti di normale tollerabilità le immissioni di rumore e di vibrazioni, quantificando in € 30.000,00 il risarcimento spettante per i pregiudizi allo stabile dei vicini.
Tra l'altro, come sottolinea tra le righe la Cassazione, il giudice del gravame si è prodotto in una motivazione apparente.
La Suprema Corte menziona quale utile precedente giurisprudenziale Cass., Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9379, Pres. Corrado Carnevale, Rel. Pietro Campanile, in quel caso censurando la pronuncia della Corte d'Appello di Bari che, parimenti, aveva disatteso la richiesta di rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio.
Anche in tale episodio non si rinveniva alcuna valida motivazione, neppure implicita, dal momento che la CTU veniva ritenuta "scollegata dalla realtà".
Al riguardo gli Ermellini di Piazza Cavour richiamavano il condivisibile orientamento della Corte di legittimità secondo cui il giudice, quando non aderisca alla richiesta di rinnovazione delle indagini tecniche, in ordine alla quale istanza siano state mosse specifiche ragioni, è tenuto a motivare sul punto, all'evidenza intriso di decisività.
Ed allora la S.C., accogliendo il secondo motivo di ricorso, boccia l'opera del Collegio territoriale, recependo il secondo motivo di appello, malgrado le conclusioni del PM (Dr. Carmelo SGROI) che invocava il rigetto integrale del ricorso per cassazione.
Cass., Sez. II, 1° agosto 2013, n. 18422, Pres. Roberto Michele TRIOLA ed Est. Pasquale D'ASCOLA, osserva che nella fattispecie i motivi che sorreggevano l'istanza di rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio non miravano affatto ad un controllo sull'operato dell'ausiliare o all'ingiustificata ripetizione di un'attività già svolta, ma sorgevano da specifici fatti nuovi di portata imponente "quale sicuramente è l'esecuzione di costosissime opere volte all'abbattimento delle immissioni".
Va aggiunto che il giudizio tecnico in atti era riferito ad interventi proposti nel 2002, vale a dire molto tempo prima rispetto alla richiesta della parte interessata alla rinnovazione, che avrebbe potuto e dovuto contemplare anche gli svariati interventi eseguiti dopo tale epoca.
Toccherà ora ad una diversa composizione e Sezione della Corte di Appello di Milano provvedere al riguardo. 


(www.StudioCataldi.it)